Sono giorni che non le parla. Prima che il sonno gli impasti la voce nel buio, qualche volta la chiama troia.
Da un po’ di tempo non allunga più le dita sotto il lenzuolo. Ha smesso di franarle addosso, di saggiare la resistenza del suo bacino con una raffica di colpi inferti nel silenzio reciproco. Per lei, ormai, il sesso è un bruciore che riverbera fino all’imbocco dello stomaco. Una scossa che si dirama lungo le cosce in un dolore sordo e pulsante.
Avrà un’altra, una nuova. Una ragazza con il nome esotico e i denti bianchi.
I primi tempi dopo il matrimonio, correva in edicola per acquistare i fascicoli della Buona Cucina. Entrava nei negozi di casalinghi, perdendosi fra le policromie gommose degli accessori culinari. Si sentiva una bambina. Ogni attrezzo aveva un colore rassicurante, un bordo smussato e un’allegria intrinseca. In fondo, occuparsi della casa assomigliava a un gioco.
Stasera ha preparato le crepes con la crema di funghi. Ha disposto i piatti azzurri sulla tovaglia di cotone grezzo. Li ha acquistati con i saldi insieme alle paperelle di plastica per il bagno.
Suo marito ha arricciato il labbro e inclinato la testa sul collo:
«E tu questa merda la chiami cena?»
Lei è rimasta seduta con la forchetta a mezz’aria, ripassando a mente tutte le fasi della ricetta. Per quanto si sia sforzata non è riuscita a trovare l’errore. Che abbia cotto troppo i funghi? Eppure non le sembravano secchi, né tantomeno unti.
«Non dici niente, eh? Sei proprio un’incapace. Una mezza sega. Non sai fare un cazzo, neanche in cucina».
«Mi dispiace», ha mormorato scrutando il piatto, «non capisco che cosa sia andato storto».
In tutta risposta, lui ha scaraventato il piatto a terra, continuando a fissarla con un sorrisetto sprezzante.
Inerte, ha guardato la besciamella appiccicarsi alle mattonelle. Poi si è chinata e ha raccolto i cocci senza protestare. L’eccitazione che ha provato acquistando i piatti si è trasformata in un’ondata di nausea. Ed è solo colpa sua.
Quando si sono conosciuti, lei lo ha ingannato. Non passa giorno che non glielo rinfacci. Dove sono finiti i capelli soffici, il trucco impeccabile e l’accenno del seno pallido sotto le camicette? Per quale ragione, ogni volta che lui torna a casa, la trova immersa in una tuta di ciniglia e con un cespuglio crespo sopra la testa? Che cazzo fa tutto il giorno? La casa è un porcile e la sua cucina non piacerebbe neanche a un cane.
Per molto tempo gli ha dato ragione. Badare alla casa non è affatto un gioco, ma lei dovrebbe curarsi di più. Lui è pur sempre un uomo e gli uomini hanno bisogno delle apparenze: di un pizzo traforato che ricami la pelle o di un tacco che sfidi la legge di gravità, assottigliando le caviglie. Non dovrebbe agghindarsi solo quando escono insieme. Fuori ci sono le altre ragazze, più giovani e belle di lei. Non si stupisce che il marito le guardi. Che i suoi occhi seguano i culi a mandolino delle sedicenni o le tette debordanti delle commesse abbronzate. La carne è debole e l’uomo è cacciatore. Anche sua madre glielo dice sempre. All’inizio c’è il fattore novità: poi bisogna impegnarsi.
Dopo cena, lui ha deciso che faranno sesso. Forse ha già rotto con la Morena o con la Luana di turno. Lo capisce da come le afferra il polso nella semioscurità della camera da letto.
È un dono che lui le offre, lei deve essergliene grata. Che pensi alle altre, non le importa molto. Conta il fatto che lei occupi un posto, che svolga una funzione precisa. Così si mette carponi sul letto e attende paziente la spinta e l’affondo secco del suo bacino. Per non gridare, si morde il labbro a sangue. Il bruciore è talmente acuto che, per resistere, deve aggrapparsi alle stecche della testiera. Grazie a Dio ci mette solo qualche minuto e, quando ha finito, le scivola di lato, ansimando soddisfatto. Subito dopo lascia la stanza, e lei resta nuda e rannicchiata fra le lenzuola. Attende che il dolore cessi di lacerarle il ventre e che il freddo della sera le intorpidisca le dita delle mani e dei piedi. Si raccoglie nel buio e ascolta il brusio monocorde del televisore nella stanza attigua. Non deve addormentarsi, perché lui potrebbe tornare e volerne ancora. È sufficiente un minuto per riposare, un minuto solo. Dovrebbe essere felice, si ripete. Suo marito la cerca, la vuole ancora.
Si sono conosciuti a una festa in casa di amici. Lui l’ha fissata per tutto il tempo, disdegnando le ragazze che ridevano ubriache e si tamponavano la fronte con i bicchieri ghiacciati. Nessuno l’aveva mai guardata così, con tanta ostinazione. In quel periodo lei frequentava uno studente di ingegneria. Uscivano poco insieme; lei aveva lasciato l’università e non lavorava. Quando andavano a mangiare la pizza pagavano sempre alla romana. Il loro era un rapporto fatto di qualche gita domenicale e di passeggiate sotto i portici del centro, il sabato pomeriggio. Facevano l’amore in macchina, senza mai guardarsi. Lui chiudeva gli occhi e si concentrava, come se stesse pregando dentro di sé. Alla festa non era andato. Stava studiando per un esame.
Con suo marito, tutto è cominciato con un invito a cena che lei ha accettato. Sono seguiti i fiori e le tovaglie immacolate dei ristoranti. Gli occhi negli occhi e le voci sussurranti. Parole timide che cozzavano con la prepotenza degli sguardi.
Lui l’ha scelta. È un medico di famiglia più vecchio di lei di tredici anni. Assomiglia a Matthew McConaughey. Quando sorride uno scintillio rapido gli attraversa gli occhi. La prima volta che sono stati a letto insieme, si è aggrappata al suo corpo e a quella luce con tutte le sue forze.
Si sono sposati dopo un anno di fidanzamento. Trascorso qualche mese, lui ha ritenuto non fosse più così importante guardarsi negli occhi. Il sorriso gli si è guastato e nei suoi occhi ha brillato una luce fredda. Implacabile.
***
È stato uno scherzo. Il cielo sgombro sul tetto della vecchia conceria. Il verde saturo dell’erba a mezzogiorno. Durante la notte, la pioggia ha illividito le facciate e appesantito i corpi dei passanti. La primavera si è dissolta, riducendo la collina ad un alone azzurrognolo. Quando c’è il sole, al di là dei caseggiati, gli alberi sembrano avere la consistenza spugnosa dei broccoli esposti sui banchi del mercato.
Ora la sua mano aderisce al vetro incrostato di grasso e cellule morte. Il naso aspira il sentore acre della sporcizia. Anche se oggi l’umidità sbianca il giardinetto sul lato della via, non le dispiacerebbe uscire. Bucare l’aria spettrale e sedere su una panchina senza l’assillo di un orario da rispettare. Preferisce temporeggiare, scongiurare l’eventuale assalto di un conato di vomito. Dovrebbe sedersi. Invece continua a fissare la foschia che svapora sui tetti lontani.
Un’altra ondata di nausea la travolge. Abbandona la camera da letto e si precipita nel bagno. Solleva il coperchio del water e asseconda i conati. Mentre vomita, non si chiede quando sia successo. Lo sa perfettamente. Il languore che ha preceduto l’atto, per una volta, ha reso il corpo del marito conciliante. Senza spigoli. Poi è arrivata la certezza, la comparsa della prova tangibile. Come in un cartone animato giapponese, l’asticella che reggeva tra le gambe si è tramutata in una bacchetta magica. Ha segnato il confine tra l’essere e il non essere. Forse, se non avesse fatto il test, il bambino non ci sarebbe mai stato e lei avrebbe atteso ogni notte che lui si addormentasse, ignorandola. Tutto ciò, per un tempo infinito, scandito dal tono monotono dei cronisti della tv.
Tornata in camera, dà un’ultima occhiata fuori dalla finestra. C’è di nuovo il sole. La luce sbiadisce le panchine del giardinetto. Immagina il figlio che nascerà, o la figlia. I colori nuovi e vivi delle labbra e degli occhi. Prefigura le corse intorno ai tronchi magri delle betulle, il volto che si arrotonda nello stupore. Il desiderio di erba e foglie. Di fruscii e di corse verso la caduta. Sotto le dita, percepisce le croste malleabili delle ginocchia e il rossore madido del pianto. Ha deciso tutto in una manciata di ore. Se non lo facesse non avrebbe la forza di godersi la libertà del figlio. Di sperimentarla. Non si può credere in qualcosa che si è dimenticato.
Il trolley arancione, ai piedi del letto, la fa sorridere.
Laura Scaramozzino (1976) ha partecipato alla raccolta di fantascienza al femminile: Materia oscura, Delosdigital Edizioni e all’antologia fantastica: Strane creature, edito Watson. Nel 2019 e nel 2020, per Watson Edizioni, sono usciti Screaming Dora e il romanzo fantanoir: Louise Brooks. Due vite parallele. È arrivata finalista al Premio Esecranda del 2019 e all’ultima edizione del contest di Ore contate. Da poco è uscito il romanzo distopico per ragazzi: Dastan verso il mare, Edizioni Piuma. Ha partecipato a varie antologie per Delos, Bertoni, Edizioni della Sera, NeroPress, Prospero, ecc. Suoi racconti appaiono sulle riviste e sui blog: Inkroci, CorriereAl, Cose di Altri Mondi e Writer Magazine Italia.