Il limite come luogo creativo

In una società come quella odierna si parla spesso di limiti, sebbene quasi sempre in senso negativo: ogni limitazione, specie alla libertà individuale e all’espressione della propria personalità, è percepita come un sopruso, un’oppressione indebita. Oggi vogliamo provare ad attribuire un nuovo valore, attraverso riflessioni mutuate dall’ambito teologico-religioso, al limite in quanto luogo creativo.

Il limite di Dio: una voce ebraica

Hans Jonas, filosofo tedesco di origine ebraica, pubblica nel 1987 il testo Il concetto di Dio dopo Auschwitz: il punto di partenza della sua riflessione risiede nel fatto che, dopo l’orrore dell’olocausto e dello sterminio perpetrato dal regime nazista, è necessario ripensare il concetto di Dio; le categorie teologiche tradizionali, dice Jonas, non bastano più.

La direzione intrapresa da Jonas è quella di una teodicea sui generis; attraverso l’esposizione di un mito teo-cosmogonico da lui stesso concepito – e che l’autore stesso ammette che possa essere ritenuto per certi versi quasi blasfemo dalla teologia tradizionale ebraica – si appresta a mostrare come il fondamento divino dell’essere decise, per motivi imperscrutabili, di esporsi «al caso, al rischio e alla molteplicità infinita del divenire. E lo fece in modo totale, senza riserve: abbandonandosi all’avventura dello spazio e del tempo, la divinità non tenne nulla per sé», e continua: «Affinché il mondo fosse e fosse per sé stesso, Dio deve aver rinunciato al proprio essere; deve essersi spogliato della propria divinità per riaverla di nuovo nella odissea del tempo»[1]. Prima della comparsa dell’uomo, e conseguentemente della conoscenza e della libertà, regna l’innocenza, quando invece l’umano fa capolino nella storia dell’universo «l’innocenza […] lascia il posto al compito della responsabilità»[2]. Dio segue l’agire dell’uomo «trattenendo il respiro e facendosi sentire, senza entrare direttamente nella dinamica del dramma che si svolge sul palcoscenico del mondo»[3].

Dopo questa eco di shakespeariana memoria, si coglie compiutamente la visione di Jonas: Dio sta in disparte, segue gli sviluppi della storia umana come uno spettatore a teatro; non è né regista, né attore.

L’autore riconosce che questo mito potrebbe essere scambiato per un vagheggiare infondato, e si cura quindi di ricondurre tre implicazioni teologiche che emergono dal suo racconto alla religione ebraica. Dalla narrazione affiora l’idea di un Dio sofferente, diveniente[4] e premuroso: in definitiva, un Dio che non rimane chiuso nella sua sfera di divinità, ma si lascia coinvolgere – senza intervenire direttamente – negli avvenimenti del creato.

La riflessione di Jonas arriva poi al punto focale del breve saggio, ossia la questione dell’onnipotenza divina.

L’esistenza di un mondo imperfetto, spiega l’autore, implica un aut-aut: o si mette in dubbio l’unicità di Dio, o si nega l’onnipotenza divina, poiché si deve ammettere che questi abbia concesso qualcosa all’altro da sé da lui stesso creato.

Jonas voleva dunque giungere a questo punto, alla rinuncia della dottrina di un Dio onnipotente; afferma infatti che, dal punto di vista logico, il concetto di potenza assoluta è contraddittorio, poiché questa per essere tale non deve essere limitata da nulla, ergo: non potrebbe esistere nulla di diverso da essa. Se una potenza assoluta esistesse, non avrebbe alcun oggetto su cui esercitare il proprio potere; questo perché la potenza è un concetto di relazione e, spiega Jonas, esige un rapporto multipolare[5]. La conclusione è la seguente: perché vi sia potenza, deve essere ripartita tra più soggetti.

Jonas avanza nella sua esposizione riallacciandosi, stavolta, al leitmotiv tipico della teodicea: ci sono tre attributi apparentemente indispensabili da conferire al divino per poterlo ritenere tale: bontà assoluta, potenza assoluta e comprensibilità. L’autore afferma che soltanto due sono irrinunciabili: la bontà e la comprensibilità[6]. Il fattore discriminante per procedere alla spogliazione di Dio dell’attributo non indispensabile alla sua natura è la presenza del male nel mondo; soltanto negando l’onnipotenza divina si possono ammettere la sua bontà e comprensibilità, e l’esistenza del male.

Un esempio di ciò è il fatto che durante i nefasti avvenimenti di Auschwitz Dio resta muto e «i miracoli che accaddero furono unicamente opera di uomini»[7]; Jonas utilizza anche un’espressione forte, parla di abdicazione divina nei confronti del corso fisico del mondo[8].

Ecco il limite, già emerso quando si è parlato dell’avvento dell’uomo nel mondo: «Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza»[9]. L’idea di limite che si vuole qui affrontare si sente con ancor più forza quando Jonas tratta della creazione ex nihilo: proprio in questo istante, Dio decide di non essere più assoluto e si auto-aliena.

In questo passaggio e nei seguenti, l’autore rilegge in maniera funzionale alla sua interpretazione la dottrina dello Tzimtzùm. Si tratta di un concetto cosmogonico fondamentale nella Qabbalah di Yitzchàq Luria. Tzimtzùm significa “concentrazione” o “contrazione”, ma per Luria si preferisce tradurre “ritiro” e “ritorno”. Al contrario del Midrash, in cui si afferma che Dio concentrò la sua sacra presenza nel Santo dei Santi, quindi in un solo punto, Luria sostiene che il ritrarsi di Dio non avvenga in quanto “concentrazione in un luogo”, ma piuttosto come ritiro fuori da un luogo[10].

La conclusione cui giunge Luria, e Jonas con lui, è la seguente: «Dio – per garantire la possibilità del mondo – dovette rendere vacante nel suo essere una zona». Soltanto in questo luogo reso abitabile grazie al ritrarsi della potenza divina, c’è spazio per la libertà e la responsabilità umane. Nel e dal nulla che rimane dopo il ritiro di Dio, questi crea il mondo.

Dopo questa riflessione mutuata dalla Qabbalah, Jonas chiude il suo testo così: «Dopo essersi affidato al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all’uomo»[11].

Sulla chiusura delle considerazioni anticonvenzionali di Jonas riguardo l’auto-limitazione di Dio, si innesta una riflessione che prende le mosse da un testo di ben più grande caratura: la Bibbia, in particolare i racconti della creazione in Genesi 1 e 2, e la tentazione del serpente in Genesi 3.

Il limite a livello antropologico: la creazione in Genesi

Spostandoci ora sul piano terreno, e non più concernente soltanto il soprannaturale, ci troviamo di fronte a una serie di limitazioni che Dio mette in atto per permettere la vita sulla Terra.

Nei racconti della creazione, però, il limite si manifesta in vario modo: prende la forma della separazione, ad esempio, tra luce e tenebra, tra acque sotto il firmamento e sopra il firmamento, tra terra e mare, o ancora, tra le stagioni, i giorni e gli anni grazie agli astri. In tutte queste vicendevoli limitazioni, ciò che accade è l’apertura di uno spazio in cui l’alterità possa esistere[12]. Un’importante considerazione da fare è che Dio stesso, ad ogni nuova creazione, si pone a distanza e ne riconosce la bellezza prima di passare all’operazione successiva.

A questo punto del racconto biblico si tratta ancora e soltanto degli elementi inanimati e delle bestie, ma tutto muta quando si giunge alla creazione dell’uomo.

La disposizione delle parole e la loro ricorrenza qui diviene fondamentale: in Gen 1,26 si dice infatti: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, come nostra somiglianza», ma già al versetto 27 la formulazione cambia: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò». Il termine somiglianza sparisce e questo genera confusione. Basilio di Cesarea, su questa questione si esprimeva così: «[Dio] ha parlato; avrebbe poi cambiato opinione? La Scrittura non dice questo […].  (Ci ha creati all’immagine e) capaci di assomigliare a Dio, ha permesso che siamo gli artigiani della somiglianza a Dio […]; mi ha affidato la cura di diventare a somiglianza di Dio» (Sull’origine dell’uomo, omelia 1,15-16).

La somiglianza resta dunque per l’uomo un compito da realizzare; ma come? Sicuramente imitando il modus operandi del creatore stesso: «accogliendo il limite, il dominio mite, la parola, certamente, ma anche la presa di distanza e la meraviglia»[13].

All’uomo, poi, in Gen 2, 8-15, viene subito data l’occasione di mettere in pratica questa mansione tramite il suo legame con la terra, elemento dal quale è stato tratto, e che ora, secondo il comando divino, deve custodire e amministrare con cura: anche qui, l’uomo è chiamato ad esercitare, sì, un dominio sul giardino edenico, ma che non si imponga come sfruttamento, bensì come servizio.

Dopo il dono del giardino, Dio, in Gen 2, 16-17, impone anche un limite, il più noto: «Di ogni albero del giardino mangiare mangerai, ma dell’albero del conoscere bene e male non ne mangerai, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai certamente morirai».

Le interpretazioni nei confronti di queste righe si sprecano nella storia della teologia e dell’esegesi biblica, vediamo dunque con ordine gli elementi presenti nel comando.

Si tratta in primo luogo, anche se spesso viene dimenticato, di un limite che segue un dono: all’uomo viene donato tutto il creato e data la possibilità di mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma, in seguito, ecco comparire il divieto di mangiare di un preciso albero.

Secondo l’interpretazione di André Wénin, teologo belga, il limite posto dalla divinità non ha nulla a che vedere con la volontà che l’uomo resti nell’ignoranza; si tratta invece di una limitazione che apre la strada a una possibile relazione.

Il fatto, poi, che l’albero oggetto del divieto sia quello del conoscere bene e male è emblematico: di nuovo, qui, Wénin avanza l’idea che il limite abbia a che vedere con la conoscenza interna alla relazione; «nel cuore di ogni relazione, la non-conoscenza – e il suo corollario costitutivo, il non-dominio sull’altro – gioca un ruolo essenziale»[14] e questo, sempre secondo il teologo, rende chiaro il perché la traduzione “conoscere bene e male” sia valida. Il comando vuole infatti mostrare all’uomo il giusto modo di conoscere e relazionarsi con il creato e le creature, specialmente con la donna, come vedremo in seguito: il sapere suggerito da Dio propone di accogliere e rispettare un limite. Viene dunque rigettata l’idea di un «sapere inglobante, come farà credere il serpente»[15] per fare spazio a quel genere di conoscenza che si acquisisce soltanto a poco a poco, nella relazione con l’altro.

I passi del racconto di Gen 2 che narrano della creazione della donna pongono nuovamente in luce la questione del limite, della relazione e del limite nella relazione: nella narrazione, infatti, si rende evidente che né l’uomo né la donna conoscono l’altrui origine, ed ecco il primo limite. Il secondo limite invece si realizza nella forma di una mancanza: all’uomo viene sottratta una costola perché Dio possa creare la donna.

Come già visto, ad ogni limite corrisponde un dono, e in questo caso la costola mancante e il mistero riguardo l’origine della donna sono il prezzo da pagare per il realizzarsi della relazione.

La quinta e ultima ricorrenza del limite che si affronterà riguarda ovviamente la tentazione del serpente esposta in Gen 3, 3-5.

Questi fa la sua mossa: innesta nell’uomo e nella donna il germe del dubbio nei confronti della parola divina, e lo innesta proprio nel punto in cui si trova la mancanza[16].

L’attenzione dell’uomo e della donna viene dunque artificiosamente stornata dal dono presente nel precetto divino e viene invece posta sul limite, a sua volta ingigantito. Qui sta la tentazione: il serpente mostra alle sue vittime la possibilità di non avere limitazioni, di essere onniscienti alla maniera di Dio, quel Dio che ora appare agli occhi dei due un essere che cova un segreto di cui vuole intenzionalmente tenere all’oscuro l’umano. Effettivamente, Dio lascia inspiegato il motivo del suo divieto, e il serpente ha cura di riempire questa lacuna a modo suo, aprendo una frattura – che, come si sa, diventerà insanabile – nel rapporto fiduciale che gli abitanti del giardino avevano fino a quel momento intrattenuto con il loro creatore.

Conclusioni

Nell’ottica di Jonas, l’auto-negazione che Dio attua nei confronti della sua stessa onnipotenza permette l’esistenza dell’uomo in quanto essere libero e potente. Allo stesso modo, come espresso nei passi biblici citati, l’uomo deve a sua volta accettare delle limitazioni per permettere all’altro da sé – che sia animato o inanimato – di esistere: a questo proposito si è vista la necessità di attuare un dominio tenero nei confronti della terra e le sue creature (Gen 2, 8-15), di lasciare incolmato il vuoto di sapere concernente l’origine della donna (Gen 2, 22-23), di accettare un limite al proprio conoscere e al proprio operare, e saper acconsentire alla finitudine che lo costituisce (Gen 2, 16-17).

Tutto questo si riassume nel compito lasciato all’uomo di realizzare la somiglianza divina, operazione che implica una dinamicità e che ha a che fare con le caratteristiche di Dio che emergono dai racconti di Genesi 1 e 2: appare un dominio mite che «poi si ritira per lasciare spazio», «un dominio della propria padronanza, che apre così uno spazio a ciò che non è lui»[17]. Questo è il lascito per l’umano esposto nel racconto biblico, e tale è anche nel breve testo di Hans Jonas.

L’importanza del limite, che sia applicato al potere divino o umano, sta, in primo luogo, nell’aprire uno spazio all’alterità, al diverso, in cui questo possa agire secondo la propria volontà libera, arricchendo il mondo condiviso con la propria singolarità.

In secondo luogo, le atrocità della storia, Auschwitz ad esempio, hanno mostrato come una dominanza inglobante (o meglio, totalitaria), che tratti la potenza come un concetto scevro di multipolarità e relazionalità, non sia umanamente e moralmente sostenibile.

In terzo e ultimo luogo, è bene sottolineare che dai testi visti emerge la volontà di far riflettere sul ruolo della mancanza e sulla sua necessaria rivalutazione: non qualcosa da temere e rifuggire, come accade nell’episodio della tentazione del serpente, bensì qualcosa da accogliere di buon grado, per quanto possibile, ché solo in un sapere che non sia assoluto e integrale si invera la possibilità del thauma e della continua scoperta.

È proprio il continuo sbattere contro la parete dei nostri limiti a permettere la creazione, e talvolta addirittura l’invenzione, di nuove soluzioni, nuove strade, nuovi modi di conoscere (e conoscersi), esprimersi e vivere insieme.


[1] H. Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine judische Stimme, Suhrkamp Verlag, 1987, tr. it di C. Angelino, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il melangolo, Genova 2004, pp. 34-35.

[2] Ivi, p. 41.

[3] Ivi, p. 42.

[4] «Se non altro per il fatto che egli viene toccato da ciò che accade nel mondo, e “toccato” significa alterato, mutato nella condizione che gli è propria», p. 47.

[5] Ivi, p. 54.

[6] Per quanto concerne la comprensibilità, limitata, di Dio da parte dell’uomo, Jonas riprende alcuni passi della Torah in cui è esplicito il fatto che Dio stesso ha voluto rivelarsi agli uomini e non chiudersi nel mistero più profondo.

[7] H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, p. 59.

[8] Ma specifica che solo alla realtà fisica va rivolta l’impotenza di Dio.

[9] Ivi, p. 62.

[10] Ivi, pp. 64-65.

[11] Ivi, p. 68.

[12] Gen 1, 3-10.

[13] Laura Invernizzi, teologa, durante un intervento presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, parafrasando A. Wénin, Mitezza e dominio. L’umanità a immagine di Dio, in L’uomo biblico. Letture nel Primo Testamento, (Epifania della Parola 8), EDB, Bologna 2005, 25-48, p. 35.

[14] A. Wénin, L’albero e il serpente (Gen 2-3), in Non di solo pane. Violenza e alleanza nella Bibbia, (Epifania della parola 6), EDB, Bologna 2004, 35-66, p. 40. In nota, Wénin aggiunge un’interessante considerazione: «Sarà forse un caso se, in ebraico, la radice del verbo yd’, “conoscere”, può prendere occasionalmente il significato di “sottomettere” e anche “umiliare”, significati attestati per la radice araba corrispondente?».

[15] Ivi, p. 41.

[16] Laura Invernizzi su A. Wénin, L’albero e il serpente.

[17] A. Wénin, Mitezza e dominio. L’umanità a immagine di Dio, p.35.

Marina Messeri

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