Nella selva oscura delle parole: Alfredo Zucchi, Pierre Menard e una possibilità del linguaggio

Alfredo Zucchi, Una possibilità del linguaggio. Pierre Menard come metodo
Mucchi Editore, 2021

Leggere Alfredo Zucchi che parla di letteratura, dell’inganno e del vuoto che si cela dietro il linguaggio e il metalinguaggio è un’esperienza che raccomando: se covate anche una sola, piccola speranza che sia un gioco facile, abbandonatela, voi che varcate la soglia. Ma è questo, appunto, il bello del gioco ingannevole che è la scrittura.

Nel saggio di Zucchi – “Una possibilità del linguaggio. Pierre Menard come metodo”, edito da Mucchi – il linguaggio è l’amuleto che simboleggia sé stesso: c’è un continuo rimando all’infinità verso il basso che i linguaggi e i metalinguaggi fomentano, ma soprattutto il simbolismo delle parole è rappresentato dalla presenza delle parole stesse: il linguaggio ci parla, non ha bisogno di altro che di sé stesso per suggerirci una miriade di significati. In questo saggio – ma anche nella filosofia di Foucault, negli scritti di Borges, Bolaño et alia – lo scrittore è il mago, il teurgo che interpreta il linguaggio\simbolo per scavarsi la fossa verso le profondità più recondite della parola stessa. Ma attenzione, nel linguaggio e nella letteratura tutto è simbolo: anche il teurgo è simbolo, il suo sguardo non è mai quello di un neutro s-oggetto esterno. E come potrebbe? D’altronde, uscire fuori dal sistema narrativo è impossibile; ci vorrebbe un Teorema di Incompletezza di Gödel solo per parlare del linguaggio che parla, ma questo creerebbe un loop che non farebbe che alimentare la tesi di Zucchi. Ma sto divagando. Andiamo con ordine.

Tre elementi principali ho individuato, che compongono la speculazione di questo saggio: la fuga, la parola, il vuoto. Teniamo presente che ognuno di questi tre elementi descrive un Metodo, è punto cardine del metodo stesso e lo sovverte continuamente: il Metodo Pierre Menard, autore del Chisciotte che usa il linguaggio per implicare sé stesso, rendendo le stesse cose uguali e diverse a ogni capovolgimento. Vorrei parlare un po’ di più di ognuna di queste componenti del Metodo.

La fuga

Questo saggio parla di una possibilità, del linguaggio, che è una fuga: un curioso pericolo verso l’infinitesimale. Allora noi ora proviamo a riprenderlo il linguaggio, per la breve durata di questo articolo, giusto il tempo di giocare ancora un po’.

Se la tradizione giudaico-cristiana ci ha abituati a pensare alla conoscenza come a un percorso di ascesi che parte dall’infimo e approda all’universale, in un apice intellettuale che tutto comprende e tutto abbraccia, qui accade l’opposto. Ma attenzione: in questo gioco di specchi, di fughe e di capovolgimenti, possiamo accorgerci che l’opposto è anche la stessa cosa. La discesa è un’ascesi verso il particolare, verso il picco della profondità. Generale e particolare nel linguaggio – letterario, quasi folle, che implica sé stesso – si fondono, per approdare a un unicum: un excessus verbis. Una implosione del verbo che è l’esplosione del significato nel significante.

La parola

La follia è il luogo della potenzialità di un’opera, è la kora, come direbbe Platone: quello spazio, la materia grezza e informe entro la quale germoglia qualcosa, ma non abbastanza da sbocciare. Al linguaggio serve qualcosa in più della potenzialità stessa, per manifestarsi. E quello che manca al linguaggio, all’interno del ventre materno della follia, è l’opera di parole: l’assenza dell’opera, come direbbe Foucault, è la grande differenza che fa viaggiare la letteratura e la follia su due binari opposti: sono convergenze parallele, direbbe qualcuno.

Il vuoto

Il luogo dove il linguaggio sprofonda è, appunto, il vuoto, ma che vuoto non è, ontologicamente parlando. Qui Zucchi propone una interpolazione dal mondo della scienza dura, cita la fisica. Parlando di Loop Quantum Gravity, Zucchi ci propone di pensare al vuoto come a un non-luogo: non vuoto, non pieno. Non pensiamo più al vuoto come a un posto perimetrale, che si può circoscrivere: il vuoto non è né vuoto né pieno (e qui interpelliamo blandamente Schrödinger), semplicemente non esiste. Ed ecco che riappare, anche in un saggio sulla letteratura e il linguaggio, il problema dei problemi che affligge il pensiero dalla sua alba: l’ontologia.

Il vuoto, in definitiva, possiamo pensarlo come il non-luogo ancestrale dove il soggetto stesso è oggetto, sprofonda in un loop infernale dove non ci sono parti, solo buchi. Stiamo force dicendo che la materia di cui è fatto un soggetto è puro linguaggio?[1]

Sì. O forse no. Quello che importa non è (solo) l’ontologia del soggetto ma il processo, il percorso che facciamo insieme a Zucchi per arrivare a questo vuoto che vuoto non è, ma non è nemmeno pieno.

Il viaggio che Zucchi ci propone di fare è un percorso che costa, in termini universali e personali: non si esce uguali dal viaggio verso la possibilità. È come se il linguaggio fosse prima esterno al soggetto, posto su di un’altura; poi, il linguaggio diventa infimo, un luogo oscuro e basso: esterno sì, ma infernale. Ci troviamo qui alla fine dell’emanazione esterna del linguaggio: il luogo più materico di tutti, e forse per questo più immateriale del mondo stesso: un vuoto. Infine, c’è la riconversione: il soggetto si inverte su sé stesso per contemplare l’intelligibile della parola. Quello che i greci avrebbero chiamato epistrophé.


Concludendo, l’ultima osservazione che mi preme fare è una metanalisi su Zucchi, sulle interpolazioni, su me stessa e questo piccola analisi.

Leggendo il saggio di Zucchi non troverete riferimenti – almeno diretti – alla tradizione giudaico-cristiana, né al Platonismo, meno che mai al misticismo scolastico e nemmeno un riferimento a Heidegger. Quest’ultima mancanza mi ha sorpresa, dirò la verità: Heidegger ha scritto e pensato parole sul linguaggio di una sottigliezza mistica e metafisica tale, che credo che chiunque voglia parlare di linguaggio debba passare per il suo In cammino verso il Linguaggio. Ciò detto, è molto divertente e stimolante vedere Alfredo Zucchi spingere verso una compenetrazione profonda tra linguaggio, letteratura e fisica: tre metodi esegetici del reale che si tengono insieme nel macro-metodo di Menard. Il tutto è forse reso ancor più divertente dal fatto che io, al contrario, sto smuovendo il focus interpretativo su canoni che qualcuno potrebbe definire vetusti, superati: il baricentro, in questa piccolissima recensione, è tutto spostato sui canoni tardo-antichi e mistici (tranne Heidegger, anche se lui è un teologo). Eppure, stranamente, funziona: tutto si tiene, così sembra. Forse questo può mostrare che Platone era davvero un dio; o forse piuttosto dimostra che il linguaggio è uno e ci parla in tutte le sue manifestazioni: in loop.

Allora io mi chiedo: non stiamo tutti giocando lo stesso gioco della possibilità di un significato?

Alla fine, stiamo tutti parlando della stessa cosa: giriamo tutti intorno alla stessa parola, allo stesso senso: siamo tutti Pierre Menard, riscriviamo tutti quanti il Chisciotte continuamente, siamo la mille e una notte delle notti di Shahrazād, e questo fa paura.


[1] A. Zucchi, Una possibilità del linguaggio. Pierre Menard come metodo, Mucchi Editore, 2021, p. 55.

Clelia Attanasio

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