Jaime Fountaine, Nascondersi
Pidgin Edizioni, 2021

Questa è una storia di solitudine e scriverla mi ha ricordato a più riprese quanto io sia fortunata ad aver trovato la mia gente. Non sarei mai riuscita a fare ciò – o probabilmente niente in assoluto – senza di voi. Jamie Fountaine, giovane autrice all’esordio con Nascondersi per Pidgin edizioni, così definisce la piccola ma densa storia che racconta.
Potremmo chiamare in verità questa piccola narrazione, all’apparenza comune e contestualizzata nella periferia americana, una piccola tragedia: che è quella della vittoria della solitudine. O per meglio dire, del soccombere al fare della solitudine la propria alleata.
La storia che racconta è comprensibile, poiché è una storia di chi diventa grande in un contesto che forza verso la maturità precoce: quello di una madre non funzionale, più preoccupata di trovare un uomo che le stia accanto che di tenersi un lavoro, più preoccupata a bere che a mangiare o a comprare il primo reggiseno alla figlia di tredici anni, che così si rivolge a un lavoro da baby-sitter in una famiglia che le mostra il contrasto con la sua. Tutto questo nel tempo di un’estate afosa in un quartiere residenziale, assediato dalla figura del maniaco che affianca in auto le ragazzine e mostra loro le parti intime, mentre i ragazzini capiscono che i corpi sono attratti l’uno dall’altro e mettono in atto un gioco per materializzare un contatto, la Caccia all’Uomo.
Nel gioco, un uomo è una persona che si sa difendere da sé. Non si chiama caccia alle donne perché sarebbe un crimine. A lezione di inglese, una persona sconosciuta è indicata con “lui”, non con “lei” oppure con “loro”, che per qualche motivo non può essere mai singolare.
Tutti i protagonisti della storia sono in verità al centro di una caccia, ma la giovane protagonista un po’ di più: sua madre e le sue amiche cacciano i maschi per farli soccombere al binario imposto delle relazioni maschio-femmina; le donne adulte sono cacciate dallo spettro della felicità, come, ancora, la madre, l’unica estranea al contesto borghese del quartiere residenziale, ma anche Jessica, la madre a cui fa da baby-sitter (Severa ma giusta. Jessica non è né l’una né l’altra. È solo arrabbiata per la sua vita), che ha tutto, tranne che la soddisfazione; e poi lei, la matura protagonista, cacciata dall’enorme aspettativa del farsi donna in un contesto a lei perennemente estraneo.
Avere delle amicizie richiede fingere tantissimo. Fingere che ti piacciano tutte le stupidaggini che piacciono alla gente. Fingere che ti importino cose come sport o brutta musica o stupidi programmi televisivi. Fingere che abbia senso vestirsi come tutti, quando non mi sento come nessun altro nel mondo intero. Vorrei che fosse colpa di mia madre. Molte cose lo sono. Ma io non sono più un suo riflesso.
Assecondare ogni cosa diventa noioso, ma è l’unico modo di mantenere le amicizie.
Che differenza c’è tra dire di sì e volerlo? Chiedo. Non lo so veramente.
Da dove viene la maturità, quello che ci rende più grandi della nostra età, precoci rispetto ai gradini da percorrere, quello che ci rende outsider nel passaggio tra le medie e il liceo, quello che ci fa sentire indegni delle piccole dispute dei nostri compagni di scuola, quello che ci presume destinati ad altro, che però stenta ad arrivare? La maggior parte delle volte, la maturità viene da uno strappo tra ciò che ci spetta e ciò che riceviamo in cambio, e cioè quasi sempre una sofferenza. “Dev’essere dura quando la cosa peggiore che possa capitarti è una congettura. Non hai ancora imparato ad affrontarla”. L’origine dell’incapacità della protagonista di sentirsi parte delle persone, di non essere cinica, di non giudicare le sue amiche impegnate a credersi vissute e desiderate dai maschi, di non giudicare persino l’intera vita di sua madre, deriva dal senso di abbandono che vive, da parte dell’unica figura femminile di riferimento della sua vita. E non è forse una questione di abbandono, quanto di delusione, quella sensazione di svelamento che si ha quando si scopre che un genitore che ritenevamo capace dell’asticella che avevamo fissato per lui, si rivela in verità fallibile e oltre, pieno di biasimo. Dalla discrepanza tra l’incanto che offre la sicurezza di un genitore funzionale e la realtà che scardina il tuo posto nel mondo nasce il cinismo, il sarcasmo, la forza interiore capace di asfaltare ogni cosa. La solitudine che ti fa diverso, uguale solo a chi è passato attraverso il dolore, ma che non sembra mai essere nei tuoi dintorni. La piccola arroganza dei tredici anni diventa la maniera vincente dei figli soli.
Ma cosa chiediamo davvero ai genitori? Cosa chiediamo alle nostre mamme?
La madre è un emblema di critica sociale ferocissima, in cui una donna è vittima della società maschile al punto da non riuscire in niente, se non riesce a conquistare un uomo da avere al fianco, che dice di desiderarla per motivi che non sono poi che il sesso, e che però, per realizzarlo, si sottrae in continuazione, al punto da rappresentare non la donna che è, ma quella che ai maschi soddisfa di più.
Così, di fronte agli occhi straziati della protagonista, così abituata da vivere tutto non con dolore ma con disprezzo, scorre l’intera personalità di sua madre, completamente annientata dal suo modo di agire.
Lei è il tipo di persona che si adatta a una cosa rotta invece di trovare il modo di aggiustarla.
Dice che gli uomini non vogliono piacerti troppo sin da subito. Vogliono guadagnarselo lavorando. Non dice mai cosa vogliono guadagnarsi di preciso. So che non intende il sesso. Per quello non fa mai lavorare nessuno. Mia madre dice che ama gli uomini che prendono il comando, ma quel che intende è che ama gli uomini che credono di possedere tutto ciò che hanno di fronte (…).
Cerca sempre di farsi più piccola quando c’è un uomo in giro, come se ripiegare il suo corpo su se stesso fosse un travestimento. Tanto non mangia molto quando c’è un uomo nei paraggi.
Mi parla male degli uomini solo una volta che l’hanno scaricata. Fino a quel momento, dobbiamo comportarci come se fossero perfetti.
Porta il rossetto di giorno soltanto quando sta fingendo. È un elemento chiave per tutta la produzione. Ha pianto, si è ubriacata abbastanza da saltare il lavoro, non ha mangiato, poi ha mangiato troppo. Non le ci vuole mai molto tempo per ritornare all’inizio del cerchio. È quasi sorprendente
Molto della critica sociale che c’è dietro la figura della madre, che siamo portati a disprezzare in quanto personaggio completamente fallito, nel ruolo e nell’identità, mi ha ricordato le famose e discusse parole della Ginzburg, a proposito del pozzo in cui tendono a infilarsi le donne:
“(…) Le donne incominciano nell’adolescenza a soffrire e a piangere in segreto nelle loro stanze, piangono per via del loro naso o della loro bocca o di qualche parte del loro corpo che trovano che non va bene (…), e in verità piangono perché sono cascate nel pozzo e capiscono che ci cascheranno spesso nella loro vita e questo renderà loro difficile combinare qualcosa di serio.
Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che devono fare è difendersi dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perché un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso, ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero”.
Cosa chiediamo alle nostre madri? Che ci siano per noi, che lavorino in maniera responsabile per comprarci le cose di cui abbiamo bisogno, che siano sempre presenti per noi e che siano allo stesso tempo in grado di avere una relazione sana con un maschio sano, in modo da non imbarazzarci di fronte alle famiglie degli altri. Che creino l’ambiente sicuro entro cui farci donne noi stesse, farci corpi sani, sicuri di sé, invincibili. E se le mamme non ce la fanno, per via del pozzo che viene loro scavato sotto ai piedi, o che si scavano da sole, se non ce la fanno perché sono loro stesse vinte, per illogicità, per negazione sociale, per ingenuità, noi le perdoniamo meno che altri genitori.
Le madri non vincono mai, come neanche i loro figli soli. La solitudine non vince mai.
Spinta dall’incapacità della madre di rispettare questi standard, per quanto lo standard stesso, rappresentato dalla famigliola felice di Jessica, del marito e dei due bambini a cui fa da baby-sitter, non sia esente da infelicità, insoddisfazione e inadeguatezza (una costante persistenza di disagio borghese, in cui viene loro difficile compiere perfino gesti educati), la giovane protagonista trova nel distacco l’arma migliore per tenere il dissesto in equilibrio, fino a un punto in cui non riesce più. Il mondo si svela privo della magia dell’accudimento che chiediamo sempre, sempre, alle nostre mamme. E se per tutta la storia è capace di non soccombere alle infatuazioni delle sue amiche, di non soccombere alla minaccia del maniaco, anzi sentendosi più affine a lui che all’infantilità delle sue coetanee, le quali si preparano ad affrontare l’adolescenza con l’ingenuità di fanciullezze privilegiate, alla fine soccombe a ciò cui sua madre non è mai riuscita a ribellarsi: la società dei maschi dispettosi. Quelli come i compagni della Caccia all’Uomo che non vorrebbero giocare con le ragazze, quella dei maschi che dimostrano l’attrazione con la violenza, quella degli uomini che non ritengono le donne degne di complimenti, e così via.
Una femmina va anche bene, ma tre stravolgano l’equilibrio. Non vuole soltanto vincere, vuole dimostrare che non dovremmo giocare. Emily non capisce la differenza. Vuole solo stare vicino a Jason.
«Probabilmente è, tipo, innamorato di lui.» Rido, ma non perché è divertente. Rido per la stessa ragione per cui Matt non vuole mai che le femmine giochino, la stessa ragione per cui mia madre lascia che gli uomini la trattino male. Non vogliamo la solitudine.
Perché è questo il segreto della solitudine, che perfino uno spirito che tanto a lungo in essa si è rifugiato, perde, contro di essa. Perché la solitudine è un privilegio acre, uno dei valori che chiede più sacrificio al nostro moto interiore, che in fondo è, sempre e per sempre, quello di amare ed essere amato. Qui avviene la tragedia.
Non faccio davvero parte delle cose, sono solo nei paraggi. Quando la madre si lascia con l’ennesimo uomo, e a lei spetta di raccoglierne le patetiche conseguenze, e quando poi si reimmette nella caccia forsennata e la lascia sola a casa anche quando piove e tutti rimangono sul divano, quando il lavoro da baby-sitter salta per la noncuranza di Jessica, quando si accorge che le sue amiche si dimenticano di avvisarla delle partite a cui assistere insieme, lì la protagonista (senza nome come piccolo archetipo di tutte noi) opterà per la strada più facile: quella distruttiva, quella dell’abbandono di se stesse, quella della sconfitta della maturità, trascinata dal binario in cui altre ragazze come noi, libere fino all’inizio del gioco con i maschi, vengono trascinate, quando la loro libertà viene annientata.
Sono grata per la libertà.
La libertà è bella ma è noiosa.
Chantal Salvinelli