
Opera senza autore, Luciano De Pascalis
Gruppo Albatros Il Filo, 2020
Non leggo poesie. Forse non è il modo migliore per cominciare una recensione, ma è la verità. Non leggo poesie: non mi fido. E quando mi fido, non mi fido di me.
Forse per un retaggio liceale, un pregiudizio infantile, ma la poesia l’ho sempre trovata distante, un po’ volutamente separata dalla quotidianità e dalla comunicazione.
È per questo che sono rimasta assolutamente sorpresa, non solo di esser riuscita a godere della lettura di Opera senza autore di Luciano De Pascalis, ma anche di avere avuto la sensazione di “partecipare” delle poesie che leggevo.
La semplicità
Ciò che mi ha colpito nella lettura, oltre a una serie di argomenti che scioglierò lungo l’arco della recensione, è l’assoluta semplicità dell’uso della parola. E questo è un complimento: per me, che scrivo e leggo prosa, la semplicità è motivo di vanto. La parola per me assume potere e simbolismo massimo quando viene utilizzata nella leggerezza e semplicità, pur riuscendo a mantenere un che di erudito e aulico. La poesia per me dovrebbe essere quotidianità che si fa archetipo, in un certo senso.
L’autore, giovanissimo, riesce bene nel suo intento, seppur forse ancora affezionato a dei virtuosismi che potrebbero stancare, ma che hanno il vantaggio di mostrare chiaramente l’identikit culturale e la formazione di De Pascalis. La sua persona, seppur l’opera sia senza autore, riesce ugualmente ad emergere tra i versi delle poesie: si percepiscono gli spunti culturali, ma anche il background del proprio dialetto, della lingua parlata che si insinua tra un virtuosismo e l’altro.
L’opera si struttura in varie sezioni tematiche: Solitudine, Storie e Personaggi, Notturni e Amore che hanno funzione prettamente didascalica, ma utile se si considera che le poesie della raccolta non sono poche. Le tematiche sono interpretate in modo vario e fantasioso, e De Pascalis sembra nutrire una predilezione per le “narrazioni lunghe” nel comporre le sue poesie, alcune delle quali hanno addirittura un tono quasi narrativo: penso, un esempio per tutte, Un mendico mendace nella sezione Solitudine.
Le narrazioni lunghe
Nonostante il gusto per le strutture più lunghe, credo comunque che De Pascalis esprima moltissimo in alcuni quasi-haiku che propone di tanto in tanto: Birkenau è un ottimo esempio di quanto può essere potente un’ immagine semplice, una parola sola. Certo, si sente il calco novecentesco – sia per la tematica espressa nel titolo della poesia, sia per l’esecuzione ermetica – ma ciò non toglie che si può intuire un utilizzo intelligente di queste fascinazioni. Anche la poesia Euridice soffre della stessa influenza scolastica e gode dello stesso pregio della sintesi unitamente alla potenza espressiva per la quale De Pascialis, nonostante e grazie alla sua giovane età, ha un’abilità intuitiva.
Tra le narrazioni più lunghe nella raccolta spicca senz’altro Berlabei e Idrusa, probabilmente il pezzo più complesso, bello e erudito della raccolta. D’altronde, per dirla con Borges: l’erudizione è la nuova dimensione del fantastico. In questa poesia si evince tutta la potenzialità di De Pascalis, che per un breve arco di tempo si scioglie e lascia andare il didascalico per approcciare a qualcosa di più sperimentale. E gli esperimenti hanno la virtù di poter essere azzardati, ma mai sbagliati, soprattutto quando si è giovani.
In sintesi: una poetica intuitiva
Concludendo: la raccolta è ben strutturata, forse soffre della giovane età dell’autore, ma ha un potenziale lampante. Come ho detto poco sopra, De Pascalis ha una capacità poetica intuitiva, il che vuol dire che basterà davvero poco: magari incanalare le influenze “classiche” in un laboratorio linguistico sperimentale: i semi di questo stile si possono percepire già da alcuni suoi brani, e sono sicura che questi fiori germoglieranno. Luciano De Pascalis è giovane, entusiasta, forse inesperto, ma il tempo gli darà ragione come, credo, darà ragione a una vastità di giovani autori e autrici che bazzicano le case editrici indipendenti e le riviste letterarie. Forse mi immedesimo, ma ci credo fortemente.
In copertina: David Hilliard, The Tale is True