Andavamo a una festa. Non so che festa. Non conoscevamo nessuno in quella casa, perciò ci andavamo. Il nostro unico contatto era Nelly. Giovane e bellina con le sue guance piene di lentiggini. Era una di quelle sere in cui si esce con l’idea di fare molto baccano.
All’epoca avevo un mio piccolo adepto. Si chiamava Ernesto, era timido e camminava stringendosi nelle spalle per paura che l’ammazzassero. Nelly non poteva sopportarlo ma mi voleva bene, per questo accettava che lui venisse insieme a noi. Inoltre, aveva un terribile bisogno di farsi un po’ le ossa, di tirare la testa fuori dal guscio. “Amico mio – gli dicevo –, devi distenderti. Devi lasciar perdere tua sorella, tuo padre. Esci e prenditi una sana sbronza”.
Intorno a noi il mondo continuava a girare male come al solito. Eravamo tutti diretti verso il grande mattatoio. L’umanità declinava. La gente era pronta a spararsi addosso per un nonnulla, il che sarebbe stato per lo meno qualcosa di molto onesto. Un bel colpo in fronte, assalti agli istituti di credito, incendi dolosi, sommosse. Ogni cosa sarebbe stata meno patetica di questo vivere facendo finta che tutto andasse bene. Invece non accadeva nulla. Tutto si svolgeva negli strati inferiori dell’epidermide. Era di questo, che Ernesto aveva paura. L’avrebbero fatto a pezzi, lo sapeva. Il mondo che aveva attorno era sfuggente e pericoloso. La metropolitana scaricava vagonate di individui dalle fisionomie grottesche. Qualcuno gridava. Passavano ragazzi in skate, persone coi capelli fucsia, blu e verdi, artisti coi pantaloni sporchi di pittura e cittadini insonnoliti che se ne andavano a morire a casa. Per quanto mi riguarda ero nella merda, la mia donna m’aveva lasciato per partire di nascosto con uno dei suoi amanti diretti a Genova, avevo un lavoro da cani, vivevo in un posto freddo, pieno di neve e di persone pallide come rotoli di carta igienica.
Rigurgitavo rabbia, frustrazione, sete di vendetta. Potevo dirmi un fallito in piena regola.
Ci fermammo per comprare da bere. “Io non entro”, disse Nelly. Doveva avere il ciclo. Era sempre di pessimo umore quando capitava. La lasciammo a chiacchierare con una tossica che faceva la mancia ed entrammo nel supermercato.
Berlino.
Sentivo il suo gelo notturno scivolarmi sotto il cappotto. I suoi negozietti di alcolici aperti tutta la notte, le sue strade, le sue serate, le anfetamine, l’elettronica. Era stato a causa di questa città che Margot aveva deciso di tornarsene in Italia. Aveva bisogno di staccare, aveva detto, ma era una delle sue bugie. Margot era fatta per servire il prossimo. Io mi sento come una geisha – aveva spiegato un giorno con naturalezza –. Tutto quello che riesco a fare bene è assecondare i desideri di un uomo. Mi pare di non averne neppure di miei, quando sono accanto a qualcuno. Divento la proiezione dei bisogni altrui. È molto appagante”. Strana e contorta, questa psicologia da rispettabile puttana. Poi aveva finito, come sempre, col rivoltare la frittata: “Ti divertirai a tradirmi con la prima che ti capita “. Avevo negato, spergiurato, in realtà ci aveva preso in pieno, come sempre. Era quello il mio sogno segreto, il mio peccato inconfessabile. Volevo rompere la gabbia, uscire dalla nostra casa scricchiolante di bugie. Tornare a sentirmi vivo. Amare senza criterio, senza più alcuna motivazione valida. Perciò, approfittando della sua assenza, quella sera stavo architettando una colossale ubriacatura. Ci saremmo fiondati in casa di questa gente, mi pareva già di vedere la scena: la calca all’ingresso, il dj nel salone, le casse di birra fuori dalla finestra. Avrei tenuto botta ingurgitando alcolici col solo fine di farmi stare simpatica tutta la gente. Poi, se tutto si fosse messo male, avrei continuato a degenerare. In situazioni del genere, basta un piccolo fraintendimento per dare il via a uno scontro. Potrebbe essere a causa di un povero diavolo che tenta di riportarvi in voi, di un buon uomo che cerca di convincervi della plausibilità delle sue opinioni sul sistema democratico, oppure di un buzzurro che cerca guai, di una stronza che non vi si fila, di un bicchiere che qualcuno per sbaglio vi ha fatto cadere dalle mani. Alla fine ci si ritrova in strada nel cuore della notte, completamente ciucchi e soli. È una vita di eremitaggio che regala indimenticabili momenti di ostracismo sociale.
Guardai per un attimo Ernesto, la sua faccia pallida, la sua barbetta da frate francescano: “Non scoperà mai questo qui”, mi venne da pensare. Allora per distrarmi iniziai a fare lo sbruffone. Mi capita spesso quando mi annoio. “Questa sera ci troviamo due bambine e ce le portiamo in bagno subito subito” gli dissi sventolandogli sotto il naso una bustina piena di polvere bianca. La cosa lo mandò in paranoia, poi andammo verso la cassa.
Davanti a noi una serie di personaggi di prima categoria. È colpa delle metropoli, generano tutta una risma di degenerati come fossero figli nati da madri sieropositive. Anche il più imbecille dei commercialisti, qui, si piglia la gonorrea. Tutto è così dannatamente malato. Come si fa ad avere fede, dopo aver visto città del genere? Andrebbero rase al suolo con il napalm, fatte saltare in aria con tonnellate di tritolo. Sono posti come questi che inducono i jihadisti a farci il culo a strisce, ne sono sicuro. Ragazze che definirle vestite è un eufemismo. Nessuno spazio per l’immaginazione. Gente che vomita, che caga per strada, che collassa dietro un bancone. Locali con luci stroboscopiche protetti da bande di buttafuori cocainomani, diciottenni che si infilano in macchine scure allontanandosi verso qualche motel di periferia. Una pazzia.
Ernesto andava a letto alle undici e mezza, non si era mai preso la scabbia ed era onesto come un chierichetto. Non beveva, non fumava, non assumeva stupefacenti. Perché fosse venuto in questo carnaio restava un mistero. Adesso abitava con sua sorella.
Infilai una delle due bottiglie nel mio zaino. “Ma che stai a fa’?” mi chiese. “Vedi – dissi impassibile – i tedeschi sono dei nazisti nati. La loro natura li porta all’obbedienza. Sono carenti di fantasia, per questo eccellono nel ragionamento filosofico. Ma, come tu puoi ben immaginare, in un posto come questo un individuo cresciuto nel Mediterraneo non può sopravvivere senza sentirsi soffocare. La nostra inclinazione è il dramma, l’iniziativa improvvisata. Pulcinella è l’arte della commedia. Tutte queste cose il tedesco non le capisce”.
“Ma manco io. Che dici?”
“Dico che adesso avrai la dimostrazione di come le differenze culturali siano più di un semplice dato statistico. Vedi qualcosa all’ingresso? Dimmi, vedi qualcosa?”
Guardò verso le porte scorrevoli, poi fece cenno di no. “Esatto! Non c’è niente, Niente allarmi, niente controlli, niente di niente. Loro sono così, st’imbecilli, si fidano del prossimo. O, per lo meno, del senso di disciplina e della paura della punizione. Allora adesso, per dimostrare che noi non siamo come loro, che della loro composta civiltà nazista ce ne sbattiamo le palle, usciamo e ce ne andiamo senza pagare. Vedrai, non ci succederà niente – conclusi –. Fidati. L’ho fatto mille volte”. Oppose resistenza. Gli stavo offrendo gratuitamente una lezione di etnografia e lui si permetteva di rifiutare: “Ma no Josè, ma che ti salta in mente, lascia stare”. “Non mi credi?” dissi allora offeso. “Ma sì sì, ti credo. Solo che non è il caso adesso. Nelly ci sta aspettando fuori. E poi la festa, pensa alla gnocca”. Nella mia mente tutto era brillante. “E ci andiamo dalle ragazze, non ti preoccupare”, dissi mentre porgevo l’altra bottiglia alla cassiera. Lei aveva delle labbra molto grandi e la mascella leggermente squadrata. Fica profonda – pensai –. Poi salutammo e ci dirigemmo verso l’uscita.
Quando avevamo quasi oltrepassato il traguardo due voci ci chiamarono ed Ernesto sbiancò. Ci fecero aprire la busta e, prove alla mano, ci pregarono di seguirli. “Non ti agitare – gli sussurrai –, è un vino da quattro euro”. Non saprei neppure dire se avesse sentito.
Fummo introdotti in una stanzetta al piano superiore dove, davanti a degli schermi di sorveglianza trovammo un altro tizio. I due energumeni poggiarono la bottiglia sulla sua scrivania e ci dissero di sederci. Lo feci lentamente, giusto per fargli vedere che non eravamo spaventati. Ernesto si precipitò sulla sedia stringendosi le mani fra le gambe. Era irrecuperabile.
L’uomo dei televisori era un turco dalla faccia sporca. Poteva avere una cinquantina d’anni, coi capelli appiccicosi pettinati all’indietro su di un volto tondo come una palla da biliardo. Un’umanità miserrima, da scantinato. Domandò qualcosa ai suoi sottoposti, poi si mise con le braccia allargate intorno ai bordi del tavolo e, prendendo fiato, ci mise al corrente del fatto che eravamo stati filmati. A quel punto, dopo esserci dichiarati colpevoli facemmo per alzarci: “No!” urlò il tale sbattendo un pugno sul tavolo. “Avete rubato. È un fatto grave, molto grave”. Sentii Ernesto friggere sulla sedia. Non lo guardai neanche. “A me non piace, signori, mettere in cattive acque la gente, considerando che si capisce bene l’intento della vostra bravata. Voi non siete ladri. Siete degli ubriaconi, al massimo. Forse dei tossici. Ma che ne ho, io, a mettere nei guai la gente?”
Era eccitante tutta questa pantomima. “Allora – continuò –, vi do due possibilità”. Si alzò. Ernesto pendeva dalle sue labbra. “La prima: chiamo la polizia e vi beccate una bella denuncia per furto”. Fece una pausa tecnica assolutamente perfetta, bellissima, una di quelle che si usano in teatro per far montare la tensione. “La seconda: mi date cinquanta euro a testa e chiudiamo qui la faccenda. Potete andarvene anche subito. Nessuna chiamata, nessuna denuncia. Ecco come stanno le cose”. Detto ciò, si rimise a sedere e attese. Vidi Ernesto mettersi le mani in tasca.
“Cosa fai? ” gli chiesi.
“Come che faccio? Paghiamo no? Ma che te sei ammattito? Una denuncia ahó!”
Gli strinsi il polso in una morsa.
“Ti giuro su Dio che se cacci fuori il portafoglio ti spacco la faccia. Non ti permettere! Questi sono dei balordi, lascia stare”.
Mi rivolsi allora al capo: “E dai, facci andare via. Alla fine è una bottiglia sola, non è così grave”. Ci aveva in pungo, era finita. Chiamarono la polizia e fummo costretti ad aspettare il loro arrivo,
Da una finestrella si intravedevano i passanti. I rumori della città in pieno fermento creavano una cornice odiosa.
Sentii di non temere quegli uomini lì dentro più di quanto non temessi gli altri là fuori. Facevamo tutti parte della stessa grande fossa comune. Il mondo e la storia ci avrebbero dimenticato, Niente ci avrebbe risparmiato dalla nostra sorte miserabile. Ebbi compassione per noi. L’incubo aveva già preso possesso di ogni cosa.
Ad un tratto la porta si aprì e i poliziotti entrarono, manganelli alla cintura. Erano sette. Quando gli fu spiegata la situazione ci misero in piedi contro il muro e pensarono bene di perquisirci. Questo, immagino, per dare autorevolezza e senso logico alla loro presenza. Ernesto mi guardava con gli occhi spalancati, attraversati da un terrore assoluto. Non la trovarono, la bustina. Avevo avuto tutto il tempo di metterla al sicuro.
Il caso volle che fra di loro si trovasse una magnifica creatura coi capelli rosso fuoco. Era una ragazza di non più di venticinque anni. La sua lunga chioma rossa dondolava nell’aria come una fiamma. Fu lei ad interrogarci. Ci chiese come erano andate le cose e se avessimo già rubato prima d’ora. Era così gentile nei modi, così accorta, che ti faceva sentire disposto al pentimento. Era bellissima. Solo a guardarla mi sentivo il sangue ribollire nelle vene. Poi un poliziotto, uno di quei buzzurri che puzzano di acqua di colonia e hanno le sopracciglia depilate, si intromise facendo il gesto delle manette con le braccia incrociate: “Prison, prison”, ci disse cercando di spaventarci e di far colpo sulla sua collega. Era uno di quegli zoticoni dei nostri tempi che cerca di restare ragazzino a tutti i costi. I suoi modi erano sgarbati, rozzi. Niente di comparabile alla delicata, quasi maternale delicatezza della donna con cui stavamo parlando.
Il senso della scena che seguì credo possa riassumersi in una specie di lotta per l’accoppiamento. Lo allontanai, urlai alla provocazione, dissi che ci voleva dell’imbecillità per mandare in prigione qualcuno per pochi spiccioli. Lui, scagliandosi verso di noi, ringhiò qualcosa che non riuscimmo a capire.
poi ritornò la calma. Fu sempre la giovane donna a prendere in mano la situazione: “Cari signori – disse in tono molto cerimonioso. Adesso era la poliziotta nel pieno delle sue funzioni a parlare – la legge tedesca punisce i trasgressori in modo fermo e deciso. Qui non siamo in Italia dove ognuno fa quello che gli pare, qui siamo in Germania, e in Germania un furto è e rimane un furto, che si tratti di cinque o di cinquecento euro. Per la legge non fa nessuna differenza “. Nei volti di tutti i presenti si disegnò un’espressione soddisfatta. Piccoli uomini. Tutto quel teatrino non avrebbe dovuto neppure esistere. Tutta quella diligente, ossequiosa riverenza alla legge, al loro ordine era rivoltante. Mi venne una rabbia cieca e profonda, ma soprattutto mi sentii impotente. Nulla sarebbe mai cambiato. In qualunque tempo, in qualsiasi sistema sociale avesse mai potuto trovarsi a vivere, l’uomo avrebbe sempre continuato a inventare divieti, a stabilire leggi, a creare ordini morali e scale di valori. Il nostro tempo era dunque ogni tempo, il nostro fallimento completo e irreversibile.
Nelly ci aspettava all’uscita. Sembrava preoccupata. “Dio santo ma che è successo?” disse venendoci incontro – Quando ho visto la camionetta ho capito che eravate nei casini. State bene?”
Ernesto non diceva più una parola. Sedette su una panchina con lo sguardo in terra. Povero ragazzo, così giovane e già così ammansito. Ci avevano ridotto proprio bene, i nostri anni di società civile. Alla fine ci avviammo verso questa festa che avrebbe dovuto regalarci un’altra notte di divertimento. Berlino ansimava alle nostre spalle. La notte era fredda. Un bus ci passò accanto strombazzando a qualcuno che non voleva saperne di togliersi di mezzo.
Nato a Lecce, appena conseguita la maturità classica Giuseppe Caretta si trasferisce a Bologna dove si mantiene grazie a dei piccoli lavoretti e a una borsa di studio. In questo periodo pubblica una raccolta di poesie dal titolo Imprinting (Ed. Il Filo). Ottenuta la laurea in Storia contemporanea si trasferisce a Berlino, da lì ad Atene e da Atene a Parigi, dove attualmente risiede. Tutto ciò lo obbliga a svolgere i lavori più disparati e a fare, delle esperienze che ne riporta, materia da plasmare pazientemente in letteratura. Ha lavorato per due anni come redattore del quotidiano on line NewNotizie.it. Il suo primo romanzo è in fase di valutazione presso editori nazionali.