I mattoni cominciarono a venir giù mentre dormivo. Ebbi il tempo di alzarmi e correre, riuscii ad afferrare abiti e scarpe dalla sedia. Polvere e calcinacci mi cadevano addosso. Una trave precipitò sulla rampa di scale che avevo appena superato. Tenendomi al corrimano saltai di corsa quattro gradini per volta. Riuscii a mettere la testa fuori dal faro prima che la lanterna centrale rovinasse al suolo di schianto.
Onde violente si abbattevano contro gli scogli, schiumando. Mi infilai in fretta abiti e anfibi. Non avevo più nulla. Un rifugio, i pochi oggetti che accompagnavano le mie giornate, i documenti, i contanti e il bancomat. Il mare in tempesta non era più violento di altre volte. Era stato un crollo strano, come se i mattoni si fossero sgretolati dall’alto in basso, seguendo la mia discesa nella torre. Abbandonai alle mie spalle il cumulo di macerie e mi avviai verso i lampioni del piccolo paesino. Mi aggirai tra le strade silenziose, battute dal vento, in cerca di qualche luce ancora accesa. Il laboratorio era illuminato. Attraverso la grata di ferro, allungai la mano e cercai di richiamare l’attenzione del panettiere. Girò la testa verso di me, con le mani ancora nell’impasto. Mi riconobbe. Tornò al lavoro, come se a battere contro il vetro fosse stato un insetto molesto. Continuai a battere sul vetro.
– Ho bisogno di aiuto, fammi entrare.
Dalla finestra di una casa lì accanto qualcuno urlò:
– Se non la smetti chiamiamo la polizia. Torna al faro e restaci.
– E’ crollato.
Non mi lasciò continuare. Disse:
– Dovevi pensarci prima di diventare un’eremita sempre chiusa là dentro.
La finestra si richiuse con un tonfo sordo, la luce si spense.
Ero arrivata tre anni prima, vestita più o meno come adesso. Jeans lisi e sdruciti, maglietta e gilet, anfibi veg, bracciali di ossidiana e magnesite . In spalla uno zaino e in mano una piccola valigia. Dimostravo una ventina d’anni ma ne avevo trentotto, Erano seccati dai miei dreadlock. Mi accorsi subito che fissavano la mia testa come fosse quella di Medusa. Col tempo, quando capirono che ero una farista esperta, smisero di trattarmi con sufficienza. Volevo solo stare a contatto con la natura, non avere nessuno intorno, guardare il mare tutto il giorno. Attivavo la riserva se andava via l’elettricità, sostituivo la lampada centrale quando necessario. Più volte il mare in tempesta si era abbattuto contro il faro, ma non avevo paura, sapevo che avrebbe retto. Quella torre era il mio rifugio, mi sentivo al sicuro. Andavo in paese una volta a settimana, per prendere e restituire libri in biblioteca. Per il cibo mi bastava andarci una volta al mese.
Dovevo avvisare il Comando, almeno per le navi in transito.
– Vieni dentro.
La voce arrivava da una porta socchiusa alle mie spalle. Intravedevo il lume di una candela, tremolante per il vento che si intrufolava. Mi avventurai oltre la soglia. Lo sconosciuto, tenendo un dito sulle labbra, mi fece segno di sedermi. Aveva lunghi capelli candidi, in parte nascosti sotto una lunga mantella blu. Sparì con un fruscio dietro una tenda, ricomparve, poggiò un libro sul tavolo davanti a me. Un volume di un centinaio di pagine, copertina blu cobalto. Lessi il titolo in lettere dorate in sovraimpressione: Il faro. Avvicinandosi al mio orecchio sussurrò:
– Puoi restare qui a leggerlo.
Poggiò due candele sul tavolo, salutò con la mano e sparì di nuovo dietro la tenda. Non sapevo chi fosse, se abitasse lì da solo, né perché mi stesse offrendo riparo. Sentivo profumo di formaggio messo a stagionare. Avrei dovuto telefonare al Comando, dormire, invece ero lì, seduta, in piena notte, in casa di un barbuto signore di almeno cent’anni. Sollevai la copertina, cercai l’indice: non c’era. Sentivo sotto i polpastrelli la sottile carta filigranata. Cominciai a leggere la prima pagina: la torre del faro illumina la terra e indica la via. Mi sistemai meglio sulla sedia e andai avanti. La forza della luce porta conforto nel buio dello smarrimento. Il vento stava calando, ero quasi a metà libro. Presi la seconda candela, l’accesi e la fissai al moccolo della prima. Il matto fugge davanti alla prova, immemore dell’aiuto ricevuto. Scrocchiai il collo, sciolsi la schiena, fuori albeggiava. La terza candela era consumata a metà. Continuai a leggere, aspettandomi da un momento all’altro il ritorno del mio benefattore. L’eremita ripara dalla tempesta la lanterna, la avvolge nel proprio mantello. Levandosi di notte, riprende il sentiero interrotto. Il buio gli ha dato riparo e conforto. Il crollo delle certezze spinge lontano dal mare. Non volevo andarmene da lì. Il vecchio sbucò da dietro la tenda, mi porse una valigia e un sacchetto con del cibo. Disse:
– Quando arrivasti qui, sapevi anche tu che non era per sempre. Dovevi ritrovare il coraggio di andare. Ora puoi farlo, ormai lo sai che vivere è come giocare a morra cinese. Mentre parlava, mi sentivo come i mattoni del faro. Sgretolata e ammonticchiata sull’orlo di un dirupo, senza più luce per aiutare le navi. Eppure avevo voglia di giocare di nuovo. Dovevo solo rimettermi in viaggio e cercare una nuova via.
Grazia Palmisano nasce a Martina Franca l’ultimo giorno di gennaio del ’67. Se ne va prima a Torino nel ’91 e poi a Corsico nel 2009. Scrive il primo racconto a 28 anni, poi più niente fino a 36. Da lì riprende, continuando a fasi alterne. Legge ogni volta che ha tempo, sia narrativa che saggistica. Dal 2015 cura un blog personale http://graziapalmisano.wordpress.com.
E’ stata fra i tredici vincitori al book pride anno 2017. Il 12.02.2021 è stato pubblicato un suo inedito su Verde Rivista. Ne verrà pubblicato un altro sul n° 65 de L’Irrequieto.
Grazie a te di cuore per averlo proposto a noi!