E fu così che il sole decise di saltar fuori dalle nuvole proprio nell’attimo in cui lui passava davanti a quella vetrina.
L’improvviso balenio lo schiaffeggiò bruscamente, abbacinandolo e costringendolo a bloccarsi nel bel mezzo del marciapiede. Scrollò la testa, frastornato, quindi fece un passo avanti per evitare un ulteriore accecamento e si mise alla ricerca dell’oggetto che aveva provocato quel fastidioso riflesso. Era sempre stato curioso di natura. Scandagliò la zona con sguardo inquisitore mentre la vista, con lentezza, tornava quella di sempre.
All’interno di un locale disadorno che due operai erano intenti a risistemare, se ne stava a terra, con un lato appoggiato alla parete, un semplice quadretto. Aveva trovato il colpevole. Il quadretto in sé non era nulla di che, era una di quelle cornici a giorno che si possono acquistare in un qualsiasi supermercato mediamente fornito. Anche la fotografia che custodiva, a una prima occhiata, non pareva essere niente di sconvolgente, eppure dopo averla guardata non riusciva più a toglierle gli occhi di dosso. Era l’immagine di un sentiero che attraversava un bosco. Sembrava al contempo familiare e misteriosa e forse era proprio questa sua insolita qualità ad attirarlo.
Quasi prima di potersene accorgere si ritrovò dentro al negozio «La fotografia…» iniziò timidamente, rendendosi immediatamente conto di aver agito sotto un imprecisato impulso del momento e di non sapere esattamente cosa dire o, perfino, dove volesse andare a parare.
Venne fuori che i due uomini non avevano molte più informazioni di quante ne avesse lui, loro lì ci lavoravano soltanto. Quel posto tempo prima era stato uno studio dentistico, poi era diventato il laboratorio di un tatuatore e ora, dopo essere rimasto un paio di anni sfitto, si sarebbe trasformato in una boutique di abbigliamento intimo.
«Lo vuole? Tanto a noi hanno detto di buttar via tutto» gli disse il tizio più basso, quello con la salopette beige piena di schizzi di vernice, mentre indicava eloquentemente un grosso sacco nero dell’immondizia che qualcuno aveva abbandonato in un angolo.
E fu così che il quadro con la foto del sentiero nel bosco divenne parte integrante dell’arredamento della sua camera da letto.
La fotografia era la prima cosa che vedeva quando si svegliava e l’ultima prima di addormentarsi e per un po’ di tempo questa circostanza gli bastò. Poi sentì il bisogno di saperne di più. Prese a scrutare l’immagine da vicino, il naso a pochi centimetri dal vetro della cornice, sperando di imbattersi in un qualche indizio significativo. L’indagine si rivelò subito fruttuosa: in basso a sinistra, fra le ombre, si leggeva in caratteri minuti «© Il Rivoletto».
Andò subito al notebook e digitò quel nome sul motore di ricerca.
«Forse cercavi: il Rigoletto» lo sbeffeggiò una sussiegosa scritta rossa e blu.
Dopo uno sbuffo seccato aggiunse «fotografia» a quanto già inserito. L’unico risultato pertinente rimandava a uno strambo blog chiamato “La voce del chiurlo – Il giornale dello slow walking”. Nell’editoriale del Luglio 2014 intitolato “Andamento lento” si ringraziava per i contributi fotografici «Il Rivoletto, al secolo Armando Chisone».
Felice di aver scovato una pista cercò «Armando Chisone» ma non approdò a nulla di concreto, era un vicolo cieco.
Provò, allora, a capire che tipo di alberi fossero quelli che si vedevano nella foto. Navigò per ore sfogliando virtualmente pagine su pagine, saltabeccando da un sito all’altro finché non giunse alla conclusione che si trattasse in massima parte di carpini neri e ornielli. Da ciò poté dedurre di trovarsi di fronte a un bosco di un ambiente sub-montano mediterraneo, qualunque cosa significasse.
Tentò, questa volta invano, di identificare anche il tipo di minerale che costituiva il masso dalla forma caratteristica che si stagliava sulla sinistra, ma quello, evidentemente, andava davvero oltre le sue capacità. E poi quelle ricerche non sembravano portare da nessuna parte. Il fatto che la foto, probabilmente, fosse stata scattata in Italia non lo aiutava certo a localizzare il punto esatto.
Il giorno seguente pensò di contattare il tipo del blog, l’indirizzo e-mail stava in calce alla home page.
«Egregio ecc. ecc.
Le scrivo per avere informazioni sul Signor Armando Chisone, detto anche “Il Rivoletto”,
da Lei citato ecc. ecc.».
La risposta non si fece attendere.
«Gentile Lettore,
per soddisfare al meglio la sua cortese richiesta, La invito a visitare la nostra Redazione ecc. ecc.».
La “Redazione” si trovava in un anonimo sottoscala in città. Gli venne ad aprire la porta del seminterrato una tardona ossigenata con in bocca una puzzolente sigaretta con più tracce di rossetto di quante ne conservassero le labbra che la trattenevano. All’interno, nella zona più buia del locale, una lampada da tavolo creava un vivido cono di luce che faceva spiccare dallo sfondo un gracile ometto occhialuto intento a smanettare su di un vecchio Mac.
Il “Redattore” si alzò, si aggiustò l’antidiluviano maglione in lana sintetica e gli strinse calorosamente la mano. Sembrava uno di quei tipi sempre affamati delle attenzioni altrui. «Suppongo Lei sia il Lettore interessato alla figura del Rivoletto» non attese conferma e non lasciò neppure andare la mano che, anzi, sfruttò per attirarlo più vicino a sé, passando, contemporaneamente, a un tono di voce più grave, quasi complice «Guardi, io glielo devo dire, non è che ne sappia molto neanche io, ma scartabellando qua e là è venuto fuori il suo ultimo indirizzo, sa com’è, gli avevo promesso di fargli avere una copia cartacea del giornale e…» si fermò per cogliere un post-it dal monitor del computer «sì, insomma, mi promette di non usarlo per nulla di male, siii?» domandò sventolandoglielo davanti al naso.
E fu così che scoprì che Armando Chisone abitava in un ospizio a una cinquantina di chilometri da lì.
Comprò una scatola di biscotti danesi. All’inizio aveva pensato di prendergli dei cioccolatini, ma poi, temendo non li potesse mangiare per via di una qualche patologia, aveva optato per della più modesta pasticceria secca. Gli pareva brutto presentarsi a mani vuote. Fu solo varcando la soglia d’ingresso della casa di riposo che gli venne in mente che anche dei biscotti secchi potevano rappresentare un problema -difficoltà di masticazione per via della dentiera, tanto per fare un esempio-, ma ormai non poteva più farci niente, era decisamente troppo tardi per i ripensamenti.
Il Signor Armando era ancora ben presente e straordinariamente affabile e ciarliero, anche se, ogni tanto, la sua memoria faceva cilecca. Sfortunatamente, questo era proprio uno di quei casi. Non si ricordava dove avesse scattato quella particolare fotografia, ma dopo un po’, grazie all’educata insistenza di un certo numero di domande mirate, riuscì a rammentare l’ambito in cui aveva preso forma. Faceva parte di una serie che aveva ideato per una sua Personale. Negativi e originali erano -ahimè!- andati perduti perché li aveva lasciati nella sua vecchia casa ed era più che sicuro che i suoi figli li avessero bruciati ormai da anni. Però -e ciò sapeva davvero di miracolo- era in grado di indicargli i luoghi che aveva visitato per portare a termine il progetto.
Felice di poter essere utile, il vecchio fotografo si avvicinò ciabattando al bancone della reception e agguantò uno dei volantini di cartoncino arancio che c’erano lì sopra. Strattonò la cordicella che assicurava la penna alla scrivania in modo da rendere più agevole la scrittura, quindi, dopo averci pensato un po’ su con lo sguardo rivolto verso il soffitto, iniziò a scribacchiare con piglio austero un elenco sul retro del depliant:
«-Monte Capanne, Isola d’Elba
-Montisola, Lago d’Iseo
-Parco di Monte Portofino
-Cammino di Dante nel Parco delle Foreste Casentinesi
-Bosco Caproni presso Arco
-Valle del Mis, a monte del lago omonimo ».
E fu così che iniziò ad andar per sentieri.
Per principio, non seguì l’ordine in cui quelle località erano state annotate convinto che quando uno cerca qualcosa la trova sempre nell’ultimo posto in cui guarda. Difatti, nonostante i suoi goffi tentativi di metter nel sacco la Fortuna -o, forse, proprio a causa di quelli-, finì per succedere davvero così, rintracciò, cioè, il sentiero della foto solamente durante il suo ultimo viaggio.
Non appena lo riconobbe s’immobilizzò stupefatto, crogiolandosi in una piena ammirazione. I carpini, la grossa pietra… tutto coincideva. Calde pennellate di sole macchiettavano il sottobosco là dove i raggi riuscivano a penetrare attraverso la boscaglia. Fra le basse felci spuntava a tratti il bianco lucido dei fiori dell’aglio orsino, l’unica effettiva differenza dalla fotografia che, ormai da mesi, teneva appesa in camera. Era capitato lì in una stagione diversa, ma questo, certo, non inficiava la sua scoperta. Batté il piede a terra per tre volte, senza nessun motivo apparente, salvo, forse, quello di sincerarsi che il terreno che lo sorreggeva fosse reale e non se ne fosse, invece, finito all’interno della foto per una specie di allucinazione a occhi aperti.
Una cinciallegra cantava lontano e una leggera brezza, appena un soffio, faceva stormire le cime degli alberi come in una dolce ninna nanna.
Ma tutto questo non durò che un attimo.
Alle sue spalle, diverse centinaia di metri più indietro rispetto a dove si trovava, s’innalzò un vociare sgraziato. Fu così improvviso che lo fece sobbalzare. Allungò il collo verso quella direzione con una punta di malcelata irritazione e gli occhi ridotti a due fessure sdegnose. Nessuno era ancora visibile sul sentiero, oltre il fogliame, ma immaginò fosse una qualche scolaresca in gita. E fu così che capì che, tutto sommato, quella strada nel bosco non era niente di che.
In copertina, Fiume Po – River Po, Michael Kenna
Nadia Erre ama scrivere racconti brevi e di genere fantastico, nel senso più ampio del termine. Da quando è venuta al mondo, la Luna si è allontanata dalla Terra di quasi 160 cm. Non per colpa sua, se ve lo state chiedendo. Finora ha pubblicato su La Seppia, Spore Rivista, Madre Rivista Letteraria e, in spagnolo, su Revista Alborismos.