“Io sono Medea”, di Claudia Mazzilli: l’essere sopravvissuti frastorna

Claudia Mazzilli, Io sono Medea
Nulla Die, 2021

Non sorprende che la crisi migratoria mediterranea, deflagrata in queste settimane con la questione afghana, abbia trovato espressione in un testo narrativo sospeso tra il romanzesco e il drammaturgico, il romanzo dell’esordiente Claudia Mazzilli, Io sono Medea (Nulla Die 2021, pp. 151, euro 14): i personaggi del mito (Medea, Giasone, Centauro, Creonte, Glauce, Taltibio, Emone) si mescolano a quelli di una realtà più ordinaria, i cui nomi (Souba, Blessed, Boubacar, Mike, David, Zaytun, Samirah) grondano di attualità: lo sfruttamento scellerato delle risorse naturali del pianeta,  i diritti umani violati dei migranti, che attraverso la Libia tentano le porte del mare e dell’Europa, ma anche il diritto alla maternità consapevole delle donne.

Nonostante l’autrice sia una docente di Lettere Classiche con alle spalle molte pubblicazioni basate sull’esplorazione intertestuale dei testi classici, Io sono Medea rinuncia agli ammiccamenti letterari e può essere letto davvero da tutti. Certo, è una rivisitazione postmoderna distillata dal filtro nobile del cinema di Pasolini, dalla Medea di Christa Wolf, dai testi classici di Euripide e Seneca, eppure la vicenda resta materica, carica delle scorie dei fatti di cronaca, grazie ad uno stile che evolve da un autobiografismo limpido e diaristico fino ad una scrittura astratta e visionaria. Tutti i personaggi sono investiti della forza dei simboli, ma il racconto resta lineare, potente, leggibile. Tutti sono travolti dalla inesorabilità della Týche: coloro che sono al vertice sono destinati a cadere. La loro rovina conduce a quella razionalizzazione, purificatrice dalle passioni, che gli antichi chiamavano catarsi e che la cronaca non produce, perché il linguaggio mediatico è anestetizzato e narcotizzante. Racchiusi in questo ingranaggio tra il narrativo e il meta-teatrale, invece, i personaggi di Io sono Medea mostrano qualcos’altro, senza però rendere didascalico l’indecifrabile.

Una famiglia disfunzionale, dunque, che si regge su un equilibrio precario. È solo questione di tempo prima che l’armonia di facciata si sgretoli, come il bianco e azzurro delle case greche nelle cartoline, che in bassa stagione scopre crepe e muffe. Il dramma, in fondo, lo si indovina fin dall’inizio. Molto di quel che accade nello spazio narrativo è la conseguenza di qualcosa che è già accaduto e che non può accadere diversamente: la predestinazione è già nei nomi, è il mito che si fa rito, in un millenario déjà-vù. Nell’accumulo di morti e violenze, apparentemente fini a sé stesse, sembra mancare una “visione”, ma la visione arriverà: essa è nel finale bipartito dell’opera e giunge inattesa.

È opportuno non svelare troppo: nel romanzo, comunque, il mare è il luogo dove tutto inizia e finisce, dove tutto si consuma e rinasce in un cerchio imperfetto, deformato in spirale, che aggiunge o sottrae senza ripetere, e neppure concede palingenesi consolatorie.

Ciò che è perduto è perduto per sempre: quando Medea è arrivata in Grecia, è già morto in mare suo fratello Absirto: non smembrato da Medea (secondo la versione tradizionale del mito, un espediente di Medea per non farsi inseguire dal padre Eeta, costretto a raccogliere i resti dispersi del figlio) ma, nell’originale rivisitazione di Claudia Mazzilli, morto disidratato per colpa di Giasone, che durante il viaggio dalla Colchide alla Grecia si è reso responsabile della morte del bambino negandogli l’acqua. Questa è la vera eziologia dell’atteggiamento apparentemente rinunciatario e poco volitivo di una Medea che non si ribella all’abbandono di Giasone, non gli rinfaccia nulla, non uccide Glauce per gelosia e vendetta, non aspira a generare figli, né a far carriera, né a vivere in un altro luogo dove non debba quotidianamente avere a che fare con Giasone e i suoi congiunti, che sono i suoi carnefici. L’indifferenza di Medea verso il mondo circostante, uguale dappertutto perché globalizzato e omologato, mostra anche al lettore l’equivalenza di tutte le cose e di tutti i luoghi. Attraverso il non generare, il non vendicarsi, il non allontanarsi verso un ennesimo esilio, questa Medea infrange l’ordine costituito e apre il dramma all’assurdo: un assurdo tutto post-novecentesco.

C’è stato un trauma alla base di quel distacco apatico: la morte irreparabile di Absirto. L’unico rimedio, per Medea, è tentare di recuperare il mondo a valori più umani e solidali, quando la Grecia diventa terra di approdo di migranti.  Non è una redenzione che assolve Medea dalla colpa di essersi resa complice di Giasone nella conquista del vello d’oro e di averlo seguito. È però una guarigione dall’apatia. È qualcosa che dà senso all’esistenza di Medea, senza farne un’agiografia che ce la presenti come un personaggio esemplare:

“Accadde un giorno, tre anni fa. O forse quattro, Creusa era ancora viva. Durante un pomeriggio in riva al mare, in uno di quei languori che erano un’attesa: l’attesa paziente di qualcosa che sarebbe affiorato dalla foschia di un orizzonte autunnale, dalle ombre della mia orgogliosa solitudine. Tu non sarai più la sola straniera qui, Medea. Vidi la prima barca, così uguale e così diversa da quella su cui arrivammo io e Giasone in Grecia: traboccava di braccia disperate e invocanti. (…) Li immaginai guardarmi dalle onde, una figurina sulla terraferma, ed io stessa mi vidi sulla barca insieme a loro, a scrutare sulla riva quella Panaghia fiera e tenace, la madonnina solitaria che ero e che sono: e che li aspettava. Non mi resi conto di quello che feci. Ero e sono la figlia di un’oceanina, la figlia di Idia (…) Con l’acqua che mi arrivava al petto, tesi le braccia nel gesto antico che fu di mia madre, l’ultimo acquatico gesto prima dell’addio: le braccia materne, che nel porto della Colchide si erano sporte verso la barca per consegnarmi Absirto, si replicavano nelle mie e pretendevano una restituzione su un’altra sponda. Mi porsero i loro figli, sfiniti, sulla banchina del lido.” (pp. 68-69).

Non a caso Medea racconta in prima persona la sua stessa storia, nel proprio modo barbarico: la storia di chi non prova alcun senso di appartenenza in nessuna patria, e non trova riscatto alcuno incamminandosi verso un altrove:

“L’essere sopravvissuti frastorna. In seguito cominciai a desiderare, in quella fine che non ci fu, un altro inizio.” (p. 135).


Pierpaolo Riganti

Redazione

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