Come nuvole per le formiche

Da quattro anni ormai, ogni pomeriggio dalle due e trenta alle tre e venti, mi sdraio tra due querce piuttosto distanti tra loro e osservo il cielo.

Non è nemmeno vero del tutto, questo.

Spesso sto a occhi chiusi.

Non ho musica nelle orecchie né un libro portato con me per spendere bene il mio tempo. Sto imparando, lentamente, a spendere il tempo senza niente. Ad esserci, per esserci, con tutte le mie ossa, il flusso leggero del sangue, e immancabilmente, il respiro regolare; l’andare delle stagioni passa per il mio respiro.

Ho trentatré anni, ho l’età di Cristo, ho perso molti amici per strada e ne ho ritrovato qualcuno, i più distratti hanno fatto finta di non ricordare che ehi, erano secoli che non ci si sentiva.

Vivo da sola e ho una vicina di casa che monta ogni estate una piscina piena d’acqua azzurra. Il velo dell’acqua si riempie di insetti e di aghi di pino, ogni notte porta un’ecatombe diversa di cose, di pezzi di mondo.

Nessuno vi fa il bagno.

Lei assembla diligentemente ognuno dei quarantadue pezzi necessari a far rivivere la vasca, e poi nulla. È come se si dimenticasse che sta lì. Come se si dimenticassero tutti. Nessuno ci fa più caso. Passa l’estate, la svuota, la smonta e la mette da parte. Tornerà un’altra estate.

Vivo in una casa quadrata e comoda, la finestra della cucina staziona proprio di fronte al giardino della vicina. Di fronte alla piscina senza ospiti.

Come lei, anche io ho qualcosa di ben costruito che non uso mai.

Il mio giardino è tirato a lucido, mia madre manda da queste parti un suo amico giardiniere una volta al mese per esser certa che gli alberi reggano ancora il peso del mondo.

Li immagino in fila come titani innocenti, sulle radici sfiorano la vita strisciante del sottosuolo e i rami grossi ed eterni affilano le unghie contro le nuvole.

È un giardino piccolo, ma gli alberi sono lì da sempre.

In un angolo, la casa si erge come un organismo vivente, accuratamente costruita attorno a quello che c’era già.

Così, nessun albero ha perso la testa, nessuna vita è stata sacrificata.

È un giardino secolare il mio. Eppure, non mi ci fermo mai più del necessario, per il tragitto che mi serve quando voglio tirarmi fuori da casa, o tornarci. È come una porta soffocante e verde. Non c’è niente di eterno nel mio giardino, nel mio modo di viverlo. È lì. Fa da contorno a tutto quello che sta fuori. Ma è come se non ci fosse davvero, né il giardino, né il contorno. È come se ci fosse solo il dentro, e il fuori di questo mondo.

In questa città, quasi ogni quartiere ha un piccolo parco pubblico. Spesso si trova al centro dell’intreccio di vie cieche piene di case solo apparentemente diverse.

Anche il mio quartiere ha un parco pubblico.

Ha gli stessi alberi dei giardini sconosciuti che esistono lungo la mia strada, e del mio giardino.

Tanti grossi titani anche lì, sono alberi che hanno vissuto immense vite con nodi di guai, che hanno visto le cose farsi e sfarsi sotto foglie strane, mai le stesse, fresche e secche.

Non ci sono sempreverdi da queste parti però. Gli unici pini fanno la guardia alla piscina abbandonata e la coprono lentamente di aghi pallidi.

Quindi il parco ha un volto sempre nuovo.

I cespugli cambiano forma, si modellano sulle pietre, si scansano per continuare a vincere anche contro i sassi. Gli alberi crescono indisturbati. Nessuno incide le loro cortecce con le unghie o con lame sottili desiderose di creare legami per la vita. Non c’è nessun ‘per sempre’ da far scontare sulla patina ruvida degli alberi, nessuna dedica scolorisce perdendo parte del suo valore.

Non ho mai visto chi si occupa di questo angolo di verde pubblico.

Mi basta sapere che c’è quando metto il naso fuori di casa. È il mio mondo di fuori. È un pianeta intero, lascio il mio, e camminare è come un viaggio.

Poche volte ho incrociato qualcuno del vicinato. Non conosco quasi nessuno, ma i volti sono familiari perché lo sono i loro gesti, gli abiti che indossano sono semplici e mai artefatti. Non c’è anima viva che sembra avere l’aspetto di chi viene da lontano per sedersi tra queste fronde, su queste panchine.

Ho una casa quadrata, dicevo. Sono quattro stanze in tutto dalle pareti bianche e azzurre e l’aria di una dimora perfetta per le vacanze al mare.

Il porto è, però, a venti chilometri e cocci di distanza. Non c’è nemmeno un ristorante di pesce nell’area. Non c’è colore o odore di salsedine ai bordi delle strade, c’è solo vento, traffico di tanto in tanto, e parecchio silenzio.

Le strade attorno a casa mia hanno pietre scure come mattonelle, la gente ci passa sopra con le automobili senza alcuna cura per il fatto che qualcuno le abbia incastrate lì una per una, a mano, con fatica. Sono pezzi d’arte. Il respiro di qualcuno si è assottigliato per sistemare una strada imperfetta ma bella.

Nessuno se ne cura.

Non ci sono grossi palazzi vicino a noi. Le ombre che il sole restituisce a ciascuno sono brevi, incerte. Qualcuno ha scelto un tetto piatto perché un domani forse vorrà costruire una terrazza, qualcuno che immagina lunghi pomeriggi sotto la canicola estiva.

Ma il sole da queste parti è acquoso come un tuorlo poco nutrito, in qualunque stagione.

Anche l’aria calda non è mai davvero gialla, prende la tinta della luna che in confronto sembra gioiosa e carica di energia.

Si vive poco di notte qui in zona, forse per questo la luna ha più da festeggiare.

Un pomeriggio di quattro anni fa, vivevo in un perimetro di scatole di cartone piene a metà, e due resistenti valigie dai colori sgargianti. Quand’erano ancora integre facevano pensare a viaggi esotici e mete piene di fiori. In realtà hanno visto solo l’austerità di questo posto. I volti sgargianti di quelle due borse conoscono solo l’aria pavida e sterile di questa città.

Durante quel pomeriggio mi sono alzata anchilosata. Dormivo per terra da poco meno di due mesi. Per terra significa dentro un malformato panino di piumoni, uno grosso per terra a mo’ di materasso e uno a coprirmi fin sopra le orecchie. Ogni notte la trascorrevo così. Erano belle notti, lentissime.

Il tempo sembra fermarsi, infatti, quando si è dentro una bolla di fatica e di dolore fisico. Il corpo sembra allungare le ore per purificarsi per bene. Ogni muscolo mi faceva male, potevo contarli uno ad uno per quanto mi dolevano durante le ore di luce. Non dormivo mai di giorno, nemmeno da esausta. Era piacevole conservare questo assurdo rituale solo per il buio.

Quel famoso pomeriggio ero indolenzita ma è successo di colpo, il mio corpo sembrava muoversi da solo.

Stanco forse di tanta forzata sedentarietà, abituato al continuo movimento di un lavoro per lo più svolto in piedi, ha deciso che avevo trascorso abbastanza tempo senza fare niente.

I piedi hanno iniziato a camminare.

Io guarisco camminando. Da qualunque male il mio corpo o la testa siano afflitti, guariscono lentamente camminando.

È una cosa che mi porto dietro dai tempi del liceo. Con una patente nuova di zecca e nemmeno uno straccio di automobile, camminavo dovunque. Potevo fare ore a piedi, per necessità o per diletto. Ore su ore, avrò consumato decine di paia di scarpe.

Quel pomeriggio indossavo scarpe nuove di zecca.

Questa storia di comprare cose nuove per dimenticare la bruttura del passato è trita, ma funziona bene. Erano scarpe buone per camminare.

Ho fatto il giro dell’isolato.

Non ricordo nemmeno esattamente che strada ho fatto, o quali viuzze secondarie ho imboccato con il naso dentro la sciarpa. Era inverno, appena iniziato.

È ideale, camminare di inverno. Si fanno lunghi tragitti senza temere le curve rese cieche dall’afa. La strada è sempre dritta senza ostacoli, di inverno.

Ho camminato tanto. Ho percorso una strada inutilmente complicata.

Ho trovato questo giardino pubblico per caso.

Il cancelletto di legno era aperto e il cartello di fianco mi informava con cortesia che ero perfettamente in tempo per godermi cinque ore, ancora, di respiro e di foglie e di verde puro, forte. Era un verde particolarmente rigoglioso, pieno di sfumature nonostante lo scenario non si componesse di troppe diverse varietà di alberi e di arbusti.

Natura camaleontica, pensai. Sa fregare i sensi di qualunque imbecille incapace di vedere la differenza sottile. Lei crea le differenze come si modella la cera.

Da allora, ogni pomeriggio dalle due e trenta alle tre e venti sto qui.

Sono davvero qui, intendo dire. Non vago con la mente altrove, e anche se chiudo gli occhi e mi disinteresso del cielo so che è sempre lì. Sono sdraiata quindi è tutto su di me. Non mi sento oppressa, ma stretta. Non soffoco, ma lentamente imparo di nuovo a respirare. Stacco la spina ma non la stacco davvero, una parte di me vorrebbe regalarsi solo l’illusione di non esser qui. Potrei immaginare di essere a lavoro, a far spese, a far regolare i conti di quel che è rimasto in cima alle macerie.

Chi non ha macerie da nascondere o da raccattare ha vissuto una vita che non è vita.

Ogni cosa si fa a pezzi, che sia per cambiare o per morire.

Nessuno resiste al mondo senza macerie.

Mi sono spesso chiesta cosa succederebbe se le ombre delle cose non esistessero. Se le fronde non lasciassero macchie sulla terra, e se gli alberi fossero alti e maestosi ma costretti in un solo angolo di mondo senza potersi allungare altrove.

Le ombre sono la volontà di essere dovunque. È il richiamo della luce al fatto che siamo dappertutto se vogliamo.

L’ombra è il ricordo di quello che siamo e che ci lasciamo dietro.

E allora, mi son chiesta durante i pomeriggi mai lunghi e mai brevi trascorsi dentro il parco, che sarebbe del mondo senza le ombre?

Ho pensato alle nuvole. Ne vedo passare parecchie sopra la fronte, sopra le ciglia che ho sempre avuto molto fini e strette.

Scorrono veloci a volte e a volte lente, ricordano il cielo di casa mia ormai casa di altri. Ho vissuto in un’altra nazione per otto anni.

Non ne parlo mai. Non c’è niente da dire.

Le nuvole mi disegnano addosso le loro ombre grigie. Non è un grigio triste. Non c’è niente di malinconico nelle ombre delle nuvole.

Il grigio dell’ombra è un colore come un altro.

Se chiudo gli occhi le vedo comunque. Scorrono contro le mie palpebre serrate e modificano la luce che filtrerebbe appena anche se stringessi forte gli occhi per non vedere niente. So però che il niente non può esistere. Sono costretta a sapere che c’è un giardino attorno a me, ogni parte del mio corpo me ne restituisce un boccone e mi costringe a percepirne il sapore, l’odore, i suoni molli.

Mi sembrano enormi le ombre delle nuvole.

Le credo capaci di coprire tutto, il bello, il brutto su cui navigano ogni giorno.

Le immagino scivolare per afferrare i momenti atroci, oppure solo tristi, o quelli straordinariamente dolci, piacevoli, e portarli via, scorrere dando l’impressione di non avere alcuna fretta.

Siamo noi che imponiamo all’ombra un arco di tempo.

Troppo veloce, troppo lenta, guarda come scappa, questa se la prende comoda.

È tutto nostro, questo tempo imposto alle cose di fuori.

A me sembra sempre troppo presto quando le tre e venti bussano in un beep incessante. Il mio polso emana il suono della sveglia con un fare un po’ antiquato. È così bizzarro, pensare che ormai pochi orologi sopravvivono al cambiare del tempo. Incredibilmente ironico. Cambia l’era, e l’orologio così fedele al suo stesso rintocco scorre via. Sparisce.

Quando parlo di orologi ovviamente intendo quelli da polso. Ne vedo sempre meno in giro ormai.

La proprietaria del negozio di saponi in fondo alla strada mi ha confessato ridendo che il suo è scarico dal Natale di tre anni fa e non l’ha ancora ricaricato. Le batterie stanno marcendo inutili e spente contro il metallo e non fa niente. Mi piace com’è la forma, come mi sta, dice. Non le interessa che l’orologio faccia quello per cui è stato disegnato.

Non le interessa privarlo dell’anima. Siamo così crudeli con le anime degli altri e delle cose.

Decido infine che sono enormi in fondo, queste ombre.

Ciò che appaiono a me non ha importanza perché io sono qui adesso, un punto dentro una porzione di fiume.

Penso che probabilmente andrò via dallo stesso cancelletto da cui son entrata, e le ombre resteranno lì per qualcun altro, qualche istante ancora, che per loro forse sono secoli, forse nemmeno battiti di ali.

Mi alzo lentamente e noto delle formiche. Sono tre, quattro, in fila, e camminano lungo i fili di gramigna che pazientemente crescono a ciuffi indecenti qua e là. Sono pochi, è quasi tutto prato fine inglese. Ma la forma grezza e possente di questi piccoli cespugli senza pudore si modella di tanto in tanto, in modo confusionario, a caso.

La pozza verde e filamentosa accanto a me ospita quattro formiche. Hanno la testa rossa e l’aria indaffarata.

Se ne infischiano di me. Come la proprietaria dei saponi se ne infischia del passare del tempo.

Ognuno di noi ha una lotteria da vincere e qualcosa da ignorare.

Non mi temono neanche, forse.

E lo capisco, alla fine.

Io non temo le ombre delle nuvole, che pure incombono enormi su di me, e potrebbero schiacciarmi. Se sapessi che possono farlo, se avessi memoria della loro forma e del loro peso sul mio, forse ne avrei paura.

Ma cosa ne sanno queste formiche di quanto più pesante sono rispetto a loro, di quanto non sono un mondo da esplorare ma un puntino dentro un altro mondo che continua a girare imperterrito – e che a sua volta se ne infischia un po’ di me?

Per loro, io, sono la nuvola. Sono un’ombra, che scorre addosso al loro incessante lavoro. Al loro incessante camminare.

La mia ombra è l’ombra della nuvola per le formiche. Se ne lasciano sfiorare indifferenti, forse un po’ scocciate poi scappano per ritrovare la luce che serve a camminare, e non perdersi. Non ha peso, la mia ombra, per loro. È solo una cosa seccante da evitare, una cosa passeggera.

In questo non sono come me che percorro sempre la parte di strada bagnata di ombra anche d’inverno. Io attraverso l’ombra e la vivo per ogni svolta della camminata. Loro no.

Siamo ombre enormi. Controfigure della luce di qualcosa o di qualcuno, ci muoviamo come cose gigantesche tra cose piccine, a volte cose invisibili. Lasciamo tracce senza polpa sugli altri. Il mondo ha il nostro timbro senza saperlo o vederlo. Siamo una bambola di legno a scomparti di cose da vivere e da fare. Le formiche hanno il loro, io ho il mio.

Mi rialzo senza nemmeno spolverare i jeans.

Mi porto dietro la ghiaia e l’erba addosso.

Salto via dai cespugli che fanno da limite inesistente, ed evito il cancelletto. Evito le formiche, l’erba su cui camminavano, evito di passare tra le due querce, titani innocenti, grandi, di una bellezza che sconosce le stagioni.

Mi lascio alle spalle ogni cosa, e la mia ombra è passata sulle formiche un istante e veloce è scivolata via, secondo il mio tempo, il mio orologio.

Mi incammino verso casa, verso lo spazio dove forse sorgerà tra qualche mese la piscina, e la sua acqua intonsa e lucida e piena di aghi di pino. Mi dirigo verso la drogheria per comprare un biglietto dell’autobus e un bricco di latte.

Sono le ombre, le ombre sono me.

E siamo ovunque, incautamente consci dello spazio e del mondo.

Questo mi rassicura.

Rende impossibile essere soli, lo rende vero anche quando non c’è un filo di luce.

Ho un presentimento.

Una sensazione, forse.

Le formiche, le ombre, le luci, il cancello di legno, la mancanza di staccionate o di confini tra questo mondo verde e il resto del mondo fuori: ogni cosa sembra puntare verso l’impossibile.

Sembra spingermi a ripulire l’anima da quello che so, e quello che suppongo, e di scordare la verità.

È come la forma nascosta dentro ogni passaggio di nuvola.

C’è, non c’è: non mi guardo indietro, quando mi tiro fuori da qui. Oggi, meno delle altre volte. Cammino spedita.

Sento, quasi, il parco svanire, con tutte le sue mille cose dentro.

Mi volto a guardare solo quando son costretta a svoltare a destra.

Il parco è lì. Però, davvero, è come se un’ombra enorme l’avesse inghiottito.

Mi chiederò che strada fare, domani, per trovarlo di nuovo?


Federica Zappalà. A metà tra libri di filosofia e densi testi di cucina di ogni genere vive Federica. Trent’anni e qualcosa, scrive per raccontare storie che abbiano sempre qualcosa sottosopra, qualcosa della vita di tutti i giorni ma attraverso occhi sempre diversi.
Si laurea in Filosofia qualche anno fa. Ora scrive anche di linguaggio e di coscienza, studia e ricerca, ma solo per sé e per il corso di laurea che si è messa in testa di seguire dopo anni di lavoro nella ristorazione, su un filo tra Inghilterra e Sicilia. Sogna di aprire un posto dove si legga Jane Austen e si mangi come i personaggi dei libri di Banana Yoshimoto, che accolga tutti e che narri anche le parole della sua piccola famiglia stramba.Vive in Sicilia, vicino ad un bellissimo vulcano.

Redazione

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