Ubah Cristina Ali Farah, Le stazioni della luna
66thand2nd, 2021

C’è stato un momento, nella nostra storia quale nazione europea, in cui anche l’Italia ha avuto la sua “gloriosa” parentesi colonialista. Ricordiamo infatti che siamo stati presenti in Eritrea prima, in Somalia dopo, in questa esperienza che molti condannano, soprattutto perché legata agli anni del seconda guerra mondiale e di conseguenza a quelli del fascismo.
Nel ventennio fascista, per l’appunto, il nostro paese in veste di colonizzatore si gonfia e si rafforza fin quando Mussolini cade e, con lui e la Germania, anche tutto l’Impero d’Africa Orientale. È proprio in questi anni che la storia del libro di oggi prende vita: parliamo di “Le stazioni della luna” di Ubah Cristina Ali Farah, edito da 66thand2nd.
Ubah Cristina nasce a Verona, cresce a Mogadiscio e, allo scoppio della guerra civile nel 1991, si trasferisce in Ungheria, poi a Roma, a Napoli e infine si stabilisce a Bruxelles. Chiaramente, già dalla doppia natura del suo nome, riusciamo a intuire che la sua sia una storia in parte autobiografica.
Il romanzo infatti corre su due binari paralleli: quello di Ebla, ambientato a Mogadiscio circa negli anni ’30 del secolo scorso, e quello di Clara che fiorisce poco più tardi, durante l’AFIS, l’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia, delegata all’Italia dalle Nazioni Unite e durata dieci anni, dal 1950 al 1960. Durante questo periodo lo scopo della nostra presenza in Somalia veniva giustificata quale supporto e aiuto allo sviluppo economico, culturale e sociale della colonia, con il fine ultimo di giungere alla sua indipendenza. La storia ci insegna che le cose non siano andate propriamente in questo modo e il libro di Ubah, a modo suo, lo illustra.
Si potrebbe essere tentati dal pensare che, essendo stata coinvolta in prima persona in queste vicende, l’autrice parli con risentimento o toni di accusa, ma la forza del libro sta proprio in questo particolare: lo stile è dolce, carezzevole, e tutto viene descritto con un’oggettività fuori dal comune.
Abbiamo da una parte Ebla, coraggiosa donna somala che si rifiuta di sottostare alle regole patriarcali della tradizione e fugge, rifiutando un matrimonio combinato, dall’altra Clara, sua figlia di latte, italiana ma nata a Mogadiscio, costretta al rimpatrio proprio dopo la sconfitta dell’Italia alla fine della guerra. Due donne che si separano dunque, ma destinate a ritrovarsi anni dopo.
Le parole ci descrivono una Clara donna ormai, tornata in Somalia in veste di maestra elementare, parte integrante di quel programma di “sviluppo” concertato dalle Nazioni Unite. Ben presto entrambe si renderanno conto che la presenza degli italiani nel paese tutto porta tranne che aiuti e progresso.
Molto bella è la descrizione dalla parte dell’autrice di Mogadiscio: i suoi colori, i piatti tipici, gli odori, le tradizioni, le parole pronunciate in lingua contribuiscono a lasciar immaginare vividamente un luogo lontano, ma al tempo stesso che dovrebbe essere più chiaro nelle nostre menti. Affascinante constatare poi come Ebla e Clara abbiano dei caratteri completamente opposti, eppure cerchino le stesse cose: la libertà e la giustizia. La trama procede talmente bene, talmente liscia, che il romanzo è presto che finito e il dubbio rimane vivo: la storia è autoconclusiva? Perché l’autrice ci porta mano per mano tra le strade di Mogadiscio, nei club, negli hotel degli italiani arricchiti in Somalia alle spalle dei coloni, nelle case della sua gente, eppure alla fine pare mancare una vera chiusura, tanto che l’impressione che si ha è quella di aver letto solo una prima parte della storia. Rimangono irrisolte alcune domande e spero vivamente che l’autrice ci regali un seguito.
Ciò che di grande ha questo libro è il suo potere evocativo: quanti di noi davvero conoscono la storia dell’Italia in veste colonizzatrice? Quanti sanno ciò che è accaduto, ciò che è stata la nostra presenza in Somalia, cosa siano le “navi bianche”, e cosa voglia dire fare del razzismo in terra straniera? Una terra che non ci è mai appartenuta e che nessuno aveva diritto di occupare.
Leggere “Le stazioni della luna” chiarisce alcune di queste domande e ne lascia aperte altre, col chiaro intento di scatenare un dibattito e di indurre a fermarsi e a pensare a quello che è stato, che nonostante sia “passato” è ancora terribilmente attuale.
“Mia figlia è tornata e camminiamo in strada aperta, la vita è sempre meravigliosa nella luce assolata del giorno, andremo dagli uomini della Lega e non ci daremo per vinte, nessuno può piegarmi la testa, nessuno può spezzarmi le ossa, nessuno può mettermi il cappio, nessuno può toccare le persone che amo. Io sono Ebla”.
“Le stazioni della luna”, Ubah Cristina Ali Farah