Mancinismo: digressioni sulla differenza

A Sara Coppola

Con un piccolo furto ai danni di Aristotele, iniziamo con uno slogan: la differenza si dice in tanti modi. La differenza è nei dettagli, nelle sfocature, nelle cose già dette. Ecco perché, senza alcuna pretesa, ci troviamo a riflettere sul mancinismo, su una normalità che da piccoli ci stupiva. Cogliere la differenza significa meravigliarsi e frammentare l’opacità del prevedibile che, di fatto, è solo una suggestione. Per comprendere quanto il mancinismo sia una pura sede della differenza, partiremo da lontano.

Cosa significa prendere posizione? Prendere posizione è senz’altro un atto di sicurezza nitida, una sicurezza riposta perlomeno nella necessità del movimento. Il problema è proprio il movimento, la traslazione da una condizione a un’altra non necessariamente determinata. Si prende posizione quando si compie un’azione. Ogni azione, di fatto, è un movimento. E per scansare le eventuali critiche che muoverebbero – appunto – i più dogmatici linguisti, pronti a limitare il piano dell’azione alle categorie di produzione materiale (“fare”, “costruire”, “rompere” e così via…), suggeriamo di tenere a mente l’etimo della parola movimento (dal latino movere, XIII sec.), in stretto rapporto con l’emotività. Capirete come in questo modo ci sia l’opportunità di mettere in luce una caratteristica primaria della sicurezza: la causalità. Parliamo di causalità soprattutto per ammiccare a una categoria con la quale abbiamo iniziato questo nostro saggio: la prevedibilità. Prendiamo qualcosa iniziando l’atto del prendere con la già maturata consapevolezza di poter prendere quel qualcosa. È un’azione formale, prevedibile, già scritta. Prendere posizione significa agire tenendo in considerazione, causalmente, la partenza e l’arrivo del proprio movimento. È un momento di penombra tra un estremo e l’altro della traslazione. L’intermittenza buia tra A (ciò che prende) e B (ciò che viene preso, ciò che si fa prendere e così via) è illuminata dalla prevedibilità causale. Ma per arrivare al nucleo della questione dovremo scavare più a fondo. L’espressione va dissezionata. Immaginiamo che prendere posizione sia diventata una parola unica. Chiaramente, questa operazione può essere solo parzialmente compiuta: se da un lato l’espressione ci restituisce un concetto unico e unitario, dall’altro le due parole rimangono nettamente distinte. Crediamo necessario compiere uno sforzo di immaginazione e considerare il prendere posizione almeno come una parola composta.

Innanzitutto, ci sarà utile avere un’idea limpida del verbo prendere, un verbo che, nell’unità semantica dell’espressione, satura il proprio colore nel punto di fusione col complemento oggetto. Ciò significa che il verbo prendere esprime la vera e propria asimmetria dell’espressione, individuando un’attrazione vera e propria nei confronti del secondo elemento dell’unità (posizione,il complemento oggetto).Oltre alla dimensione prettamente materiale, correlata alle categorie di possesso, prendiamo qualcosa quando facciamo esperienza della piena intenzionalità. Si ha presa su qualcuno o qualcosa quando si sceglie una strategia per poter raggiungere l’obiettivo prefissato. Prendere, dunque, suggerisce alla nostra investigazione la garanzia di una ricerca attraverso il positivo, una linearità innestata carnalmente nell’intenzionalità. L’intenzionalità è produzione, che nel nostro caso vuol dire, appunto, azione positiva.

Riflettiamo, ora, su posizione. Anche qui ci troviamo a fare i conti con uno sdoppiamento concettuale: da un lato, l’accezione fisicalista (il dove? geografico), dall’altro, la stretta correlazione con la causalità (il dove? temporale)[1]. La posizione è la diretta risultante dell’atto del posizionare, del porre, dunque dell’intenzionalità. Ecco che diviene probabilmente più chiaro il fuoco della nostra curva teoretica.

Il mancinismo ha assolutamente a che fare con l’intenzionalità, ma allo stesso tempo è un processo fondato sul movimento. Ci è indispensabile, a questo punto, far presente la lateralizzazione, un processo di specializzazione che avviene nel cervello umano a partire dai 3 mesi fino ai 4 anni di vita. Il cervello specializza funzionalmente le peculiarità di posizione degli emisferi cerebrali nel momento in cui inizia a entrare in contatto con ciò che gli è oltre, il mondo. La letteratura scientifica non ha ancora chiarito definitivamente la causalità della lateralizzazione, ma ciò che è certo è che l’ereditarietà sia un fattore fondamentale ma non dominante. Chiedendo perdono agli specialisti delle discipline mediche, in questa sede proveremo ad astrarre il più possibile dalle prerogative genetiche, ancora in gran parte sconosciute, per dar spazio e respiro al piano teoretico in cui immergeremo il fenomeno del mancinismo inteso, qui, come espressione della differenza.

Ripartiamo inquadrando semanticamente la differenza. Nel linguaggio comune, la differenza è spesso indicata come condizione identitaria riferita a un ente altro. Bisogna, dunque, chiarire che una simile accezione potrebbe dimostrarsi fuorviante per la nostra indagine. Il concetto di differenza che prenderemo in considerazione sarà in stretto contatto con quella penombra menzionata a proposito del movimento della presa di posizione. Quando parliamo di differenza, stiamo facendo riferimento, in maniera sottesa, ad altri tre procedimenti teoretici, quali l’inferenza, l’interferenza e l’afferenza che, pur non interessando la nostra attuale esplorazione, rendono certamente più chiara la semantica che da questo momento utilizzeremo. Ci basti sapere che la nostra differenza riguarda l’intermittenza, il differenziale, la rifrazione da un ente (o da un elemento di un ente) a un altro; tuttavia, per chiarimenti ulteriori rimandiamo a Derrida(1967) e alla sua différance (e non différence, come vorrebbe il vocabolario)che, seppur inizialmente incatenata alla relazione tra significante e significato, non verrà mai limitata a considerazioni linguistiche.

La differenza è sradicata dall’ente perché rappresenta l’esatto momento di rifrazione generativa dell’ambiguità (l’ambiguità non è un semplice teorema del doppio, ma un insieme complesso che non necessariamente deve avere a che fare con quantità duali). In altre parole, la differenza indica il momento della rifrazione di un ente nella molteplicità – ambigua – della propria decostruzione. È una determinazione positiva. Chiariamo ulteriormente la questione utilizzando l’esempio ottico della rifrazione che avviene quando un fascio di luce bianca attraversa un prisma: il contatto della luce con il prisma è il momento dell’ambiguità, mentre la differenza non è né il prisma né ognuno dei colori costituenti, ma lo spazio che disgiunge ogni colore dall’altro. La differenza è la condizione di esistenza di ogni identità che abbia la forza di poter cogliere se stessa. E sarà chiaro anche che traslare una simile teoresi nella realtà quotidiana significa parlare di vita nella più totale positività, come vero e proprio conatus diversificandi.

Prima di procedere, è opportuno sottolineare la relazione teoretica tra una differenza in tal senso e quella enunciata da Deleuze nel 1968 in Differenza e Ripetizione. Di fatto, seppur con un accento ritmico posto sul differenziale,Deleuze enuncia tout court la nostra penombra nell’esatto momento in cui mette in movimento l’identità – heideggeriana – e ne rintraccia una ripetizione che non sussisterebbe senza la differenza, ovvero un elemento che si aggiunge a ciò che è ripetuto e ne presuppone il distacco, appunto, differente. Per dirla con un esempio numerico, che certamente si dimostrerebbe lontano anni luce dalla complessità deleuziana, il 3 e il 5 differiscono perché al 2, che è l’elemento somigliante tra 3 e 5, viene aggiunto, da un lato, l’1 e, dall’altro, il 3. Per dare vita ad una differenza, secondo Deleuze, abbiamo bisogno di una ripetizione somigliante (il 2 compone sia il 3 che il 5)e di un differenziale (l’1 è il differenziale del 3 e il 3 è il differenziale del 5).

Concluse queste prime considerazioni, procederemo soffermandoci, adesso, sul caso del mancinismo. Sin dalla preistoria, la percentuale di mancini si è dimostrata equivalente a quella odierna. Una simile particolarità ha chiare implicazioni evoluzionistiche che, però, conservano nell’oscurità scientifica il processo di filogenesi. Tuttavia, è noto che i mancini godessero di una supremazia nel combattimento e nelle discipline sportive, dovuto fondamentalmente al proprio essere espressione della differenza. La prevedibilità simmetrica dello scontro corpo a corpo era stravolta dall’asimmetria. Ora, la differenza non è espressa solo strutturalmente, ma anche e soprattutto potenzialmente. I mancini e i destrorsi differiscono per dei movimenti comportamentali minimi che ne caratterizzano l’approccio al movimento performativo. La differenza, dunque, è nel vuoto – ambiguo – che separa l’azione del mancino dalla ricezione del destrorso.

Ed è proprio la ricezione del destrorso che significa il mancino, come è vero il procedimento inverso. Il conatus diversificandi menzionato in precedenza sussiste solo in virtù di queste prerogative. Se non ci fosse il mancino, il destrorso non avrebbe ragion d’essere, e viceversa.

La questione, tuttavia,è solo stata enunciata. Bisognerebbe problematizzare adeguatamente. In effetti, un elemento di importanza capitale è il rapporto di una tale differenza nella dimensione della molteplicità. E la molteplicità è in stretto contatto col sociale se si parla di differenza e, implicitamente, di identità. Il mancinismo è la dimensione più pura dell’esser differente perché si fonda su una distribuzione quantitativamente asimmetrica (i mancini sono, su scala globale, quantitativamente minori rispetto ai destrorsi). Bisogna annoverare anche quest’ultima considerazione tra le prerogative della differenza perché, in caso di una eventuale simmetria, avremmo avuto un problema di relativismo; in altre parole, l’indifferenza del mancinismo non è solo qualitativa (la sinistra prevale sulla destra), ma è in nuce quantitativa (ci sono nel mondo meno mancini che destrorsi).

È proprio grazie a questo doppio livello che la differenza, così come la intendiamo noi, non potrà essere accostata al relativismo, bensì al prospettivismo, ovvero a un’impostazione che potremmo definire un relativismo: il relativismo conserva, all’interno della propria intrinseca molteplicità (nel nostro caso, destrorsi, ambidestri e mancini), la presenza di una gerarchia; il prospettivismo, invece, è totalmente a-gerarchico. Ecco che la differenza deve caratterizzare necessariamente anche la propria dimensione retroattiva per poter essere considerata in ultima analisi una vera differenza. Dunque, persino l’asimmetria appare intrisa di quel conatus diversificandi di cui ci facciamo descrittori.

Come abbiamo osservato, i vantaggi storici del mancinismo nei combattimenti e nelle attività sportive non sono direttamente considerati come responsabili filogenetici, ovvero di evoluzione a larga scala, per una teoria evoluzionistica ben determinata in tal senso. Il mancinismo è sempre stato un elemento intrinseco alla società, pregno di quell’evoluzionismo che si distacca, di fatto, dall’impostazione neodarwiniana di mutazione e si appropria della cosiddetta oppressione selettiva. Ed ecco che entriamo in punta di piedi all’interno del paradosso. Da una simile prospettiva, da una prospettiva di generalità, il fenomeno del mancinismo sembra essere privo di intenzionalità, poiché spoglio, per ora, di quella causalità che la scienza non è ancora in grado di riconoscere. In realtà, il mancinismo è una vera e propria presa di posizione che la vita esprime sin da subito. La lateralizzazione è un intenzionale momento espressivo del conatus diversificandi,di quella chiamata alla vita che non potrà mai cadere nella massificazione della generalità, ma sarà sempre una ripetizione, movimentata,e differente.

E se per assurdo dovessimo considerare Paganini e il suo rifiuto della ripetizione, capiremmo come la sua ripetizione e la sua differenza siano esattamente asimmetriche come l’esser mancino, perché differenti retroattivamente dalla generalità dei concertisti e differenti dall’esecuzione tout court. La ripetizione è movimento, è processualità, è differenziale.

Il mancinismo è, in conclusione, la più reale espressione della differenza. 


Bibliografia minima

Aristotele, Metafisica, a cura di Enrico Berti, Laterza, Roma-Bari 2017.

G. Deleuze, Differenza e ripetizione, trad. di Giuseppe Guglielmi, Ed. Raffaello Cortina, Milano 1997.

J. Derrida, Della grammatologia, trad. di Rodolfo Balzarotti, Francesca Bonicalzi, Giacomo Contri, Gianfranco Dalmasso, Angela Claudia Loaldi, Jaca Book, Milano 2012.

M. Heidegger, Essere e Tempo, trad. di Alfredo Marini, Mondadori, Milano 2017.

“Mancinismo, attitudine e consapevolezza”, su mancinismo.info.


[1] Scegliere di giustapporre la geografia – e non direttamente la spazialità – alla temporalità significa non solo attribuire all’ente una possibilità di posizionamento nello spazio, ma delle vere e proprie coordinate che possano mapparne l’esser-ente. In altre parole, la spazialità è relativa, la geografia è causale e, dunque, affine alla nostra investigazione. Non è un caso che geografia (dal greco, geōgraphía) sottintenda concettualmente la scrittura e, di conseguenza, il già scritto enunciato all’inizio di questo saggio.


Andrea De Donato è nato a Napoli nel 2002, studia filosofia a Napoli. (da settembre sarà in Cattolica).
Il primo approccio con la filosofia è avvenuto tramite libri di teologia trovati casualmente nella biblioteca di casa.
Dopo varie esplorazioni, è approdato agli scritti di Deleuze, il suo più grande interesse.
Ha studiato pianoforte e musicologia conseguendo titoli tra Salerno e il Trinity College.
Ha fondato e dirigo “Pourparler”, rivista scientifica e divulgativa di filosofia e pop-cultura, internazionale, con un taglio fortemente deleuziano.

Redazione

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