La resa: Vargas, l’universo fantasy e il suo ribaltamento

La resa, Vargas, Zona 42, 2023

Questa storia comincia eoni prima dell’umano, prima che l’antropocene edificasse alveari di cemento sulle foreste, sulle acque e sugli ampi spazi. Questa storia ha inizio nell’ingorgo misterioso dei tempi, quando gli esseri umani non erano, lì, dove l’Eroe e la sua nemesi, il Necromante, si scontravano in battaglie maestose fino all’annullamento di uno dei due combattenti, degli eserciti e delle schiere dei morti comandate dall’immensità nera del male.

Il romanzo appartiene all’universo fantasy, ma esula anche dal genere (giocando e mescolando cliché e forme letterarie); la trama si srotola come un grande viaggio attraverso le epoche, seguendo sia le vicende umane sia le imprese dell’Eroe e del Necromante che di questa storia sono parte e genesi. Così, le nostre leggende, i nostri Dei, la storia del pianeta e degli uomini vengono alterati, o meglio, nella finzione narrativa, smascherati, mostrati secondo ottiche inventate, alternative a quelle che conosciamo, risultato della manipolazione e dell’intervento dei protagonisti nel dispiegarsi degli eventi, ognuno intento al suo ontologico aspirare. L’Eroe è un Gesù visionario nel deserto o un monaco illuminato in un solitario monastero. Il Necromante è a tratti ostacolo e spettatore, morte, scompiglio, attore del disfacimento, agente della distruzione che si attua in guerre grandiose descritte dall’autore con fantasia fervida e con una scrittura capace di rendere l’orrore e il sentimento, quasi sempre sardonica e ironicamente esistenzialista. Laddove serve. L’ironia in particolare percorre tutto il libro e rende la lettura leggera, perché diciamolo, questo è prima di tutto un libro divertente da leggere, con una trama che niente ha da invidiare alle sceneggiature d’oltremare incentrate sul genere e destinate a diventare blockbuster; possiede un intreccio mai scontato e denso di note di colore, di narrazioni che non ci si aspetta di trovare in una storia fantasy e che sorprendono esulando da qualsiasi stereotipo. Anzi, certi modelli vengono ribaltati completamente, gli eroi, pur con le loro incommensurabili capacità, sono anche infinitamente umani, vittime delle loro stesse grandezze, immersi dentro capricciose caparbietà; Inoltre, sono annoiati, schiacciati dal peso ripetitivo e perenne dell’infinito e dell’immortale fluire del tempo. Sono caustici e stanchi, soffrono lo spleen, sono rivoluzionari e attivisti, sono depressi, stufi di combattersi attraverso il tempo e lo spazio. Da qui il titolo: La resa.

Quando il romanzo ha inizio la resa è già avvenuta. L’Eroe, che ha la facoltà di morire per poi rinascere altrove in altri panni e luoghi, dotato di infinite vite meglio di un videogioco, ha le sembianze di una bambina e il Necromante si chiama Neri ed è un dinoccolato e sinistro guardiano di un cimitero di provincia. Temporalmente, infatti, il libro si muove su due fili narrativi: uno nel presente, con la storia radicata in una realtà quotidiana molto attuale, dapprima ambientata nel paesino terremotato di Montebasso (dove accade di tutto, tra cui una guerra civile in piena regola tra autoctoni e immigrati), poi a New York (qui altre ingiustizie vengono rivelate  e combattute e sono approfonditi temi sociali importanti come il razzismo e la corruzione); l’altro, attraverso i flashback, ripercorre un passato  dall’inizio dei tempi dentro cui si dipanano le storie fantastiche, fantasiose e sui generis dei due protagonisti, nemici poi amici in seguito alla decisione di deporre le armi, di iniziare la resa, la pace. Ma per stanchezza, per l’impossibilità di modificare gli esiti delle lotte immanenti sui perpetui terreni di guerra.

Non solo il plot è costruito in modo particolare, anche i personaggi, come accennato, lo sono e sfuggono dall’essere topoi, maschere incastrate nelle sfere finite del male e del bene; sono all’opposto mobili, orfani del classico conflitto tra tenebre e luce che solo apparentemente è la cifra del romanzo, perché dietro si cela in realtà molto altro, già dai protagonisti: potrebbero essere solo immensi, potenti e immortali, invece si rivelano anche, loro malgrado, sconfitti persecutori di errori, coltivatori di tristezze, sono a volte goffi, fallaci, vittime di difetti caratteriali che li contraddistinguono e li rendono veri. Spesso, non solo sono fallibili, ma i loro intenti ottengono il fine contrario rispetto a quanto si erano proposti. Soprattutto l’Eroe si muove avanti e indietro nell’arco dell’intreccio cercando di dar adito alla propria generosità, agendo per il bene e ottenendo ironicamente sempre l’opposto. Così, è da lui che scaturiscono molte delle tragedie umane: persecuzioni religiose, guerre, ammazzamenti di innocenti per punire un solo mediocre cattivo. L’Eroe sembra impreparato alla vita, è un idealista, anzi, un supereroe idealista, visto che nella parte ambientata a New York assumerà tale ruolo con tanto di maschera e superpoteri. Però, nonostante le buone intenzioni e le incredibili facoltà, la sua rivoluzione è sempre tradita, sempre inadatta, le sue azioni spropositate. Al contrario, il Necromante appare più maturo, rassegnato. Ha perso le sue velleità corrosive ed è diventato più saggio, un consigliere annoiato, ha lasciato altrove il suo trono composto di morti la cui descrizione obbrobriosa Vargas ce la mostra così:

Il Necromante sedeva su un trono di ossa, ricavato da una piccola comunità di pastori. Ogni volta che appoggiava il peso degli arti puntuti sui braccioli, l’aria veniva scossa da melodiosi gemiti di dolore.

Il suo ultimo passatempo consisteva nel raggiungere modesti centri abitati nei vuoti pneumatici tra regni neonati, per mettere a ferro e fuoco. Ne raccoglieva la popolazione in uno spazio aperto, sceglieva l’individuo più anziano e lo costringeva ad assistere mentre scempiava i corpi di amici e parenti per erigere monumenti al proprio passaggio. Di solito erano troni, o piccoli edifici, dipendeva dalla disponibilità delle materie prime. A uno schiocco di dita, tutti i cadaveri, intrecciati in complessi grovigli di carni mutilate, riprendevano vita, gridando straziati in preda a un’agonia senza precedenti.

Le sinfonie erano spesso arricchite da sibili e schiocchi deliziati della corte, una nutrita risma di creature che sembravano gemmare spontaneamente dal potere del Necromante. La corte era un’estensione del suo volere e una proiezione dei suoi bisogni. Viscidi rettili zampettantisi si infiltravano negli anfratti a lui inaccessibili; possenti demoni antropomorfi massacravano il grosso delle vittime prima che potesse dedicarsi alla sua arte; orrori amorfi d’aculei, occhi e lingue si dilettavano a ricercare nuovi ingegnosi modi per infliggere dolore.

Il vero cattivo della storia sembra essere Bestemmia – il mio preferito per tratti inventivi e costruzione orrorifica–, personaggio terribile, mostruoso e brutale ma privo di ogni grandiosità. Nato dal Necromante, aspirante figlio, in continuo rapporto dialettico e deferente con la figura del padre. Ecco Bestemmia il giorno della sua incredibile nascita:

Ai suoi piedi attendeva un ometto deforme alto scarso un metro e dieci. Le sue proporzioni sembravano non rispondere a nessun criterio, anzi, parevano distribuite per rendere ogni movimento il più complicato e doloroso possibile. Le gambe asimmetriche spuntavano fuori da un torso verdiccio e bulboso. Tra le spalle pendolava una testa simile a un ripugnante scroto dentuto su cui scintillavano occhietti cremisi dall’aria ottusa. Due alucce tarlate e inutili gli sbattevano pigramente sulla schiena gibbosa.

– Padre, non ho nome, – gracchiò l’abortino.

– Il Necromante lo fissò allibito

– Mi fa male vivere, – continuò.

La nozione del dolore riscosse il signore dei morti: – Me ne compiaccio, – rispose a ciò che realizzò essere la sua creatura, la non-vita forgiata dal nulla. Risultava difficile anche solo sostenerne lo sguardo. Le due file di denti, disallineate sul cranio sgraziato, gli laceravano in continuazione le labbra; il cuore batteva affaticato in una perpetua aritmia. Il Necromante percepì fitte costanti contrarre i muscoli disidratati del figlio mostruoso. Lo trovò splendido.

– Bestemmia, – gongolò, – il tuo nome sarà Bestemmia.

Bestemmia, nonostante incarni propositi di gratuito male assoluto, induce nel lettore anche un alternato sentimento di pietà, perché è debole, misero, fragile, artefice di sofferenze e tormenti senza nessuna aspirazione se non quella di essere accettato dal padre, non detiene innati progetti ancestrali ma architetta mali grandiosi e monumentali macabre battaglie solo per compiacere il Necromante.

Infine, la peculiarità forte del romanzo e il suo valore più ampio, a mio avviso, si esplicitano nell’essere questo anche un libro di denuncia. La resa è un libro politico perché contiene messaggi e volontà di rappresentare, tramite una storia, il buio che onnubila l’animo umano, le ingiustizie sociali, l’attualità vergognosa. Immergendo gli eroi e i comuni mortali in battaglie e storie fantastiche si parla anche di immigrazione e soprusi, di razzismo, mal governo, paura del diverso, di gender e spesso in scena è posta la stupidità dell’umano o almeno di certa umanità.

È un libro estremamente denso di contenuti, un libro che non può essere analizzato solo come fantasy perché contiene in sé molte storie, politiche e umane, sistemate dentro una trama che è coinvolgente, scritta dosando coscientemente orrore e ironia, ma è anche una storia che, in quanto fantastica, sembra riflettere su sé stessa e da sé stessa innalzarsi per essere anche altro; azione e profondità di significato si intersecano e la lettura scorre veloce, rapita dalla magia del racconto, un libro che si ha tra le mani per poco, perché, nonostante la corposità, si arriva presto alla fine.


Silvia Penso

Silvia Penso

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