Mattia Grigolo, Temevo dicessi l’amore
TerraRossa, 2023

Ed ecco che a distanza di circa un anno Mattia Grigolo ci regala un’altra piccola perla: Temevo dicessi l’amore, questa volta per Terrarossa edizioni di Giovanni Turi. Del libro precedente, che anche ho molto amato, La raggia, questo mantiene lo sperimentalismo – ricercato sotto più punti di vista –, un uso paratattico del linguaggio, una struttura ondivaga, ché l’autore non ama i libri lineari, la piattezza di uno spazio-tempo che incontri il favore della linea retta. A lui, e io muoio di gioia, piace indagare il mondo attraverso macchine del tempo letterario, si muove avanti e indietro come un esploratore di mondi alternativi. Sebbene poi, Temevo dicessi l’amore, sia non un romanzo ma una raccolta di racconti. E anche sotto questo profilo Grigolo ci presenta un collage articolato di storie che si rimandano l’un l’altra, richiamate da simboli che corredano le diverse narrazioni. Si tratta infatti di quattordici racconti e di cinque fili narrativi. Al centro di queste trame uno dei personaggi indossa sempre il nome di Ofelia, bambina, ragazza, donna, mostrata di volta in volta in diverse età e momenti della vita.
Il linguaggio è scarno, essenziale, e, come direbbe Hemingway, dell’iceberg vediamo solo la punta. Ogni superfluo, ogni barocchismo è annullato. Non vi sono orpelli a declinare il narrato. Anche i dialoghi, impreziositi da questa asciuttezza, si accostano al reale proprio per il loro essere nudi, spesso lapidari, portatori di un pensiero non detto che resta imbrigliato tra le tempie di chi, di volta in volta, si muove sulla scena e che il testo non rivela. Dietro il libro mostrato se ne nasconde quindi un secondo, è il luogo interiore dei personaggi, ciò che essi non possono o non riescono a dire ma che pure il lettore indovina attraverso le pause, le azioni, le atmosfere rappresentate, le espressioni mimiche che suggeriscono attraverso il visibile l’invisibile altro che il personaggio cela, tiene per sé; sono spesso le emozioni di cui si vergogna ma che permangono lì, nelle pieghe dei pensieri a galleggiare. Sono perfino le sospensioni espositive, talvolta, a parlarci, e il ritmo dato dalla concatenazione delle parole, una cadenza che fa pensare alla nebbia, alla rarefazione dell’aria, a una lentezza robotica. Mattia con la scrittura ridotta all’osso riesce a dire moltissimo, il senso della scena è nascosto dietro parole che ne contengono altre, evocano suggestioni, raddoppiano il significato. Così, dicendo il minimo, l’autore sopraddice giocando con il tempo di battuta, con l’assottigliamento del verbale.
Eppure, nonostante lo stile sia essenziale non è mai asettico, anzi, seguendo e scrutando i personaggi fin nei più piccoli gesti, il testo li esplora, ne svela uno stato d’animo che è donato al lettore tramite l’intuizione, senza scriverne. A sua volta lo stile minimale canta un ritmo, dà vita a un tono che rende dilatato il clima, l’ambiente psicologico entro cui si muovono gli esseri umani. I quali sembrano talvolta camminare onirici nella propria vita, incapaci di azione, inabili a esternare emozioni e sentimenti, a depositare amore e parole là dove vorrebbero, incapaci di farsi capire.
Sembrano colpiti da un’afasia che li lega, non gli permette di essere e librarsi, di uscire dai binari di un’esistenza stretta ma che allo stesso tempo accettano passivamente. Come nel primo racconto che dà il nome alla raccolta, Temevo dicessi l’amore, in cui Chiara non riesce mai a confessare a Ofelia il suo amore, ma più volte, ossessivamente «immagina una vita insieme a Ofelia e più ci pensa e più si chiede cosa immagina Ofelia. Impossibile saperlo». «Chiara immagina di avere figli con Ofelia», «Chiara immagina di fare sesso con Ofelia, però non sa se ha ben chiaro cosa significhi fare sesso con una donna». «Chiara immagina come dire a Ofelia che è innamorata di lei senza che lei la prenda per una figura retorica: in un parco verde brillante di speranza, al mare appoggiando sull’orizzonte le parole, al buio per non vedere la sua espressione». O ancora, nel delicatissimo racconto intitolato Inseparabili in cui i difficili rapporti familiari sono mostrati attraverso l’immagine, attraverso movimenti filmici che rivelano la meccanicità di un quotidiano dietro cui s’annidano la complessità delle relazioni, l’incapacità di superare barriere e per cui gli agenti, pur occupando lo spazio della stessa stanza, sembrano essere soli, emarginati, ognuno chiuso nel proprio essere morale, distante, sprofondato suo malgrado in solitudini abissali e inenarrabili, nel bisogno d’amore, d’affetto, di una comprensione totale impossibile da raggiungere nonché da pronunciare, da richiedere. Se ne evince un senso di estraneità che coinvolge figure che dovrebbero essere vicine, ma che al contrario risultano metaforicamente le più lontane, impenetrabili, inconoscibili nella loro vera essenza. Avvertiamo sulla pagina il tempo di prolungati silenzi parlanti, forma immateriale e paradigma dell’incomunicabilità che avvolge spesso i personaggi. Lo spazio della casa, le stanze, la gabbia dei canarini, gli inseparabili, appunto, diventano tropo della claustrofobia e denuncia di dinamiche legate agli ambiti della famiglia, alle difficoltà relazionali e di scambio della società intera, a partire proprio dalle mura domestiche. Così, nel racconto Inseparabili:
«Come sta tua sorella?»
Mio padre sta spiumando un pollo.
«Il solito.»
«Il solito cosa?»
«Fa le stesse cose che ha sempre fatto.»
Ora il pollo è nudo.
«Perché continuate a convivere se non sopporti il suo modo di essere?»
«Perché siamo come due pappagallini inseparabili, ma io sono quella che morirebbe di solitudine, lei non credo.»
E così a casa della madre:
Vado a casa di mamma. Sta togliendo la terra da un vaso. L’accumula in un piatto di ceramica.
«Stai riesumando qualcosa?» Le chiedo.
«Come dici?»
«Che fai?»
«Ho perso una cosa.»
Si rimette a scavare. Le unghie sono diventate nere.
«Dentro il vaso?»
«Sì. Come va con tua sorella?» Chiede.
«Sai che i pappagallini inseparabili non sono davvero inseparabili?»
«Davvero? Meno male.»
Sbuffa, dal piatto ripassa la terra al vaso.
«Non l’hai trovato?»
«Cosa?»
«Quello che cercavi.»
«No.»
«La pianta dov’è?»
«Tuo padre come sta?»
«Solito, cucina un sacco di roba buona e la mangia da solo»
«Andate a trovarlo?»
«Sì qualche volta.»
Mamma sistema sul davanzale il vaso con la terra ma senza la pianta, poi si sposta al lavello e si sciacqua le mani. Infila le unghie sotto il rubinetto per togliere lo sporco.
«Perché hai detto meno male?» Le chiedo.
«Cosa?»
«Prima, quando ti ho detto che i pappagallini inseparabili non sono veramente inseparabili, hai risposto “meno male”. Perché?»
«Perché ogni essere vivente è destinato alla separazione.»
Anche l’amore è narrato senza retorica e non è mai banale, piuttosto pare venato da un dolore, e senza quasi mai essere nominato è presente come tentativo che il più delle volte fallisce, per l’incapacità di mostrarsi e comunicare, per l’insicurezza, perché i personaggi non ci credono davvero o non pensano di meritarselo.
Le trame dei vari racconti sono molto diverse tra loro ma tutte sono permeate di non detti e le Ofelie e le Chiare e i mariti e le mogli si muovono dentro un’atmosfera di intenzioni tradite, di parole taciute e sospirate, di frustrazioni mantenute negli scrigni del corpo, bloccati tra un dentro e un fuori che non riescono ad armonizzare. La scrittura indaga per loro quello che non si riesce a comprendere di questo universo sociale, dei difficili rapporti tra le persone e tra le persone e il mondo. Ogni racconto sembra parlarci dell’impossibilità di consegnare all’altro noi stessi, la nostra meravigliosa, fragile, verità. La stessa Ofelia – a parte l’ultimo racconto intitolato C’è una casa in questo parcheggio, in cui parla in prima persona e di cui abbiamo il punto di vista – è sempre oggetto guardata da altri. L’ho cercata per tutto il libro non trovandola, frugandone l’immagine a tratti deformata dalla visione altrui, della madre, della sorella, degli amici. Ofelia è un puzzle da ricostruire, un quadro di Picasso da interpretare collegandone le parti. Chi è Ofelia, o meglio, chi sono queste Ofelia, che sono ogni donna e ogni uomo? Dietro l’omissione delle parole vive un mondo sotteso di significati che sfuggono per poi tornare e ritratti di una società umana complicata e dura in cui gli esseri fanno fatica a sopravvivere. Come nel racconto Regent’s Canal, il mio preferito, in cui la durezza della vita è addolcita solo a tratti dall’amore che unisce i due protagonisti.
A Londra dormivamo in un houseboat sul Regent’s Canal. Per scaldarla dovevamo accendere una piccola stufa al mattino, prima di uscire, sperando che la barca non prendesse fuoco. Andavo in giro con un parka trovato a terra e Ofelia diceva: «È bello, anche se macchiato di sangue». Stavamo fuori tutto il giorno, mangiavamo fish and chips, io reggevo il cartoccio come una fiaccola, lei come un calice. Di notte ci addormentavamo sui divani del Fabric o del Koko. Finché Ofelia diceva: «Adesso torniamo, la barca sarà calda a quest’ora».
È un racconto bellissimo, forte, dolente, dove niente dell’amarezza del finale viene svelato, spiegato, ché il lettore rintracci da sé i fatti accaduti e non menzionati; resta un nucleo potentissimo ricamato da uno strazio, da un urlo senza voce, senza senso, senza parole, nell’ultima scena resta un luogo in cui i tre personaggi si muovono uniti nell’oggetto del parka, uniti da una storia che solo uno di loro conosce e che non sarà raccontata.
Ed è questo che fa a volte la letteratura omettendo: ci fa comprendere l’altrove, qualcosa che è accaduto fuori scena. In questa rimane solo il senso, il sentimento profondo, annidato nel corpo di quell’accaduto.
Silvia Penso