Napkin folding problem

Vuoi scattare una foto di quelle che fanno il giro del mondo, per questo di notte sali e ti intrufoli in uno di quei vecchi palazzi. Sei solito girare da solo e salire nel punto più alto per scattare. Ti intrufoli nel più buio dei condomini, per farti portavoce delle tue manie, delle tue libertà. Stai ascoltando i 99 Posse, una canzone che non ami ascoltare quasi mai, quando ti percorre un brivido di desiderio, le scale di quel palazzo… non le hai mai viste, perciò ti sale l’adrenalina come per una partita di calcio che si aspetta da mesi.

Sono ormai passate le undici di sera, da lontano dei cani che sembrano dei pastori tedeschi abbaiano con rabbia.

Ti sarebbe bastata una ottima scusa, come andare a trovare un amico che non vedi da anni per raggiungere l’ultimo piano, ma tu non hai una ottima scusa, non hai un amico che abita in quel palazzo al quindicesimo piano. Ascolti poi un batterista rock, pensi ai libri, a tua madre, a una donna che ami con tutto te stesso e non vedi da un mese. 

Non è difficile entrare nella prima scala dal momento che il cancello dell’androne è lasciato aperto, ti sembra tutto perfetto, non trovi problemi né impedimenti per questa piccola avventura.

Non ci pensi, sei capace di giocarti la salvezza per il brivido, con gli anni perdi la voglia di essere normale, di affrontare le cose, non ti piacciono neppure le conversazioni telefoniche. Rispondi solo ai messaggi su WhatsApp, ti sei reso esclusivo soprattutto a te stesso.

Te lo dice sempre lei, di perdere il vizio di girare da solo di notte ed entrare in palazzi che non conosci come se stessi dietro le quinte di un palco in un conflitto difficile non risolto con te stesso.

“Salire su uno di quei palazzi, non ti farà vincere un bel niente!”.

Quando lei viene a casa tua tu ti dissoci da ogni algoritmo, perdi di vista i sogni ricorrenti, le cose più futili, i discorsi da centro sociale, le generose critiche, la televisione come mezzo di conflitto. Le serate insieme a lei seduta sul divano e tu che le accarezzi il viso dietro la luce calda che proviene dalla libreria sono meglio di poter stare al centro di milioni di persone, non è un atto politically correct, non è niente di politico, stare con lei è lasciarsi assomigliare. Vuoi somigliarle, ti senti ingrato se lei è diversa. Nonostante la differenza di età, lei è così buona con te e così generosa…

Cos’è che ti manca quindi? Cosa ti spinge a salire su per i palazzi ogni notte?

È dire a te stesso quando lei non c’è, “è così che sono felice, con lei accanto”. Salire sui palazzi di notte è un gesto negativo e scorretto, per tutti inutile e infruttuoso.

È spendere quelle poche ore libero dalle proiezioni e dai ricordi, libero dalle percezioni come quando sei insieme a lei. I suoi vestiti sul tuo letto, ti masturbi addirittura pensando ai vestiti. Al suo profumo di donna che ti accompagna ora in quell’ascensore per salire all’ultimo piano del palazzo. Ti senti pieno di nostalgia, intorpidito, ambientato in uno sguardo all’indietro, rivolto al passato, nelle tue ferite irreparabili.

Mentre sali fino al quindicesimo piano, l’ascensore si blocca. E diventa tutto buio.

Quello è un vecchio palazzo, certo, ed entra solo una piccola luce dalla fenditura in alto. Dovresti aspettare i soccorsi o l’alba per vederti ancora allo specchio e non farti venire l’ansia.

Chiami i soccorsi ma sono passate già tre ore ed ormai è notte inoltrata.

Provi a telefonare ai tuoi amici ma il telefono lì, in quel buco di mondo, non prende la linea. Quindi usi la torcia del cellulare per farti luce e riguardare le foto che conservi nel cellulare. Non accadrà nulla, così lì, sospeso, non ti accadrà nulla.

Non accadrà nulla e puoi ancora riguardare e piangere sulle foto della tua compagna, dei tuoi morti, di tuo padre. I morti, i vivi, lei, le tue confusioni, il tuo amore per lei che continui ad adorare nel buio del tuo inferno, e le notti di sesso.

Le notti di sesso sono quelle che più di tutto ti sarebbero mancate.

Il sesso con lei non è come con le altre donne, è ogni volta come una ferita irreparabile.

Ti immagini a settant’anni con lei, ottanta. Immagini e proietti la tua anima in dei figli che le avresti dato, presto, appena uscito da quell’inferno di ascensore.

Appena fuori non avresti fatto altro che chiederle di sposarti.

Quello che più ami di lei è l’odore che proviene dai suoi capelli, quella sensazione che ti lasciano addosso dopo aver fatto l’amore, è meglio di leggere Adorno o Houellebecq.

Ti mancano i suoi libri, i bigliettini che ti lascia sul tavolo. Ti manca chiamarla per nome a telefono, e sentire “dimmi, ti amo, stai sereno” dall’altra parte.

È ormai notte fonda, e tu continui a restare chiuso in ascensore. Vedi che era un palazzo molto vecchio ma è impensabile che non funzioni l’ascensore, avrebbero dovuto scriverlo, lasciare un foglio all’entrata al primo piano. Tutto questo è assurdo.

Dopo più di quattro ore chiuso in ascensore ti viene la voglia di pisciarti addosso e invece di pisciarti addosso la fai in un angolo: ora il puzzo di piscio ti entra nelle narici insieme alle voglie di fare tutto quello che non hai ancora fatto con lei.

Ti viene in mente il sapore di urina misto agli umori del suo sesso quando la penetri e poi la lecchi. Ti viene in mente quando le parli dei libri di Siti e le analisi di Lukács.

Ti riprometti di portarla a Chicago, per il suo compleanno.

Lei ha paura di volare in aereo, ma l’avresti convinta, l’avresti spinta a fidarti di te, come di un angelo.

Dopo più di sette ore chiuso in ascensore lo sconforto comincia a prenderti e inizi a gridare aiuto. Nessuno risponde e senti salire la fame per la vita che prima credevi aver perso.

La fame per quelle illusioni più stupide ma utili a una vita non appesantita.

La fame per i “ti amo” e i “ti voglio bene”.

La fame per i giornali, le riviste, le cose che non le hai ancora detto mai. La fame per i musei e i vernissage. L’avresti accompagnata in ogni cosa che per te è stupida ma per lei ha un valore, come a ogni sfilata, a ogni evento mondano.

L’avresti accompagnata in ogni museo preferendo leggere meno, e dedicandoti più a lei, come un marito finalmente e non avresti più guardato nessuna. Sì, nessuna.

La disperazione ti spinge a una paranoia profonda. Schizoide. Sono ormai otto ore che nessuno si fa vivo e tu continui furiosamente a premere il bottone dell’allarme. Niente.

Il profumo che avevi sulla giacca è completamente sfumato, e i pantaloni cominciano a puzzare del tuo stesso piscio. Ti viene il vomito a constatare che non sei mai stato così disperato.

Ti sei reso conto che nella tasca dei jeans hai una rossana che ti ha dato un collega chissà quanti giorni prima, la scarti, la mangi. Prendi a fare giochi con la carta tra le mani, seduto per terra, in dialogo coi tuoi rimorsi e demoni.

Fai dei disegni con la carta della caramella, e pensando a tutti gli appuntamenti che hai mancato con la tua donna, ti metti a piangere. Ti metti a piangere, sì, prendi dalla borsa dei fogli uno scritto a riguardo di un’indagine sul piacere. Si parla di fotografia, pornografia, opposizione intellettuale.

Un’analisi comparativa di quattro fotoreportage, una donna nuda che mette spiccioli in un salvadanaio a forma di porco.

Se fossi morto ti avrebbe consolato l’idea che lo avresti fatto leggendo di una indagine sul piacere, “salvadanaio” così si chiamava. E saresti potuto morire in modo glorioso masturbandoti ma non ne avevi il desiderio. L’unico pensiero che riesce a eccitarti in questa condizione è che potrai uscire da lì, e fare forme col fazzoletto del ristorante dove le chiederai di sposarla.

Non l’avresti mai fatto, non le avresti mai chiesto di sposarla con un certo romanticismo, se non fossi rimasto maledettamente chiuso in quell’ascensore.

Sarebbe stato un gesto scontato, debole in modo abissale.

Ma tu ti sei promesso in quelle ore di buio pesto di non essere più debole e scontato, di vivere percepito e straordinario. La scrittura è una cosa arida, i sentimenti non possono più essere scritti.

Ti sei ripromesso di evitare la distanza, la separazione.

È solo il momento di stringere il fazzoletto al tavolo, trovartela davanti e dirglielo che vuoi sposarla. Dopotutto sei sempre stato un romantico.

Come quella volta che eravate insieme al castello di Monteriggioni.

Avevate bevuto un succo di pere, lei pensava al titolo giusto per il suo prossimo articolo.

Ti rinfacci quando non le sei stato vicino nelle sue preoccupazioni, perché per te non avevano nessun valore. Tutte le volte che hai mancato di dolcezza e tatto. Quando ti chiede aiuto e tu sei indifferente, come quella volta che seduta di fianco a te, con gli occhi luminosi ti fece vedere un video toccante sulla via lattea, e tu ridevi della sua ingenuità.

Non è ingenuità, è il suo modo per vincere la timidezza, quel distacco che tu crei per ispirarla, per trascinarla e attrarla a te.

Quando lei ti dice in lacrime “mi hai salvato la vita, ti voglio bene e ti amo” e tu pensi al potere, ti chiudi in misere provocazioni. Per essere borghese, ma eri borghese anche quando lei si vestiva da coniglietta e te lo leccava con amore, eri borghese anche quando annegavi con la testa nella sua lingerie di merletto nero che le hai comprato tu sotto sua richiesta.

Come quella volta che avete seguito insieme le elezioni americane, tu ti sentivi al centro del mondo, o come quando avete visto insieme la finale degli Europei con la vittoria dell’Italia. Lei si sentiva così stanca dopo una giornataccia, che l’hai tenuta a te per ore.

Ti pesa stare a sentire i racconti dei suoi incubi di quando per lavoro siete lontani, ma ora daresti tutto te stesso per una sola notte con lei col pigiama “Intimissimi” che le hai regalato. Quello nuovo che adora, ricordi ancora la faccia di quando lo scartava emozionata.

O come quando le chiedesti di venire con te in Messico e lei ti disse di no guardandoti con gli occhi storti per la paura dell’aereo. Ti fa ancora ridere quello sguardo.

Dopo dieci ore costretto in un ascensore in bilico, ti sei reso conto di non potere fare a meno di lei, non puoi fare a meno di lei come quella volta che avete sporcato la poltrona di sangue dopo averlo fatto quando lei aveva il ciclo, come all’inizio che l’hai conosciuta e per arrotondare faceva la cameriera, e l’hai voluta liberare da quel destino, ma lei cocciuta ha insistito per cavarsela da sola, senza avere bisogno di te, del te così borghese, così fissato con le sovrastrutture e le formalità.

Come quella volta che le avresti comprato una cucina nuova se solo ti avesse ascoltato.

Le avresti dato tutto, soprattutto ora che probabilmente nessuno sarebbe venuto a salvarti e chissà per quanti giorni senza bere e mangiare saresti rimasto così lì senza che nessuno ti ascoltasse.

L’avresti fatta diventare la regina di casa vostra, le avresti fatto lo shampoo nella vasca quando eravate stanchi per fare l’amore. L’avresti perdonata per ogni dimenticanza, e per non dimenticare prendi dalla borsa una penna e cominci ad elencare tutte le cose che le avresti detto una volta uscito da quell’incubo:

  1. perdonami quando sbaglio e mandami a quel paese tutte le volte che vuoi.
  2. se dimentico di amarti ricordamelo e fatti comprare i completini sexy che ami tanto: il sesso è tutto, se scompare il desiderio ricordami di accenderlo;
  3. se ti obbligo a cose che non vuoi fammi smettere;
  4. se ti escludo dai miei desideri ricordami di includerti;
  5. se ti obbligo a un gioco di squadra che non vuoi ricordarmi di rispettare i tuoi spazi;
  6. se un giorno ti amo di meno aiutami ad amarti di più;
  7. se commetto degli errori correggimi e amami coi miei difetti;
  8. quando i miei pensieri invecchiano rendimi giovane;
  9. quando il mio pensiero non evolve, aggiornalo;
  10. se mi viene voglia di morire ricordami le promesse e le coccole.

Sabatina Napolitano è nata a La Maddalena (SS) il 14 maggio del 1989. Ha pubblicato sette libri di poesia. Origami è il suo primo romanzo. Recensisce, collabora e intervista autori di poesia, narrativa e saggistica ed è una studiosa dell’opera di Nabokov. Suoi racconti sono già stati pubblicati in altre riviste come L’incendario e Sguardiindiretti.

Redazione

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