Ricordo la prima volta che sono stato con una donna per denaro, a vent’anni, una vita fa praticamente: accadde in pieno autunno, in un piccolo bordello di Berlino in cui mi ero rifugiato dopo la scazzottata con Marco.
Nevicava da dio e, dopo un’insipida giornata passata a bighellonare, sulla strada per l’ostello, ci picchiammo per una banale questione. Decisi di separarmi dalla compagnia e perdermi nel quartiere di Wilmersdorf.
Eravamo distesi sul letto, io e lei, in una disadorna e piccola camera al primo piano, con le lenzuola che sapevano di talco e sperma e, alle pareti, quadri dozzinali di donne in posizioni oscene; gli occhi socchiusi, le gambe bianche, aperte come bocche affamate. Ricordo il suo viso, tutto sommato grazioso, e ricordo il suo corpo sfatto e molle nascosto a malapena da microscopica biancheria intima, il contrasto tra la sua pelle candida e morbida e la durezza dei suoi gesti, del suo inglese stentato; le mie mani nervose e inesperte che cercavano i suoi seni e lei, immobile, schiacciata, a dissimulare con lo sguardo un piacere di plastica, qualcosa che non si dovrebbe mai fingere a un pischello. Mentre incespicavamo l’una nell’altro un odore di cipria e sigarette si mescolava col nostro sudore, guardai con la coda dell’occhio l’unica finestra nella stanza: attraverso i vetri, la neve cadeva lenta sui marciapiedi, attutendo i rumori di una città bianca. Fantasticai su come mi sarebbe piaciuto diventare neve, trasformarmi in uno di quei minuscoli frattali stellati che caracollano giù dal cielo. Allora non ci sarebbero stati più amici da picchiare, istinti da soddisfare, corpi estranei a cui strusciarsi: sarei stato impegnato solo a cadere.
Non so perché scrivo queste cose: forse perché, al giro di boa dei quarant’anni, sto iniziando a mettere tutto in discussione. Ho fatto qualche scelta sbagliata? Chi sono veramente? Che cosa ho fatto finora d’importante? Come sarà il futuro? Sul serio devo imparare a fare le stories su Instagram? In quale direzione orientare il tempo che mi resta da vivere?
Cerco imperterrito risposte, oggi che la mia carne non è poi così dissimile da quella, flaccida e cadente, della troia crucca di fianco a me, probabilmente non restano molte frecce al mio arco. Non mi preoccupano la morte, la pandemia o futuri supplizi. Piuttosto, l’oblio mi terrorizza: l’idea che io possa passare inosservato come un refolo di vento. Nessuno si ricorda di nessuno: per le donne, quelle amate sono solo menzioni d’onore, mai memorie; di certo non si rammentano di loro i maschi e le femmine che si sono scopati; non si ricordano di loro i figli che non hanno avuto o i genitori, ormai defunti, che li vedevano tornare a casa strafatti, con la puzza di alcool del discount addosso. È forse allora per questo che mi torna alla mente Berlino e il suo ricordo imperfetto: perché è lì che m’incastonerei, come un corpuscolo bianco intrappolato in quei souvenir a forma di palla di vetro che, se capovolti, esondano in una nevicata impetuosa. La neve che cade ed io che cado su di essa.
In copertina: Danila Tkachenko, Restricted Areas
Luca Murano ha da poco scollinato i 40 e questo racconto ne è testimone. I suoi lavori sono apparsi in varie riviste letterarie, fra cui, Streetbook Magazine, Spazinclusi, Rivista Inchiostro, Voce del Verbo, Rivista Blam, Malgrado le Mosche, Bomarscé, Risme, Mirino, Rivista Waste e, a breve, Grande Kalma. A luglio 2018 è uscito il suo primo libro, “Pasta fatta in casa – sfoglie di racconti tirate a mano” pubblicato con Bookabook.