Mario il farabutto

Mario era un farabutto; il più farabutto di tutti. Difficile che il mondo possa partorire un altro farabutto come lui! La sua pelle era di un colore simile al petrolio, si vedeva ad un miglio di distanza che in una doccia non ci entrava da giorni. I suoi occhi erano di un nero pece, aveva un naso da alcolizzato, le orecchie sempre sporche e una barba folta, ma non abbastanza da nascondere quella faccia butterata. Aveva la puzza sotto il naso, ma soprattutto sotto le ascelle. Il suo unico talento pare sia stato quello di schiacciarsi ogni tipo di pustola e punto nero, ma, purtroppo, questo suo demone non riuscì a realizzarlo secondo la giusta misura greca, e finì che perse il senno. Perché si ridusse in questo stato? La risposta è semplice. Il problema di Mario il farabutto era che viveva in un epoca lontana dalla nostra, che se si fosse messo davanti una telecamera avrebbe avuto milioni e milioni di spettatori, che lo avrebbero giudicato certamente come miglior comico del secolo. Lui, purtroppo, apparteneva ad un altro tempo, un tempo lontano, dove si avevano ancora  pensieri tra la testa, e certe questi pensieri si rivelavano essere ossessivi; tutti i discorsi di Mario vertevano sul come fare soldi e sul come riuscire a tirare avanti. L’unico modo per riuscirci era l’illegalità!

Sognò di fare una rapina. Sì, era questo quello che sognava spesso!

Mario il farabutto, non era da solo al mondo, aveva una donna, una moglie, per l’esattezza. Si chiamava Caterina. In lui scorse la bellezza, o per lo meno qualcosa che si potesse salvare.

“Un dannato ha sempre un’anima protettrice” diceva qualcuno. Lei era una di queste.

Era bella, aveva dei riccioli color nero, ed una rosa tatuata sul collo.

Erano una delle poche coppie, che si potesse ritenere tale. Il motivo del perchè fossero così affiatati era semplice: praticavano una certa tecnica segreta chiamata “comunicazione”. Nessuno conosceva quella parola, nessuno comunicava!

Mario provò all’inizio col gioco d’azzardo, sperando che qualche sistema matematico gli potesse fornire la certezza di vincita alla roulette, ma non faceva altro che perdere tutti i soldi. Il suo metodo poteva funzionare solo se si fosse potuto finanziare all’infinito, altrimenti sarebbe solo destinato a perdere. Il modello consisteva, ovviamente, nel puntare al raddoppio sempre in un unico colore, prima o poi sarebbe uscito! Ma come poteva accadere che per dieci, se non addirittura venti volte, uscisse solo un unico colore? Non ci sarebbe dovuto essere il cinquanta per cento di probabilità? Lasciò perdere il gioco d’azzardo. Sognò di fare una rapina. Ma Mario il farabutto non era portato a fare queste cose! Non era credibile. Ogni volta che si infilava il passamontagna, infatti, e prendeva la pistola a salve dal ripostiglio, finiva col ripensarci. Ma tentativo dopo tentativo, si abituò a vedersi davanti lo specchio con il passamontagna e la pistola in mano; era il momento di fare sul serio!

Mario il farabutto, frequentava spesso un bar di gente onesta e per bene, a parte un certo Orazio. Orazio veniva chiamato da tutti “l’idiota”.Su di lui se ne dissero fin troppe, non si può discernere il vero dal falso. Forse era un truffatore, forse un filosofo, forse un intellettuale, forse un ciarlatano, forse tutte le cose insieme, ma sta di fatto che indossava sempre degli occhiali da intellettuale. L’unica peculiarità che saltava subito all’occhio, era che, indossava un abito col fiore all’occhiello, Dio solo sa perché, ma questa era solo una piccola stranezza in confronto a un’altra:a ogni minuto d’orologio, un tic nervoso lo colpiva quasi come un colpo di singhiozzo, smuovendolo tutto e facendogli cadere sempre quegli occhiali da intellettuale. E ogni volta che li raccoglieva, se ne usciva con un “ordunque” o un “ergo”, riprendendo così il suo solito discorso filosofico.

Era una mattina tranquilla; sì, Mario il farabutto aveva sgridato sua moglie Caterina perchè, non appena si era alzato dal letto, pretendeva che gli portasse immediatamente il caffé, ma siccome lei puntualmente lo dimenticava, le urla di quel Mario non stranivano più nessuno, erano diventate un’abitudine. Se Dio stesso, magari in sogno, le avesse suggerito di ricordarsi di preparare il caffé e se lo fosse veramente ricordata, allora, quasi sicuramente, quel farabutto di Mario l’avrebbe sgridata per qualsiasi altro motivo, del tipo che fosse troppo zuccherato, o del fatto che il caffé fosse troppo caffé.

La giornata era fresca. Caterina, alzando le tapparelle della serranda per far entrare un po’ di luce, illuminò tutta la stanza. Nel balcone della camera da letto c’erano delle rondini che avevano fatto il nido su quella caldaia arrugginita e nell’aria c’era odore di pane appena sfornato, essendo che a due isolati da casa sua c’era un panificio.

Mario bevve il suo caffé lentamente, appoggiato alla ringhera del suo balcone, con quella sua strana vestaglia azzurra; s’accese una sigaretta intento a osservare la città.

Finito questo rituale, ne inziò un altro, ovvero quello di andare al bar.

“Ma Dio è il principio primo, e siccome tutto è Dio, noi siamo Dio” diceva il signor Orazio tra le risate generali.

“Ma Dio non esiste” aggiunse.

“Ma non avevi detto che noi siamo Dio è che tutto è Dio?” gli fece notare il proprietario del bar.

“Sì, non esiste nulla. Tutto è un inganno” continuò Orazio.

“Trovati una moglie, così la finisci di farti queste seghe mentali!” gli disse il proprietario del bar.

“Ma che moglie! Io sono già sposato” rivelò Orazio.

“Ah scusa non sapevo” aggiunse il proprietario del bar.

“Sì, sono sposato con le mie idee! Io sono uno, nessuno e centomila!” disse soddisfatto.

Mario era lì, seduto al bancone, erano sempre loro tre. I tre dell’ave Maria. Mario il farabutto, Orazio l’idiota e il proprietario del bar, un certo signor Dario “senzascontrino”.

Mario il farabutto gli si avvicinò e quasi gli sussurrò all’orecchio.

“Ma senti una cosa, qual è il piano migliore?” gli disse Mario.

“Non c’è piano migliore! C’è il piano che funziona e quello che non funziona” disse Orazio.

“Ok, e qual è il piano che funziona?” chiese Mario.

“Come faccio a saperlo? Dobbiamo provarlo per vedere se funziona. Provare per credere…” disse Orazio.

“Te ne rendi conto di quello che stai dicendo? Non si può provare. Dobbiamo finire in galera?” disse Mario.

“Oh non è poi così male! In galera abbiamo vitto e alloggio pagato, e non c’è bisogno di soldi!” disse Orazio.

“Non è poi così male per te! Io ho una moglie” disse Mario.

“Ebbene… vuoi sapere qual è il piano? Vuoi che te lo dica?” disse Orazio.

“Certo, sto aspettando” disse Mario.

“Tu vattene a casa ed inizia ad immaginare fortemente la rapina. Immaginala per filo e per segno nella tua testa. Ti faccio vedere che andrà tutto liscio. Fa’ come ti dico!” disse Orazio.

“Ma cosa devo immaginare? Non ne ho la più pallida idea” disse Mario.

“Immagina quello che vuoi, il modo in cui vuoi farla, ma credici!” disse Orazio.

“Ok, ho capito. Ci vediamo alle 16:30 al solito posto?” disse Mario.

“Certo, anche se il tempo non esiste, farò finta che esista solo per oggi!” disse Orazio.

Dopo quella chiacchierata al bar, si erano fatte pressappoco le dodici. Mario tornò a casa. Si mise a guardare un po’ di TV mentre aspettava il pranzo. Dopo aver pranzato, si sdraiò sul divano e s’addormentò. Dopo una buona mezz’ora, qualcuno suonò al suo citofono.

Mario il farabutto ebbe un sussulto! Si alzò dal divano come chi è colpevole di qualcosa. Forse era una colpa, il fatto che si fosse profondamente addormentato? Sta di fatto che pensò immediatamente di andarsi a nascondere nel suo ripostiglio, dove teneva l’attrezzatura per la rapina. Era probabile che non ci si potesse fidare di quell’Orazio l’idiota, non era una spia, ma essendo ingenuo poteva aver spifferato tutto alla persona sbagliata. La signora Caterina rispose ma non ci capì nulla.

“Probabilmente chi ha citofonato si è allontanato dal citofono” disse sottovoce.

Aprì direttamente il portone. Chi aveva citofonato conosceva il suo appartamento, e in un baleno si trovò proprio davanti la sua porta. Suonò due volte il campanello. Caterina sbirciò dall’occhiolino, non conosceva quella strana persona! Andò in salotto a chiamare il marito. Intanto la strana figura stava ancora lì davanti la porta ad attendere. Non appena Caterina s’accorse che Mario era dentro il ripostiglio scoppiò a ridere.

“Ma che fai!” gli disse.

“Si può sapere chi è? È la polizia?” le chiese.

“Perchè dovrebbe essere la polizia! Che hai combinato stavolta? Non lo so, è un uomo, non lo conosco” gli disse.

“Va’ a controllare. E se fosse in borghese?” le chiese.

“Ma che idee ti vengono in mente!” gli disse.

“Su, avanti, descrivimi quest’uomo” le disse.

“Ma che ne so io! È vestito in modo impeccabile e ha un paio d’occhiali” gli disse.

“È l’idiota!” urlò.

Mario il farabutto andò infuriato ad aprire la porta.

“Si può sapere che ci fai tu qui?” gli chiese.

Orazio diede il solito colpo con la spalla, dato dal tic nervoso, e dopo aver raccolto gli occhiali da terra, accennò un sorriso.

“Ebbene… eccomi, alle 13:30 in punto!” gli disse.

“L’appuntamento era alle 16:30 sotto il ponte. Non era di certo a casa mia” gli disse.

“Perdonami, c’è stato un malinteso allora. Sai, le assonanze…” gli disse.

“Non ti perdono! E se ti stavano seguendo come la mettiamo? E se hai lasciato tracce?” gli disse.

“C’è stato un malinteso, è vero, ma ciò non significa che io sia un malintenzionato! Quindi nessuno potrebbe seguirmi, visto che non è successo ancora un bel nulla” gli disse ridendo.

“Su dai entra! Ancora davanti la porta stai!” gli disse Mario.

“Con permesso” gli disse Orazio.

Si infilarono nel soggiorno, Mario lo fece accomodare su un divano, e andò a chiudere immediatamente la porta del soggiorno. Stette mezzo minuto ad aspettare in silenzio, per sincerarsi che sua moglie non scoprisse nulla. Sua moglie, è vero che se n’era andata subito lasciandoli da soli, ma aveva preso l’abitudine di star dietro la porta a origliare.

“Allora, hai fatto come ti ho detto?” chiese Orazio.

“No, mi sono addormentato” disse Mario.

“Sì, capita spesso quando ti abbandoni completamente all’immaginazione” disse Orazio.

“Mi sono addormentato e basta, non ci ho nemmeno provato!” disse Mario.

“E allora che hai intenzione di fare? Non ti piace questo metodo? Ne vuoi un altro?” chiese Orazio.

“Se ne conosci altri metodi che aspetti a dirmeli? Sei tu la mente” disse Mario.

“Ci sarebbe un piano perfetto, ma dobbiamo essere per forza in tre” disse Orazio.

“No, non può essere. Non possiamo dividere i soldi in tre” disse Mario.

“E allora questa rapina non s’ha da fare!” gli disse Orazio.

“Ne dovrai conoscere pur altri, di metodi!” disse Mario.

“Sei tu che non li vuoi applicare! Pensare alla rapina fin nel dettaglio nella tua testa, fa’ si che la potrai realizzare senza nessun intoppo, purché tu pensi positivo” disse Orazio.

“Ci posso provare, ma che c’entra il pensiero, con la rapina?” disse Mario.

“Il pensiero crea!” urlò Orazio offeso.

“Ok, non ti alterare però” disse Mario.

“Ti avviso che non risolverai tutti i tuoi problemi con la rapina. Io ti ho solo fornito un metodo, ma non ne voglio prendere parte. I tuoi problemi non si risolvono con i soldi” disse Orazio.

“Ma che ne sai tu dei miei problemi!” disse Mario.

“Sì, io ti conosco. Ti dico che non è così che risolvi i tuoi problemi. Ma se vuoi illuderti fa’ pure!” disse Orazio.

“Tu sei bravo solo a chiacchiere, non sai nulla. Ora vattene!” disse Mario.

Mario lo prese e lo sbattè fuori casa. Si sdraiò come prima sul divano e stette tutto il tempo a pensare.

“Quell’idiota! E così devo solo pensarci? Bene, adesso non mi resta che applicarlo” disse sottovoce.

Ascoltò il consiglio di Orazio e programmò la sua rapina fin nel minimo dettaglio, con l’ausilio di un foglio e di una penna tracciò un piano ben studiato. La moglie, intanto, era uscita a fare delle commissioni e Mario si dedicò a questo metodo. Si sdraiò sul divano, consumato da pensieri, tanto che si sentì immediatamente senza energie. Le forze lo avevano abbandonato, cadde in un sonno profondo.

Si preparò per uscire, era come rivingorato, era forte e svelto, agiva quasi senza pensieri. Tutto, in verità, si svolse nel più semplice dei modi. Tutti quei pensieri che lo avevano tormentato, si rivelarono solamente una perdita di tempo. Era come se dentro di sé conoscesse già tutto, come se il piano lo avesse pianificato da chissà quanto tempo! Mario agiva semplicemente secondo istinto, guidato dall’inconscio.

Era per stada, non pensava a nulla. Conosceva tutto a memoria. Si infilò in un vicolo, guardò l’orologio al polso. Camminava avanti e indietro per tutto il vicolo, come fa chi aspetta impazientemente qualcosa o qualcuno, che deve accadare o arrivare. Guardò per l’ultima volta l’orologio.

“Che strano! Si sarà rotto. Prima erano le 16:34, com’è possibile che non si è mosso nemmeno di un minuto?” disse sottovoce.

Andò direttamente in banca.

“Ma dovevo rapinare una banca?” si chiese.

Non lo ricordava o meglio era senza pensieri; il problema fu proprio che iniziò a pensare, e quindi non poteva più agire in modo meccanico, non poteva più abbandonarsi all’istinto.

“Orazio!” disse Mario.

Orazio era davanti la banca, ma Mario non era meravigliato, era come se lo stesse aspettando.

“È il momento” gli disse.

Si avvicinò ancor di più ad Orazio, ma lui si mise a correre all’impazzata per le strade della città, senza alcun apparente motivo.

Mario lo rincorse e lo acchiappò in un attimo, era molto più veloce di lui.

“Ma si può sapere che fai!” gli disse.

“Lasciami, io non ti conosco” gli disse.

Lo guardò bene in faccia e ne rimase colpito.

“Ma quello non è Orazio! Com’è possibile? Sembrava lui. Ma chi è questo, non riesco a vedere il suo volto” disse quando era già lontano. Per ovvie ragioni non poteva essere Orazio, quest’uomo non indossava gli occhiali. Mario si confuse, è vero, ma tornò subito in sé.

“Chissà dove sarà quell’idiota!” disse.

Si recò di nuovo davanti la banca, si infilò il passamontagna, si accorse di averlo già in mano, ed entrò senza esitare. Questo doveva fare! Agire senza pensare a nulla, aveva già preparato tutto, aveva già la pistola e il passamontagna, li aveva presi quando era a casa, ma non doveva pensare a nulla altrimenti si sarebbe soffermato su dei particolari e si sarebbe dimenticato l’essenziale. Ormai era tardi per avere ripensamenti, doveva solo andare avanti senza guardarsi più indietro.

Entrò dalla porta scorrevole e tirò fuori la pistola a salve da dentro la giacca, ma non appena vide che la banca era piena di gente, non seppe più come comportarsi.

“Questa è…” gli di spezzò la voce.

Due guardie che erano all’entrata lo presero e lo disarmarono con facilità, scaraventandolo faccia a terra. Gli misero le manette, tenendolo faccià in giù sul pavimento, poi lo alzarono con forza e lo portarono fuori. Mario ebbe per un attimo l’impressione che tutto il mondo ridesse di lui, sentiva un fortissimo rumore fischiargli nelle orecchie. Come una sorta di ronzio, di interferenza, di fastidio.

Fuori dalla banca c’era Orazio, il vero Orazio. Quando lo guardò, scoppiò a ridere.

“Te l’avevo detto!” disse Orazio.

“Mi hai tradito! Sei una spia!” urlò Mario.

Mario si guardò intorno, c’erano centinaia di persone fuori la banca, la gente era affollata e urlava cose indecifrabili.

“Hanno arrestato Mario! Mario il farabutto andrà il prigione. Oh sì, adesso gli tocca farsi la doccia!” e altro che non riuscì a capire. Mario fu preso di forza da quei due poliziotti, sembravano diversi da quelli che lo avevano ammanettato in precedenza, ma non gli aveva prestato molta attenzione. Tutto accadde in maniera così inaspettata!

“Il pensiero crea” sentiva questa frase rimbombare nella sua orecchie. Era la voce di Orazio, la riconobbe in un istante. Mario perse il senno. Fece volare i poliziotti con la forza del pensiero, pensò immediatamente al silenzio e si ritrovò circondato dall’oscurità. Urlò come un indemoniato e si svegliò.

Non appena si riprese s’accorse che tutta la rapina si era svolta solamente nella sua testa, intuì che fosse un segno del destino e si sentì alleggerito. Lasciò perdere tutto e ritornò a dormire.

Che avevo detto? Sognò di fare una rapina. Ecco la rapina dei sogni!


Antonio Sclafani

Redazione

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