Tutto ciò che poteva rompersi: la ricerca continua della società dei giovani

Tutto ciò che poteva rompersi, David Valentini
Accento editore, 2022

Ho tutto, e mi sembra di non avere niente (pg. 60)

Cosa sente davvero la gioventù oggi?

La domanda alla base del libro-raccolta di David Valentini, tra i primi tre pubblicati dall’esordiente casa editrice Accento (fondata da Alessandro Cattelan e diretta da Matteo B. Bianchi) sembra costituire un nucleo su cui i racconti si sono agglomerati per espansione del cerchio, come piccole risonanze che trovano l’eco originaria, così appare, perfino decenni fa. Tutto ciò che poteva rompersi ha la pregevole caratteristica di narrare storie vere: le storie degli amici dell’autore, le loro vite, anzi meglio, le scelte più cruciali di queste, quelle che hanno sempre, in qualche modo, sciolto un nodo, creato un nodo, tolto un sipario, franato muri portanti.

Da questo intento si intesse la narrazione di un arco di generazione: i racconti delle vite di Ludovica, Nicola, Alice, Laura, Stefano, Anna, Michele, Marco, Riccardo Federica e Filippo, e infine Sara raccolgono il sentimento dello stare al mondo di persone nate tra il 1972 e il 1997, fermandosi per lo più sui cuori dei trentenni e dei cinquantenni.

Ma quella domanda d’origine sembra risonare antica e accomunare tutti in una gioventù che cerca, e continuare a cercare, se stessa. Tutti i protagonisti, nei rivolgimenti delle loro vite, alcuni giovani nella Roma del 1990, altri giovani nella Roma del 2020 (e i suoi grandi eventi come la grande pandemia di marzo), si trovano di fronte alla forzatura di questa domanda, provocata da loro stessi o dagli eventi: la ricerca della realizzazione professionale all’estero, l’incontro con la tossicodipendenza, il ripensamento sulla realizzazione familiare e sul posto fisso, la ricerca di una casa, la ricerca dell’amore che incappa nel proibito, perfino nella forma dell’incesto, il tradimento e la perdita dell’amore, l’indagine sulle radici familiari, la pandemia stessa, la ricerca della maternità e l’abuso fisico e mentale. Tutto innesca il centro della gioventù, detonando l’interrogativo.

La risposta suggerita dal filo che, mirabilmente, unisce i racconti e le relazioni tra i personaggi – in una maniera un poco televisiva in cui si accennano collegamenti temporali e a volte casuali tra loro (alla Lost) -, sembra essere che i giovani seguono ideali come schemi ripetuti ma inadeguati. Comandamenti in cui pensieri di novità e modernità si scontrano a volte con remore sociali fondate su sentimenti che, questi sì, risultano inusuali.

Forse la società della famiglia e dei passi importanti da fare funzionava perché funzionava un’idea di sentimento, anche se non necessariamente il sentire stesso: e se l’idea del sentimento non supera più l’immaginazione, se l’immaginazione, il fare le cose per imitare la loro idea cliché, le serie tv e gli episodi clou dei film sono tutto ciò che ci rimane per sentirci vivi o al sicuro, cosa tiene su la società?

La costruzione della raccolta sembra raggiungere il picco narrativo circa a metà libro, per fermarsi proprio su questa meditazione importantissima, che non sembra darci pace, né darla agli scrittori, come se, pur andando avanti e avanti, dobbiamo sempre fare un passo indietro, e capire cosa c’è davvero alle fondamenta. Cosa c’era e cosa è rimasto.

A metà libro quindi si compie un salto nell’oggi da un mood altrimenti un pizzico passato, un decennio appena che sa di un tempo indefinito, che ha dell’indefinito l’appiglio alla poesia, alle cose malinconiche e forse instabili, quando vissute, ma perfette appena andate. Una sensazione che non si ritrova mai nell’oggi.

Secondo lei è possibile che sia il dolore a tenere insieme le nostre vite? (pg. 188)

Il racconto che reca in sé il senso del titolo del libro di Valentini, In terre straniere, fa i conti con un ritorno al passato (il protagonista che si reca alla casa delle vacanze in paese, Fondi, per liberarla dopo la morte del padre) che tira le somme su se stesso: su cosa significa crescere in una famiglia, sulla comprensione dei genitori in quanto persone assillate anch’esse dal dubbio del sentimento, della felicità e della vita, su cosa rappresenta la fratellanza e come cambia crescendo, su cosa significano e cosa sono davvero le radici che ci ancorano a terra, su questo mondo.

La storia, non a caso la più sentita della raccolta, ambientata nei mesi della quarantena per la pandemia, e forse con riferimenti autobiografici, sembra piazzata come uno specchio a metà degli eventi concatenati, messa a riflettere ognuno dei dubbi che ci portiamo appresso crescendo; e così fanno i nostri amici e i nostri fratelli, cercando di veder chiaro sull’unica cosa che davvero conta: la felicità è una cosa semplice o complicata?

Si distilla un’idea da queste domande radicali, che i giovani sono cresciuti tutti pensando di non provare sentimenti, provandone comunque pochi, ovattati e superficiali; ossia, c’è una sensazione generazionale per cui qualcuno ha detto che dobbiamo provare sentimenti, invece non li proviamo o molto poco. O male.

Possibile che ogni amore sia destinato a perdersi? Possibile che niente resista per sempre?

Guardando la devastazione che mi ritrovo intorno, la risposta è chiara.

Tutto ciò che poteva rompersi si è rotto. Tutto ciò che poteva ammuffire è ammuffito. Persino il cibo in scatola è scaduto da almeno due anni. Mi torna in mente la domanda che Federica mi ha rivolto il primo giorno: che ti aspettavi di trovare? (pg. 132)

Dall’amore perduto, anzi confuso, deriviamo queste radici ammuffite che hanno fatto franare una generazione, questa, e forse quella immediatamente successiva, di questo mondo nuovo. Chiedendoci se questo amore c’è mai stato davvero, se era davvero come pensavamo che fosse quando siamo cresciuti, se sarà davvero alla stregua delle aspettative che ci siamo fatti dalla proiezione di film e serie tv. Derivandone, infine, una risposta sospesa, che sa più di perseveranza che di risoluzione.

L’amore per me è sempre stato qualcosa di terrificante. Una specie di magma sotterraneo che al momento giusto sa trasformarsi in un’eruzione violenta e che poi, anche quando la lava si raffredda, lascia sul paesaggio segni indelebili. (pg. 172)

E questa idea di perseveranza sembra essere tutta amorevolmente racchiusa nella conclusione a ciclo dei racconti, in cui l’ultimo personaggio rincontra il primo, e nella piccola raccolta di biografie sui personaggi (che sono “tutto ciò che si è rotto”) – scritte forse da loro stessi-, in cui è gettata una piccola luce sul proseguo delle vicende. Nel senso, anche, dell’atto di narrazione stessa dell’autore, che non osa scardinare mai le sue persone: lo stile di Valentini fa un servizio disciplinato di racconto, senza mai scavare tra le corde tendinee dei loro cuori, e quasi affrettando i passi sugli spigoli appuntiti delle loro viscere, come tutto sia già stato e perfino risolto. La lingua tira dritto anche sulle cadute più rovinose, sulla violenza, sull’autodistruzione, sul sesso privo d’amore, sull’abbrutimento. Come a conservare intatte quelle vite che si sono già rotte. Questo atto stesso è il pregevole altro lato della medaglia, evidente in questa raccolta, della scrittura che cerca di appigliarsi a un senso che sembra continuamente sfuggire.

Ho tutto, e mi sembra di non avere niente.

Cosa farai ora?

Non lo so, risposi. Non lo so proprio. Mi sento come se fossi condannato a percorrere ogni giorno la stessa strada. (pg. 60)


Chantal Salvinelli

Redazione

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