Barbara Bernardini, Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica
nottetempo, 2023

In questi giorni ho letto per la seconda volta il libro di Barbara Bernardini, Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica, recentemente pubblicato da nottetempo.
L’ho letto due volte perché la rilettura è il tempo della riflessione, dei collegamenti ad altre letture, degli appunti scritti sul margine. Concede peraltro la libertà di andare avanti e tornare indietro, prescindendo dall’ordine in cui il testo è stato scritto, procedendo con l’unica voglia di farsi cambiare da ciò che si legge, di metabolizzarne lentamente ogni pagina, ogni parola. Così, questo testo è diventato, oltre che il mio manuale di resistenza ecologica, anche un esorcismo alla rapidità vertiginosa del tempo e del lavoro finalizzati a produttività e performance.
A questo libro voglio bene per molti motivi, primo fra tutti i temi trattati; e non solo perché sono biologa, ma perché credo che parlare di orti, ambiente, biodiversità e buone pratiche sia urgente e di interesse assolutamente collettivo.
C’è anche il fatto che Barbara Bernardini scrive benissimo e che ogni concetto affrontato nel suo libro risulta chiaro e invoglia all’approfondimento.
Ma voglio bene a questo libro anche per altre ragioni. Di seguito proverò a parlarvene meglio che posso.
“Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica” è organizzato in dodici capitoli, uno per ogni mese dell’anno. Ogni capitolo è suddiviso in tre parti: il Diario dell’orto, l’Almanacco degli anni a venire e gli Innesti.
Il Diario dell’orto è il racconto, mese per mese, delle varie lavorazioni che si susseguono in campagna, “un ciclo privo di confini netti” che l’autrice descrive in tutte le sue sfumature, dalle conquiste ai fallimenti, dai rammarichi alle certezze acquisite. Come ogni diario, quindi, anche questo contiene la narrazione di ciò che accade e di ciò che l’autrice prova nel tempo e nel luogo in cui scrive: confessioni, dubbi, pensieri laterali. Ma tornano spesso anche i riferimenti all’infanzia, i saperi antichi, i detti contadini, i calendari di Barbanera. Il diario esprime la voglia di recuperare le proprie radici, quella di mettersi in salvo in un “posto solitario, silenzioso, dove addormentarmi” e dove essere e fare qualcosa di buono e utile. Contiene anche la coscienza delle cose imperfette e insolute: il recinto sgangherato, il dubbio e la speranza, il possibile ruolo di un piccolo tratto di terra coltivata di fronte a cose grandi come l’impoverimento del suolo, la devastazione degli incendi e il dramma dei cambiamenti climatici.
È il racconto degli equilibri naturali, delle catene alimentari e della resistenza che l’orticoltura oppone ai danni delle pratiche agricole intensive.
Nel piccolo orto di Barbara Bernardini le fasi dinamiche di semina, cura e raccolta si avvicendano alle dormienze, ai periodi di nessuno, quei momenti in cui osservare e attendere sono le uniche cose da fare; come accade in ogni vita, compresa quella umana. C’è questo continuo rispecchiamento dell’autrice negli accadimenti della terra e della natura. La finitezza, l’istinto di conservazione, il bisogno di riposo e di silenzio sono faccende raccontate procedendo dall’interno, dal sé, verso l’ambiente e poi a ritroso di nuovo in direzione introspettiva. Nell’orto, del resto, s’impara ad apprezzare l’inizio di un processo vitale, a prendersi cura di cose viventi, a fare i conti con diversità, imprevisto, malattia e morte. È lavorando un orto che s’imparano le vite piccole che lo popolano e lo muovono, come i lombrichi che rimescolano e ossigenano il suolo o gli insetti impollinatori che perpetuano e amplificano la biodiversità. Con le mani nella terra si può capire la fatica della produzione alimentare, le difficoltà dell’autosufficienza e averne rispetto. In un piccolo orto le conoscenze teoriche incontrano le evidenze concrete; ne nasce una preziosa consapevolezza: ognuno di noi è parte integrante di un ecosistema che non è un tesoro da trafugare, ma una casa da abitare e di cui avere cura.
Nell’Almanacco degli anni a venire, “calendario dei lavori prossimi e dei sogni lontani, dei progetti concreti e dei vaghissimi buoni propositi”, Bernardini traccia una linea del lavoro nel tempo e nello spazio: programma gli interventi necessari all’orto, ne spiega la necessità, mette sé stessa e chi legge davanti alla possibilità della riuscita come del fallimento.
L’Almanacco di ogni mese è anche una raccolta di osservazioni e notizie botaniche, storiche, ecologiche. Sono pagine in cui troviamo note interessanti sulla coltivazione delle solanacee, sulle consociazioni tra ortaggi che traggono beneficio dalla reciproca prossimità; e ancora, sono paragrafi che sollecitano la riflessione sulle strategie di risparmio idrico e la difesa dai parassiti senza l’uso di sostanze inquinanti. Si trovano consigli sulla lavorazione di alcuni ortaggi per le conserve o per recuperarne i semi da utilizzare in un ciclo successivo, notizie e indicazioni sul riciclo, sulla pacciamatura naturale, su “le buche del campo dei miracoli” in cui interrare i resti della cucina e aspettare che nasca qualcosa. E insieme a tutte queste cose da fare, si legge anche di agricoltura del non fare, quale
“promessa di sollevazione dalla fatica, non tramite scorciatoie della chimica o della meccanica, ma attraverso un’osservazione attenta e il rispetto delle relazioni vive nel terreno”.
Anche la sezione Innesti, per il tono intimo, somiglia a un diario, ma si muove verso “le cose del mondo”. Sono pagine che chiamano alla bio e all’ecoresistenza partendo dalle cose più piccole, come fare una buona zuppa di cavolo senza sprechi o tenere lontane le lumache senza usare prodotti chimici. Leggendo gli Innesti ritornano i concetti di rispecchiamento e interdipendenza; tornano e si sviluppano nell’idea che, come gli altri abitanti dell’orto e del mondo, anche noi umani rispondiamo a stimoli esterni adattandoci, a volte soffrendo, ma trovando sempre una strategia per resistere. È necessario, come suggerisce Bernardini, effettuare un riposizionamento, pensarci come uno dei nodi di un’enorme rete che va dai batteri intestinali ai detriti dello spazio. Riposizionarci, adattarci, far parte di.
“Con il caldo poi alla goffaggine si aggiunge il senso di minaccia del sole bruciante: oltre ad afflosciarsi sotto la spinta della forza di gravità, il mio corpo si accartoccia anche, con la stessa sofferenza che intuisco nelle foglie delle zucchine quest’estate”
Emerge da queste pagine l’importanza di operare un cambiamento virtuoso cominciando da sé, senza soccombere alla frenesia del fare. Bernardini delinea, senza arroganza né pretensiosità, i principi di un’educazione al vivere sereno e solidale, che significa coltivare non solo cibo buono e sano, ma anche sogni, cultura e bellezza. Fare un orto rappresenta in fondo un modo di essere, vedere e vivere; non una lista di protocolli agricoli né di ricette infallibili, ma al contrario un insieme di scelte che dai solchi di una piccola striscia di terra spalanchino il pensiero e il sentimento verso il mondo, amplifichino e diffondano l’idea di rispetto, sostenibilità e condivisione. Del resto coltura e cultura hanno la stessa origine etimologica (dal latino cultus, participio passato di colere, attendere con cura, avere cura) che genera a sua volta dalla radice kwel, cioè camminare in cerchio, ruotare, muoversi intorno.
“Quello che vorrei imparare dall’orto è questo: conoscere le storie che si ripetono sempre uguali e di cui puoi intravedere il finale già dall’incipit, dal seme messo a terra”
Il nostro pianeta è regolato da cicli che ne modulano il fabbisogno energetico attraverso il processo neghentropico per eccellenza, la fotosintesi, che cattura l’energia del sole, ne fa materia chimica per le catene alimentari e regola la temperatura terrestre attraverso l’effetto serra. In natura il concetto di rifiuto non esiste: i cicli naturali scambiano materia riciclando il superfluo senza creare avanzi, in quanto ciò che è scarto per una specie è risorsa per un’altra. E nel libro di Bernardini si respirano questa consapevolezza e questa prospettiva: osservare, rispettare, sollecitare i cicli naturali del suolo, delle piante e degli animali che popolano l’orto. Il quale, poi, è anche il luogo in cui si può comprendere l’origine di cose che spesso diamo per scontate. Se studiamo l’origine delle piante, se ne disegniamo la mappa, scopriremo quanto abbiano viaggiato dal loro habitat naturale fino a noi: in ognuno dei loro viaggi “le piante hanno modificato le terre in cui sono arrivate, cambiando il paesaggio che poi diventa orizzonte nuovamente familiare. Influenzando le abitudini degli animali, umani e non, con cui vivono e rendendo usanza e radice culturale qualcosa che prima non c’era”. Vegetali ed esseri umani sono sempre stati compagni di viaggi, migrazioni e adattamenti. Studiare la storia degli uni significa comprendere quella degli altri, inclusi limiti e adattamenti.
“La vita è transito, è movimento verso un altro stato, per quanti muri vogliamo alzare al confine,
prima o poi tocca a chiunque attraversarlo”
Ciò che Barbara Bernardini ci consegna in questo libro non è solo l’idea di come ognuno di noi partecipi ai processi viventi del mondo, ma la chiara sensazione e l’auspicio di come si possa entrare in una relazione profondamente significativa e creativa con l’ambiente che ci circonda, traendone risposte e benessere personale e collettivo.
Giusi D’Urso