Quando sono rientrata nello spogliatoio deserto me ne sono accorta subito, le scarpe da barca gialle erano sparite. Avevo preparato la borsa con cura, mi ero presentata in piscina in anticipo, mio padre camminava davanti a me. Durante il viaggio in macchina mi ero chiesta se saremmo stati nella stessa squadra. Il corso per subacquei era frequentato solo da uomini, per avere il permesso di partecipare avevo dovuto accettare la sua presenza. Non era servito dire che mi sapevo difendere, che non avevo paura. La prima lezione era stata uno scontro di sguardi sul mio costume trasparente. Tremavo dal freddo e da non so che altro.
Le scarpe gialle erano le mie preferite.
Sotto la doccia ascolto le voci oltre il muro che divide gli spogliatoi maschili e femminili. L’acqua che scorre nelle orecchie non fa distinguere bene le parole. Colgo solo qualche pezzo di frase. Parlano di me. Penso a mio padre nudo e insaponato insieme a loro. Mi rivesto veloce, sento freddo alla testa ma non mi asciugo. Faccio di corsa la scalinata, salto a piedi uniti gli ultimi quattro gradini. Lo vedo appoggiato alla macchina che mi aspetta. Gli occhi vanno sui miei piedi nudi, lividi, nelle ciabatte. Non fa domande. Saliamo in macchina, prima di mettere in moto mi guarda per un attimo e mi accarezza i capelli freddi. Mi scosto. Non mi piace quando mi tocca.
«Qui non ci torniamo più.»
«È per le scarpe?» Chiedo.
Silenzio. Io ci voglio tornare invece. Mario andava a pesca tutte le domeniche, anche d’inverno. Mi portava conchiglie che non sembravano prese all’Argentario ma in un negozio di souvenir. Non mi importava. Dopo il mare veniva subito da me, con i capelli duri di sale.
In piscina ora tutti sanno che c’è mio padre e sotto la doccia stanno zitti. Ci invitano a mangiare la pizza dopo la lezione, io rifiuto con la scusa della scuola. Sono stanca non mi va, mi devo alzare presto. Poi mi ritrovo sempre, con la faccia sbiancata dal cloro, seduta di fronte a una pizza che mi ha ordinato papà mentre mi attardavo nello spogliatoio. Con lui non c’è compito in classe di fisica che tenga. Questi adesso sono i suoi amici.
Il mio istruttore comincia a sorridermi. Abbasso gli occhi, mangio quei funghi neri della pizza, un po’ secchi, senza sapore, e osservo tutti questi uomini che non ricordano Mario neanche un po’. Nessuno di loro.
Alla nostra prima uscita in mare sono un po’ emozionata. In acqua mi tranquillizzo, le bolle mi calmano. L’istruttore si avvicina, fa il segno di OK con il pollice in alto, mi prende per mano e mi porta con lui. Scendiamo in un blu senza fondo. Il cilindro di acqua sopra di me si restringe a ogni pinneggiata. A cinquanta metri guardo in alto, la superficie è un cerchietto di luce. Qui sotto è buio, abbiamo le torce. Niente è come lo immaginavo. Non ci sono le conchiglie che mi portava Mario. Stringo la mano del mio maestro. Ha l’età di mio padre.
Dopo l’immersione mi sento ubriaca, forse sono gli effetti della profondità. La testa si incastra nella muta mentre la sfilo, ho paura di morire soffocata, il mio istruttore è lì, pronto a farmi respirare. Quando tolgo i pantaloni mi blocco di nuovo. Lui tira con decisione, escono le gambe arrossate di una bambina cha ha freddo. Il triangolo del costume si sposta seguendo il neoprene e mi scopre. Si ferma. Allunga una mano e mi mette a posto lo slip. Finisce di liberarmi i piedi e si allontana a fumare una sigaretta a prua. Ha la pancia, i denti un po’ ingialliti, ma mi tratta con gentilezza.
Vado a mangiare un panino vicino a mio padre. Ho sempre fame, una fame che non si placa con niente. È uscito il sole mentre ero in acqua, il formaggio si è fuso al pane e le fette di prosciutto si sono attaccate tra loro. Quel blocco rosa mi fa pensare alla carne di un bambino. Alle gambe di Mario quando era malato. Mando giù tutto prima che il disgusto mi vinca.
Per la cena di fine corso l’istruttore mi chiede di aiutarlo a prendere i ravioli ricotta e spinaci che ha fatto sua madre per tutti noi. Ci incontriamo a piazza Irnerio.
«Ti va di fare un giro?»
Mi va. Non ho voglia di andare a casa a studiare. In macchina tengo il finestrino giù, mi spettino tutta. Ci mettiamo quasi un’ora per arrivare in un posto brutto. Uno scheletro di casa. Muri bucati dalle finestre, impalcature e polvere. Lui fa il manovale qui.
«Ti voglio fare vedere una cosa.»
Saliamo scale mezze sospese nel vuoto, poi ci affacciamo in tutte le stanze. Ognuna ha il suo buco che inquadra un pezzo di cielo e alberi, nient’altro. Non sento più cosa dice. Guardo le pareti, il cemento, aspetto qualcosa. Poi nell’ultima stanza la vedo. Una rete arrugginita in mezzo e un materasso lurido appoggiato al muro. Lui senza dire niente prende il materasso e lo butta sulla rete sollevando aria sporca e cattivo odore. Mi fisso sulle macchie. Cerco di capire se sono vecchie o se qualcuno le ha fatte in questi giorni. Mi chiedo se a usare quel materasso è solo lui o se tutti gli operai del cantiere vengono in questa stanza. Intanto ho il suo alito di sigaretta dietro il collo.
«Mi dispiace, ti volevo portare in un posto meglio.»
Deve essere colpa mia. Ripenso a quando in barca mi ha rimesso a posto il costume. Avrei dovuto capire.
Mi spinge piano per le spalle verso il materasso. Mi abbassa i pantaloni, e mi fa sedere su quelle macchie. Mi ripeto che deve essere colpa mia. Non riesco a dire di no. La saliva sa di sigaretta. Mario non fumava.
Cammino incerta quando torniamo alla macchina, ho anche freddo. Lui apre il portabagagli per prendere una coperta. Buttate in un angolo ci sono le mie scarpe gialle.
Alla cena non ci vado. Mi fa male tutto. Mi metto a letto.
Mi alzo tre giorni dopo. C’è il sole.
«Hai voglia di andare al mare?»
«Sì, papà.»
Preparo i panini. Metto una delle conchiglie di Mario in tasca.
In acqua le bolle mi calmano. Prendo mio padre per mano e lo porto giù con me, a cinquanta metri.
Stefania Micheli è nata a Brescia e vive a Roma da sempre. È laureata in Lettere, ha un Master in traduzione dal francese ma è l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica che l’ha fatta lavorare per molti anni in teatro. Ha pubblicato traduzioni dal francese e dall’inglese con Fazi e Donzelli e ha tradotto per le scene alcuni testi teatrali. Ha pubblicato due racconti: sulla Rivista RISME, e su SFOCATURE ed. EMUSE/FIAF. Scrive la mattina alle 5, prima di andare a lavorare.