Asciutto, veloce, scattante. Un flâneur, un sognatore, un camminatore di strade. Solo, ma più spesso in compagnia degli amici, a Parigi lo si poteva incontrare al Flore, dove aveva conosciuto Apollinaire, al Dome, al mercato delle pulci di Kremlin-Bicetre mentre striglia Léger. Al caffè La Closerie des Lilas, dove Hemingway asserisce che l’unico poeta che vi avesse trovato fosse lui. A braccetto con Chagall, Modigliani, i coniugi Delaunay, Remy de Gourmont, Cocteau.
Sono gli anni venti. E in una visione aerea di Parigi, nello sciame vitalistico degli artisti che lì vanno a raffreddarsi nelle soffitte, soffiando sul mondo lo spirito di un nuovo tempo, permeato di un’arte che rompa gli schemi precostituiti e borghesi con la ricerca di un linguaggio nuovo, incarnazione ed esempio di libertà, nel vorticare orgiastico che è la città delle luci c’è anche lui. Ci sono i poeti, come lui; gli scrittori, come lui; i reporter, come lui.
Occhi penetranti, succhiatore di vita. Distruttore. Lui saltimbanco, sceneggiatore, commerciante, avventuriero, fratello dei gitani, spericolato, mentitore, anarchico, generoso, amante, viaggiatore, beve la vita e il mondo come un cocktail, l’ha detto lui, e mischia, come l’amico Henry Miller, vita e letteratura, al punto d’essere la carta e l’esistenza una cosa sola, impossibile distinguere verità e menzogna, ciò che è accaduto realmente da ciò che sta dentro i libri suoi.
Lui è Blaise Cendrars, in realtà Frédéric-Louis Sauser. E il nome non nasconde una visione di vita che è anche concezione letteraria, nell’immediata coincidenza delle due. Brace Cenere Arte.
La sua infatti di vita è brace; è fuoco la sua scrittura che procede per immagini e accostamenti nuovi. Un grande innovatore, dal punto di vista originale. La parola scritta è graffiante, rimane impressa negli accostamenti arditi, inusuali. Racconta la vita vissuta, la sua soprattutto, avventurosa, istrionica, con la scrittura emozionale dell’intuito, ricca di passaggi che si svolgono come pellicole davanti agli occhi del lettore.
Parigi lo adotta e gli dona il cammeo della fama, ma è solo un luogo tra gli altri. Potremmo dire con Moravagine, suo romanzo del ’27, che Parigi è il suo ripostiglio, il punto d’incrocio tra un treno e un altro, tra una nave e l’altra, dove cambia la biancheria e prepara un altro bagaglio.
Blaise nasce in Svizzera nel 1887. Viaggia con i genitori, il padre pare sia stato un inventore, a Napoli, in Egitto, in Russia, in Inghilterra. Per un litigio fugge di casa adolescente. Da lì non smetterà più di muoversi, di seguire la sua natura ribelle e vorace, di scrivere. Intraprende molteplici mestieri, frequenta tutti i tipi di persone. Sostiene idee anarchiche, libertarie.
In Russia, a San Pietroburgo, conosce gli ambienti rivoluzionari: vede la morte, il sangue, i fucilati. Viaggia attraverso la Transiberiana per vendere mercanzie varie attraverso l’Asia e scopre il dolore degli uomini, la povertà, l’ingiustizia della vita che sempre denuncerà attraverso i suoi personaggi, veri o presunti tali, come il protagonista di Rhum, Jean Galmot, deputato della Guyana, cacciatore di pelli e oro, commerciante di rum, oppositore della terribile colonia penale – quella di Papillon per intenderci – che muore infatti avvelenato per essere andato contro gli interessi dei ricchi. Storia vera che collima con la leggenda, che collima con l’ideale di vita di Blaise. Avventura. Giustizia. Fame di vita, di esperienza.
Blaise è ancora giovane ma si fa grandi domande, vuole sapere di più sull’uomo, sul senso della vita, di questo andare nostro senza meta. All’uopo si iscrive alla facoltà di medicina, ma capisce più di sé stesso e della sua ricerca leggendo Schopenhauer. E infatti sarà il mondo tutto intero la sua rappresentazione, il globo sembra dirgli prendimi e lui non se lo fa ripetere due volte.
Si imbarca per New York. Affamato povero, solo, si rifugia in una chiesa presbiteriana per non morire di freddo, scrive. È Pasqua. È così che nasce il poema Les Pâques à New York. Libertà nella metrica, innovazione, e dentro il mondo moderno, città, persone. Apollinaire non poteva non amarlo e non esserne influenzato. Zone, vociferano, risente il fascino dei versi liberi di Blaise. Quest’ultimo pare ne sia infastidito, Apollinaire adirato che solo lo si pensi. La querelle tuttavia non diventa tale, è lo spirito dei tempi, lo zeitgeist che accomuna in un sol alito Parigi, gli artisti, la sperimentazione. In ogni caso, Blaise dopo gli gioca un brutto tiro, raccontandogli nei dettagli il funerale di Walt Whitman, al quale gli assicura di aver presenziato anni prima. Funerale per altro sui generis, visto che Apollinare, descrivendolo sul Mercure, asserisce che il vecchio poeta avesse organizzato da solo, in anticipo, la sua veglia funebre, pagando di sua tasca botti di vino e birra a non finire, tanto che l’estremo saluto si sarebbe tramutato, sempre per il cronista, in una gozzoviglia, un coro di stonati, in fine un’orgia galattica, etero e non. Apollinare aveva dovuto poi risponderne davanti agli eredi oltraggiati, ma non aveva mai tradito la bugiarda fonte. Del resto, sempre Hemingway diceva di Blaise che fossero più interessanti le sue bugie delle storie vere degli altri.
Quando torna a Parigi da New York fonda la rivista Hommes Nouveaux, scrive La Transiberiana.
Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola nella legione straniera e mentre si trova a combattere nello Champagne una bomba gli stacca la mano destra. La storia confluirà nel romanzo La mano mozza, uno dei pochi disponibili in Italia, perché certo non smette di fare letteratura, e se la vita lo mette alla prova lui la deride e inizia a scrivere con la sinistra.
Insieme a Cocteau dirige le Éditions de La Sirène, ma Parigi inizia a stargli stretta, la lascia per Cannes, Biarritz, Nizza. Collabora con Abel Gange ai film La roue e J’accuse (e non sarebbe la prima incursione nel cinema se, come racconta lui stesso, Chaplin gli ha rubato un personaggio riciclandolo in Charlot soldato). Comunque tutto è troppo stretto, ogni corrente che nasce per frantumare regole ritrite poi invece s’incanala: surrealismo, futurismo, dadaismo.
Nel 1920 è a Roma a occuparsi sempre di cinema e tornato a Parigi di teatro. Lascia l’Europa per il Sudamerica, di cui ama la natura selvaggia, primigenia, come lui, come i suoi personaggi.
Dal 1925 escono i suoi romanzi più grandi, L’Or, non più disponibile in Italia, Moravagine, mefistofelico personaggio e storia rocambolesca dalla Russia, all’Orinoco, passando per la guerra. Le confessioni di Dan Yack, L’uomo folgorato, la mano mozza, Bourlinguer, La spartizione del cielo, Il raggio verde. La sua prosa è un fiume che travolge turbinoso di corrente: è poesia, emozione, fonde musica, sensi. Coglie la vita nel suo girotondo folle, come la cinepresa quando gira veloce per significare gioia pura. Come in Rapsodie gitane, dove il personaggio sembra incapace di star fermo e gira come una trottola per la città. Del resto è lui a dire: “Tutta la vita non è che un poema, un movimento. Non seguo che una parola, un verbo, una profondità, nel senso più selvaggio, più mistico, più vivo.”
Chi è, infine, Blaise Cendrars per davvero? Chi lo sa. Truffatore, giocoliere, narratore poliedrico di sé stesso, estremo, solitario, rarissimo raggio verde. Quel fenomeno che si attua nel preciso istante in cui il sole si tuffa nel mare e, con particolari condizioni, è possibile distinguere l’ultimo raggio, un raggio verde. Chi lo vede può scrutare chiaro nel proprio cuore e in quello degli altri, non può mai più ingannarsi sulle cose.
Uscito dalla fascia equatoriale, il vecchio cargo avanzava flemmatico in un mare che era come un tino violaceo dalle lente ondulazioni, e sotto una cupola di azzurro. Il cielo e la superfice dell’oceano luccicavano all’infinito; l’immensità, in cui il sole si pavoneggiava, era abbagliante.
Gli oggetti non allungavano più alcuna ombra.
Tutto ciò che aveva per gli occhi una forma – fosse il parapetto, il cassero, il camminamento, l’albero maestro – sembrava trovarsi in fusione e tremolare, ammorbidirsi, dissolversi nel calore: solo lo spazio fuori bordo induriva man mano che s’avvicinava alla linea dell’orizzonte, dove assumeva la sembianza e la luminosità di un freddo vetro che dà sull’aldilà.
Non ero mai stato così felice di non far niente. Se stendevo una gamba o ci posavo la mano, il ponte bruciava.
E quando – in un alone di colori che, tanto la luce era cruda, lo faceva sembrare un arcobaleno sul punto di liquefarsi – vedevo passare l’ispettore che si annoiava a bordo e che non sapeva che fare del suo fucile e della sua Kodak in quella immensità che gli sembrava vuota e in cui si sentiva perduto, sentivo pietà per il mio nemico. Mi coglieva però anche la voglia di domandargli qualcosa, per prendermi gioco del poveruomo; tanta più voglia da quando navigavamo tra due specchi, non c’erano più né uccelli né nuvole contro cui sparare per ammazzare il tempo, e l’intruso s’era calzato sul naso degli spessi occhiali neri.
Signor Delœil! Gli gridai una sera salendo la scala che portava sul ponte delle imbarcazioni, dove stava l’uomo grasso, sprofondato in una poltrona, sudato e sbracato.
Signor Delœil! Si tolga gli occhiali, faccia una foto, presto, rischia di perdersi il raggio verde!
Era il crepuscolo. La giornata aveva goduto di luce e calore stupefacenti. Davanti a noi il disco del sole, enorme e arrossato, adesso spariva rapidamente dalla vista. Dietro di noi l’orizzonte si appannava d’inchiostro. Già la notte saliva dal mare, invadendo il cielo dall’est allo zenit, dipingendo sulla sua superficie uno strato più cupo di blu, tendente al nero, ma restando trasparente come l’oltremare. Sulla sua superficie si diffondeva del rame in fusione, che si miscelava al luttuoso viola delle acque i cui solchi, i riflessi, i vortici avevano il prezioso luccichio del lapislazzuli, ma la cui massa agitata era crivellata, impastata e compenetrata da riflessi oro antico e verderame. L’altra parte del cielo, dallo zenit all’ovest, all’estremo ovest, sfumava dal rosa al rosso, diventava cremisi, rosso violetto, arancio, verde indiano, giallo, e il sole – una cui metà fiammeggiava a vista d’occhio nel tino violaceo – lanciava dei ciuffi, lingue, getti di fuoco, fusi d’oro, d’antimonio e d’argento, delle braci, lava incandescente, raggi di platino, un cono verde.
È stupendo! Gridò il comandante Delœil che, appollaiato al mio fianco sul parapetto non s’era perso nulla dello spettacolo, ma aveva scordato di scattare una foto.
Blaise Cendrars, Il raggio verde, Via col vento edizioni
Silvia Penso