So che aspetto hanno gli oggetti, conosco i colori e i lineamenti del mio viso. Ma so anche che queste cose me le dimenticherò.
Ogni tanto, in passato, osservavo una foto di me da un’angolatura insolita e mi stupivo notando come risultavo diversa rispetto all’idea che avevo di me.
Il mio corpo riflesso allo specchio non era quello che vedevo lì. Persino con l’aiuto della vista la conoscenza della mia fisicità era approssimativa. Senza di essa immagino già come perderò quel briciolo di speranza che avevo di far chiarezza nel mondo. Non potrò conoscere nulla nella sua completezza: nemmeno il mio corpo, con le sue forme, le sue cicatrici, e in futuro, le sue rughe. Avrebbe dovuto essere il mio punto di partenza per poter capire tutto il resto, e invece presto me lo dimenticherò come ho dimenticato i cognomi di quelli che erano stati i miei professori, anni fa. Sembrava una conoscenza ovvia, scontata, ma mi sono resa conto di come, veloce, sbiadiva. Così come la conoscenza anche la forma delle cose, che prima sembrava pregnante, verrà sostituita dal nulla, e diventerà per me una cosa di poca importanza. Solo per il resto del mondo continuerà a essere elemento fondante.
Ho perso la vista da poco. È successo nel giro di qualche mese: da una semplice miopia a una totale cecità. Ogni aspetto della mia vita ha iniziato a cambiare.
Le mie giornate una volta erano scandite dalla campanella, dalle voci dei bambini, dalle mani alzate e dal gessetto che qualcuno per errore faceva sempre stridere sulla lavagna. Ora invece mi hanno dato un lavoro in un ufficio pubblico. Ogni mattina indosso le cuffie e aspetto che una voce velocissima mi detti ogni parola presente nei documenti che devo compilare, uno dopo l’altro. La mia collega, l’unica con cui condivido la stanza, sembra non rendersi conto che in quei momenti, con le cuffie addosso, oltre alla vista perdo anche l’udito. Regolarmente mi avvisa della pausa pranzo arrivando alle spalle e sfiorandomi il braccio con una mano.
– Ehi? – dice toccandomi, mentre io sobbalzo. Forse lo fa apposta. E magari non è un caso che si dimentichi sempre che non deve spostare gli oggetti in ufficio. L’ultima volta che aveva il giorno libero ho passato mezz’ora alla ricerca delle chiavi del bagno, toccando ogni centimetro delle scrivanie e dei cassetti, fino a scoprire che erano appoggiate proprio sul mio computer, come a farmi un favore.
La mia vicina di casa, Marisa, mi ha suggerito davanti a un tè di andare insieme in qualche associazione con altre persone non vedenti a parlare della mia esperienza. Che non sono più la stessa. Avrebbe potuto restarsene zitta piuttosto che darmi un consiglio scontato. E anche tutti gli altri, potrebbero smetterla di cercare di aiutarmi: non so quante volte mi è successo che, mentre sto agli incroci, qualche sconosciuto si avvicini a me, notando il mio bastone con i cerchi bianchi e rossi. Persino oggi un uomo mi ha presa a braccetto quando mi avvicinavo alle strisce pedonali.
– Ti faccio attraversare io – ha detto, come se si trattasse di un ordine. Mi teneva forte il braccio e intanto mi accarezzava la mano, accompagnava i miei passi come se fossi una bambina. Arrivata dall’altro lato della strada avrei voluto scappare, ma non sapevo dove fosse. Ho accennato un saluto e mi sono avviata verso casa, cercando di camminare più velocemente del solito. E poi ho sentito l’uomo urlare spazientito a qualche metro da me:
– Si ringrazia, sai!
Cerco di ricordare che la prossima volta devo ringraziare.
Quando avevo iniziato a perdere la vista i miei alunni mi riempivano di disegni. Ogni tanto la segretaria passava a trovarmi a casa e me li consegnava. Li avevo appesi al muro in salotto. Mi allenavo a guardare le linee colorate, grosse e vivaci del pennarello. Gli omini filiformi erano facili da riconoscere. Le casette, il sole giallo ben impresso negli angoli dei fogli A4. Nel corso delle settimane i tratti sembravano sbiadirsi, e infine sono scomparsi. Anche i disegni hanno smesso di arrivare, tanto non li potrei mai vedere, sarebbero sprecati. L’ultima volta che ho salutato i miei alunni, ho ricevuto invece un sacco di domande:
– Ma… ci senti meglio?
– Hai, tipo, il super udito?
– Chissà, forse un giorno lo avrò, – rispondo.
Per ora se sento qualcosa con più chiarezza è soltanto il silenzio. In casa non lo sopporto, nemmeno per un secondo. Quando ancora ci vedevo, il silenzio significava tranquillità e pace. Se avevo mal di testa mi ci cullavo. Ora invece, il silenzio rappresenta soltanto la mancanza di ogni stimolo. In quei momenti, in particolare all’inizio, ero presa dal terrore: e se la malattia si fosse evoluta, con qualche strana complicazione, e mi avesse fatto perdere l’udito? Se così fosse stato, la mia vita sarebbe continuata come rinchiusa in una tomba, fino alla morte. E allora pestavo i piedi, battevo le mani o bisbigliavo a me stessa qualche parola rassicurante, e così arrivava la conferma che i suoni ancora non mi erano stati negati.
Presto ho trovato una soluzione al silenzio: la televisione. Accesa, a tutte le ore, tutto il giorno e la notte. All’inizio la sintonizzavo sui soliti programmi che ero abituata a guardare prima della malattia. Qualsiasi cosa poteva andare bene: dal gossip del pomeriggio, ai quiz, ai telegiornali della sera. Ma presto ho capito che qualcosa stava cambiando. La voce delle presentatrici non è la stessa senza i loro vestiti brillanti. I quiz non sono divertenti senza poter vedere la risposta giusta che si inonda di verde. Persino il telegiornale non funziona senza il volto del giornalista.
Mi sono chiesta a lungo se questo attaccamento al visivo fosse un capriccio o una manifestazione di superficialità da parte mia. Certo, il valore comunicativo rimane intatto: le storie, le notizie, sono sempre lì. Manca soltanto la forma, pura estetica. Mancanza che si diffonde anche su di me, ormai lo so. Le azioni più banali, come il pettinarsi o il truccarsi, di fatto ora sono diventate un’impresa. Non ho mai voluto passare per una di quelle persone “malate”, una di quelle a cui gli altri direbbero poverina. Provo a sistemarmi, un po’ di ombretto, un rossetto non troppo scuro, per minimizzare la possibilità di sbagliare. Marisa mi ha dato una mano a liberarmi di tutti quei trucchi troppo accesi, troppo colorati, che ormai mi sarebbe impossibile usare senza poi risultare ridicola. Se li è portati via lei. A lei staranno bene.
Cerco a tentoni il telecomando e faccio la sequenza di tasti necessaria a far ricominciare il film: la mia televisione ancora non ha installato il supporto per non vedenti, e questo rende tutto più difficile. Devo arrivare al menù… Il menù, il tasto centrale. Lo schiaccio. La prima opzione dovrebbe essere play. Play. Aspetto. Sento la colonna sonora e capisco che finalmente il film è ricominciato. Tiro un sospiro di sollievo.
E all’improvviso l’audio sparisce.
Non va. Non va. Non so che succede.
Provo a schiacciare vari tasti.
Play, play, play.
Probabilmente così ho peggiorato la situazione. Corro al piano di sopra e citofono a Marisa, che per mia fortuna è in casa.
– Ti prego, non so cosa è successo! Il DVD non parte più.
Le farò pena? Sì, le farò pena.
Lei scende da me, con calma: i suoi passi non fanno nemmeno rumore sulle scale. I miei passi invece sono ogni giorno più marcati. Marisa si siede sul divano e inizia a premere i tasti del telecomando.
– Lo schermo è nero, – mi dice.
Poi si inginocchia di fronte alle prese e la sento trafficare per un po’.
– Niente da fare, ti converrebbe chiamare un tecnico, – dice.
La ringrazio, saluto, chiudo la porta.
E così questa sera sono sola con i miei pensieri.
Mi inginocchio di fronte alle prese. Provo a capire con le mani se Marisa ha staccato di proposito qualche spina.
Mi blocco. E se trovassi davvero il cavo staccato? Meglio tornare a sedersi. Sento i passi di Marisa sopra alla mia testa.
Giulia Zoratti nata nel ’95 in provincia di Udine, è laureata in Neuroscienze. I suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste letterarie Verde e Blam.