La Raggia, Mattia Grigolo
Pidgin Edizioni, 2022

La Raggia è un libro all’apparenza semplice, si legge in poco tempo e il linguaggio è sapientemente mantenuto a un livello colloquiale per mimesi con colui che scrive, un ragazzo quasi analfabeta che annota i suoi pensieri e porta il lettore dentro la sua testa, a seguirne la consecutio mentale fino a snodare una verità terribile.
“Hai tra le mani dei quaderni.
Non sai se li hai trovati
O se ti sono stati donati.
Non sai da chi sono stati scritti.
Contengono dei segreti
Che decidi di leggere partendo dalla fine”
Ecco quello che hai, ti avvisa l’assunto iniziale, hai delle pagine, e queste contengono una dichiarazione, accolgono la vita di un adolescente, sono diari. Ma nessuno ti può dire, lettore, se sono veri. Se sono un falso. Chi li ha scritti, quando, e chi vi ha apposto le correzioni che vi si trovano.
Dentro i fogli immaginari che tu hai, lettore, c’è un ragazzo, figlio di un padre violento. La madre è scomparsa, forse è scappata, forse è stata uccisa dallo stesso padre. Il ragazzo e il genitore vivono in un bosco, in una catapecchia, una capanna che una volta poteva essere servita per la caccia, una rimessa al limitare di un qualche piccolo paese di provincia.
Il padre non parla. Il padre picchia. Il padre beve. Il ragazzo subisce e soffre. Il ragazzo capisce, comprende in superfice la brutalità del padre e pensa, e teme, che quella disumanità animale si stia trasferendo a lui, anzi, mentre scrive sta già prendendo casa dentro il suo corpo, nelle viscere, nel ganglio del cervello. È un male, la bestialità, che sembrerebbe contrarsi per contatto, per osmosi, e dalla quale non si può fuggire, non c’è redenzione. Il ragazzo lo sa, anche se vorrebbe non saperlo. Ne ha cognizione perché, talvolta, un fiele, una collera esaltata e cieca, un mostro velenoso e violento lo posseggono, lo svuotano, ficcandosi in ogni pertugio del suo essere, denudandolo di ogni altro sentimento e senso per prendere dominio in lui, fino a guidarne i gesti annichilendo ogni ragione. Il ragazzo, forse, non è sicuro di quel che ha fatto, non sa se ha compiuto ciò che ha compiuto. Lontanamente, come una nebbia, ricorda: “forse ho preso un pensiero brutto e l’ho messo dentro al fiume così che magari se lo portava via”. Ma cosa o chi era quel pensiero brutto che lui ha gettato dentro il fiume?
La forma diaristica procede per ellissi e al lettore è dato il compito di ricostruire il non detto, un po’ come avveniva per l’acustica nel teatro di Epidauro, dove lo spettatore era chiamato a completare, in ordine alla logica e alla consequenzialità, le parole mancanti del dramma in atto. In tal modo, anche qui, l’evento funesto si dispiega, ma saltellando. E non c’è una tragedia sola, non c’è una morte sola. C’è anche la vita spezzata di chi ha ucciso, di colui che non è riuscito a emanciparsi dalla condizione primordiale in cui la vita stessa, la realtà della sua nascita, l’ha conficcato. Il ragazzo ha davvero ucciso il suo amore? Eppure lei era poesia “Una poesia che non ho mai letto, Nina, Nina. Che di poesia io non ne ho letta manco una, ma da quello che mi ricordo dalla scuola, la poesia è Nina. Una cosa che si abbraccia col cuore. Ecco qui.”
I quaderni che, come detto, procedono a zig zag dal punto di vista temporale e non linearmente, sono appunto le confessioni del protagonista. L’autore, per far parlare il narratore soggetto della storia, usa uno stile secco, piano, scorrevole, fatto di poche parole a denotare un pensiero essenziale, che procede a blocchi di senso. Così, il ragazzo scrittore ricorre spesso a immagini familiari per spiegare i sentimenti profondi e difficili che sente gorgogliargli dentro, che vorrebbe chiarire prima di tutto a sé stesso, e riesce, suo malgrado, a riportare sulla carta un’intuizione profonda delle cose. È per questo che la figura del protagonista ci richiama alla pietà, nonostante sia colpevole del delitto più atroce, ferino, vigliacco di cui un uomo si possa lordare. Perché avvertiamo che se la sua vita fosse stata diversa, lontano dal padre, dentro una casa amorevole, e non abbandonato a sé stesso in una capanna umida, picchiato e malvoluto, avrebbe saputo probabilmente anche lui distinguere la giustizia, liberarsi della rabbia. O forse la rabbia non l’avrebbe avuta. Il ragazzo percepisce l’orrore, sa che la violenza è sbagliata, ravvisa la brutale eccezionalità della sua esistenza e indovina che esiste un altro mondo, che gli è precluso, dove le cose e le persone sono diverse e regna spesso la gentilezza, quella che lui ha conosciuto solo da piccolo, quando ancora c’era la madre. Ma non ne è sicuro, dice, forse i suoi ricordi sono fallaci, tanto la cosa gli sembra lontana, inappropriata per lui che non la merita, forse ha sostituito i ricordi veri con altri inventati, più dolci. Lui non ha niente, aveva solo Nina, ma la rabbia del sangue non c’è disciplina che la plachi “È la raggia rabbia che c’ho perché c’ho solo quella e niente di altro. La rabbia che è mia e che viene fuori al momento sbagliato senza che me ne posso accorgere. Che poi è la stessa rabbia che c’ha quella bestia, che me l’ha passata col sangue suo e le bastonate botte. Questo sono io che non c’ho più niente, manco mia madre che se ce l’avevo ancora sicuro che non mi veniva la testa matta di mio padre”. E questo padre sputa e vibra pugni e si annulla nell’alcol. Non possiede parole. Nella testa non ha pensieri ma fuoco. Per tutta la sua esistenza caprina non ha fatto altro. Vivono nella povertà, mangiano le carpe che l’uomo pesca di frodo, condividono una stanzetta e una latrina fuori nel bosco, con il tetto di lamiera.
Così, un libro all’apparenza facile, nudo, di stile cristallino, lascia perplessi e suggerisce spunti di osservazione imponendo una domanda. Esiste la cattiveria per nascita, per debito di DNA, la crudeltà è insita ontologicamente nell’uomo o dipende dall’ambiente, dall’istruzione, dalla fruizione della ricchezza che permette l’accesso ai piani alti del mondo, dall’amore ricevuto, dall’educazione all’amore? Hobbes o Rousseau? Sarebbe stato diverso il ragazzo inserito in un’altra classe sociale e culturale? È il benessere della famiglia di origine a formare le persone? Non potrebbe nascere, invece, lì, il problema, nella disuguaglianza, nell’assenza dei diritti primari per una fetta enorme di società e di mondo, nella distribuzione malata e ingiusta, diseguale dei profitti?
Il ragazzo indovina il senso dell’armonia, la poesia della bellezza, quando per esempio cammina nel bosco, o i sentimenti di bontà, ma non può farli propri, non è capace di afferrare nulla di buono, gli sfugge, non sa come si fa.
A un certo punto della vicenda, il protagonista afferma, parlando del maresciallo che lo ha in custodia, uomo di cui percepisce istintivamente la rassegnata bontà, la comprensione dell’invisibile che si nasconde dietro la violenza visibile “Che se forse ero figlio suo invece che di mio padre ora stavo fuori a fare la guardia pure io e magari era meglio”. Il ragazzo narratore, infatti, nel terzo quaderno è in carcere, affidato stavolta ad un’altra coercizione becera, ad un altro inutile sistema che fallisce ogni giorno la sua ragione d’esistere come soluzione ad un problema, eppure, sotto gli occhi bendati della società, a cui fa comodo, persiste. Dice “Che poi a cosa mi serve a me stare buono qui dentro. A niente mi serve”. E infatti non serve a niente. Solo a scoprire altra violenza mentre si sta chiusi dentro una stanza lugubre, piccola, insana, troppo spesso affollata, imprigionati, attaccati alle sbarre come animali allo zoo per vendetta dello stato. Il carcere è la sterile risposta della società civile alla colpa, presunta o tale. E spesso questa colpa non è dell’individuo ma della mancanza di una struttura organizzativa adeguata, dell’assenza di orizzontalità nell’erogazione dei servizi, degli aiuti. La prigione è la risposta dell’indifferenza, del disumano disinteresse nel cercare soluzioni maggiormente utili, duttili, personalizzate, rispetto al colpevole e rispetto alla colpa. Una specie di legge del taglione ad uso dello Stato, uno Stato che trova soluzioni facili e si lava le mani come Ponzio Pilato, chiude una porta e dietro c’è un uomo, e se pure c’è una bestia la porta non può essere la cura.
In prigione, per il ragazzo, la violenza non è più del padre ma del sistema, sono le botte degli albanesi e dei rumeni negli spazi comuni. In galera al ragazzo accadono due cose: finisce in infermeria per le percosse ricevute, scopre la televisione, e con essa anche un dolore, quello della possibilità perduta, comprende le cose che avrebbe potuto fare ed essere, conosce la pubblicità, il consumo e il desiderio. E lui desidera una cosa piccola, che è anche grande, un passeggino a doppio fondo, per farci “la familia” e passeggiare la domenica. Desidera una vita. Quella che non ha avuto. Che non può più avere.
Intanto, mentre penso al libro e a cosa vuole dirmi, il libro è finito, le ultime pagine le ho lette camminando. Al parco c’è il sole. Io privilegiata, che ho studiato e letto, tra poco tornerò nella mia comoda casa. Sembrava un libro semplice. Invece, resto indecisa, lo rigiro tra le mani, come se in realtà queste pagine, su cui tamburello con le dita, facili non siano; come se al contrario ci fosse un fondo, un qualcosa che rimane sospeso senza essere compreso. Ha forse a che fare con la noncuranza, con le soluzioni che non sono all’altezza del reale e non vi aderiscono, ha a che fare con vari tipi di brutalità, con la ferocia come conseguenza della ferocia, l‘ignoranza e la disperazione dell’indigenza, il furore dei personaggi di Steinbeck.
A me sembra che dietro la singola vicenda vi sia una storia universale, che riguarda il mondo e non il singolo paese piccolo, con la gente piccola al limitare del bosco. A me pare che riguardi il mondo intero, dall’Africa ai paesi della provincia americana, dove ho visto così tanta povertà e indifferenza e sporcizia e polvere sui visi di bambini spettinati che non aveva niente di diverso dalla Cambogia, dalle strade del Vietnam. E quella storia universale è la miseria, l’assenza di diritti, il divario, l’ingiustizia, lo sfruttamento della povertà per mantenerla tale, l’incuria, l’assenza di istruzione, l’assenza di interesse, l’assenza e basta, il deficere di contro all’abbondanza, al privilegio. La raggia è una piccola storia, ma se ne porta dietro tante, più complicate. La raggia è la rabbia. La mia, la vostra, quella del protagonista e di tutta una schiera come lui che non sta tra le pagine di un libro ma nella vita vera, nelle nostre province e in tutte quelle della terra, nelle grandi metropoli dentro le baraccopoli, gli slum indiani, le favelas sudamericane. La Raggia è un esempio. E si porta dietro un segreto. Qualcosa che abbiamo fatto male in quanto società. Che poi la società è fatta di individui e ci riguarda tutti. Così la raggia, la rabbia, il ragazzo e la storia che ne viene fuori, riguardano tutti noi. È il nostro specchio e la vergogna civile. Poi è anche una storia personale esecrabile, la storia della debolezza che non sa vincere gli istinti, di una presa di coscienza che non raggiunge sé stessa, ma è una decisione del protagonista fino a un certo punto se la raggia, la rabbia, l’hai respirata dalla culla. Così, la raggia, la rabbia, è quella che invece, talvolta, ci dovrebbe prendere e non ci prende. È l’inumano che vince e non si sa di chi è la colpa. Della raggia, della rabbia, della collettività sempre girata dall’altra parte, delle istituzioni.
Intanto, continuo a camminare e soppeso ancora il libro tra le mani, come se scottasse, lo penso mentre guardo la gente intorno che ha fretta, penso a quella cosa che il libro dice non dicendola. Chissà cos’è. Forse la volpe che il ragazzo vede nel bosco, e che gli parla con la voce della madre, lo sa.
Silvia Penso