«Il primato del testo». Intervista a Alfredo Zucchi

La memoria dell’uguale è forse il libro perfetto per quei lettori che vogliono dimostrare di saperla più lunga dell’autore. Questo è il primo rischio, ma ce n’è un altro. I tuoi racconti sembrano costringere il malcapitato (me in questo caso) a rispolverare quel poco che sa di filosofia e meccanica quantistica, paradossi temporali ed entropia; a rileggere autori come Nietzsche e Borges; a soppesare gli elementi che compongono la tua cassetta degli attrezzi: la narrazione costruita come un labirinto, l’eco di una storia che risuona dentro un’altra, l’intreccio e il dosaggio di più registri linguistici. Di fronte alle opere complesse, voglio dire, il pericolo è di barattare la curiosità con il voyeurismo, o con il sazio compiacimento del cliente che si informa sugli ingredienti del piatto appena mangiato. Cercherò allora di tenermi alla larga sia dalla hybris del lettore (a volte più prepotente di quella dello scrittore) sia dall’amenità dei programmi di cucina.

Inizio comunque con un paio di domande d’ordinanza. La memoria dell’uguale è molto diverso da La bomba voyeur, ma in un certo senso è anche il suo doppio speculare. Entrambi sembrano infatti sconfessare le rassicuranti codificazioni dei generi: nella Bomba la presunta linearità della forma romanzo veniva scardinata dalla digressione “saggistica” del finale; i racconti della Memoria, pur mantenendo la loro autonomia, intrattengono tra loro rapporti di parentela (temi e situazioni), a volte di vera e propria consanguineità (trame che tornano o istituiscono delle corrispondenze). Come nascono queste storie? Durante la loro stesura hai seguito (consapevolmente o meno) il consiglio di Bolaño (scrivere racconti a coppie o a grappoli, mai singolarmente)?

Ho seguito consapevolmente e inconsapevolmente il consiglio di Bolaño, aiutato e spinto da una mia mancanza: non riesco a scrivere testi isolati, ad hoc, una tantum. Ho bisogno del sentimento dello spazio, cioè della membrana che tiene insieme le cose, fosse anche solo un concetto. Ho cercato di tenere sempre, sullo sfondo, l’idea di questa membrana, per quanto, in corso d’opera, abbia finito per manifestarsi in modi imprevisti: ha giocato il ruolo della casella vuota, la casella mobile tra un’unità e l’altra – ogni racconto, ogni unità si è sforzata di riempirla, di arrestarla, senza successo. Da qui anche la necessità, dal punto di vista della struttura, di una specie di circolarità – più accennata, come un dubbio o una possibilità, che non dichiarata.

Molti degli interventi scritti a proposito della Memoria si concentrano sulle sue idee “ufficiali”. La bandella ci informa, riassumendo bene i nuclei del libro, che i temi cardine sono la memoria, l’illusione e il tempo. Eppure leggendo mi sono trovato di fronte a un paradosso: quasi in ogni testo si parla di investigazioni (sia poliziesche che scientifiche), ma in un certo senso anche il lettore è chiamato a indagare. Perché, nascosti dal fasto delle entrate principali, ci sono altri ingressi, non meno importanti. Ad esempio, a me sembra che la tua scrittura trasudi sesso. Per dirlo in modo più commestibile: che nella tua scrittura la sfera erotica sia importantissima. Eppure negli interventi quasi non se ne parla. Non riesco a spiegarmi, citando il titolo di uno dei racconti, questo «errore di mira» (forse sulla Bomba era stato detto qualcosa di più al riguardo).

L’elemento erotico è importante, tanto nella Memoria come nella Bomba. Nei racconti mi pare che abbia, in modo più preciso, la funzione di motore. La sfera erotica forse finisce addirittura per ricoprire o sostituire il ruolo che, in narrazioni di stampo diverso, è svolto dal ritratto psicologico. Qui si tratta, più di ogni altra cosa, di azionare forze e di far risuonare conseguenze, volute o meno.

Possiamo dire con buona pace dei nemici di Freud che l’amore si gioca sul delicato equilibrio tra dolcezza e aggressività. Nel tuo libro è il secondo lato a emergere con forza. Per certi aspetti ricorda la tenera brutalità dei personaggi di Agota Kristof: questa scrittrice fa parte della tua costellazione?

Dovrebbe esserci, ma non c’è: non ho mai letto Kristof, ma ho la Trilogia della città di K. tra i miei libri.
Di recente ho letto Compendio di psicoanalisi di Freud, un volume che raccoglie vari testi del nostro, di carattere divulgativo, che sintetizzano le sue scoperte e ripercorrono la storia del movimento. Mi ha colpito molto il modo in cui Freud difende l’insistenza, nella dottrina psicoanalitica, della centralità della sfera erotica. Come a dire: i dati dei malati erano questi, non c’è molto altro da aggiungere; se li avessi sublimati mi sarei trasformato in Jung. Mi piace molto anche il modo in cui Freud tematizza il concetto di resistenza come motore di scoperte: non deviare lo sguardo da ciò che, al tatto o all’intelletto, provoca fastidio: c’è, proprio là dentro, qualcosa che non attende altro che di essere scoperto.

Il secondo tema non intercettato è secondo me l’ironia. Nonostante si risolvano spesso in storie di violenza, diversi racconti della Memoria possiedono un’irresistibile verve comica. Cito un passo indicativo: «Il contatto col suo corpo […] mi ha provocato un sussulto gastrico e un’erezione». Oppure la chiusa di Un uomo come tanti. Ma potrei continuare a lungo.

Ho cercato di riservare uno spazio al comico. Forse è solo una nicchia, ma c’è. Credo di avergli consacrato uno spazio vero e proprio, un posto al sole, solo nell’ultimo racconto, nella marcia volontaria dei Ghetti verso il luogo della loro segregazione: la barzelletta sul dio dei notabili. C’è, in questi racconti, uno sforzo di unità di effetto che mi ha portato a centellinare la spinta centrifuga del comico, a concentrarla in punti precisi. Nella Bomba voyeur invece, che vive di deviazioni, il comico si presenta più spesso e ha precisamente il ruolo di scardinare il carattere egemonico, dominante della rappresentazione narrativa.
Per il resto, nel dubbio come nel comico, risiede una forza che, non solo in narrativa, ha il valore inestimabile dell’anticlimax.

Vengo al terzo tema “segreto”. Mentre leggevo ho condotto una specie di indagine statistica, segnandomi le occorrenze della parola ‘caso’, nella sua accezione scientifico-filosofica. Come mi aspettavo sono tantissime (l’ultimo racconto si intitola addirittura Il luogo ovvero il caso). Questo ovviamente ci porta allo Zarathustra di Nietzsche. Ma a me pare che affiori anche un altro Nietzsche, il diagnosta della Genealogia della morale, per il quale una facoltà così importante per le società umane come la memoria nasce da una forma di violenza. Ecco, ogni tuo racconto sembra scritto a partire da quella sorta di mistero insito nelle regole di una comunità. Uno dei meccanismi ricorrenti è quello della compensazione: uno spettro della tragedia greca (la colpa che insegue i personaggi di Eschilo). Un altro nome che mi è spesso venuto in mente è Wittgenstein (i seguaci di Deleuze storceranno il naso): tra i cardini delle Ricerche filosofiche troviamo il concetto mobile di regola, l’idea del linguaggio come educazione e addestramento, ma anche come violenza necessaria per far parte di una comunità umana.

Sono felice che citi la Genealogia della morale. Quello è il Nietzsche che resta, per me – voglio dire quel pensatore che, da lì, si rivolge al futuro, con in mano un modello abbozzato eppure fecondo: la «fisiologia dell’estetica», che sussurrerà alla psicoanalisi, alle neuroscienze, alla scienza del microscopico, alla teoria dell’evoluzione. Come scrive lo stesso Nietzsche pochi mesi dopo la stesura della Genealogia, nell’Anticristo: «le idee più preziose vengono trovate per ultime, ma le idee più preziose sono i metodi».
Wittgenstein è stato oggetto di studio e approfondimento dopo la prima stesura della Memoria. Tuttavia mi pare che mentre scrivevo stessi precisamente cercando di intercettare lo statuto delle regole a cui ti riferisci, regole che fanno dei “giochi di linguaggio”, che Wittgenstein propone ad esempio nel Libro marrone e nel Libro blu, dei veri e propri sistemi. Scrive Wittgenstein: «consideriamo i giochi di linguaggio da noi descritti non come parti incomplete d’un linguaggio, ma come linguaggi in sé completi, come sistemi completi di comunicazione umana». Inoltre, la posizione di radicale immanenza con cui Wittgenstein affronta la questione della mobilità del significato (c’è forse un luogo in cui il significato di un enunciato si trova, un luogo diverso dall’enunciato stesso, mentre lo si enuncia?), il modo in cui dunque Wittgenstein fronteggia il vuoto mi pare eroico.

L’insistenza sulle regole mi porta a considerare la tua una scrittura intrinsecamente politica. Non perché votata all’attualità, al contrario. In uno degli interventi è stato notato giustamente che la ritualità mette in campo il ritorno dell’uguale. Ma io mi soffermerei più su quello da cui il rito prende le mosse: l’imprevisto, l’indefinito, quello che in elettronica si chiama rumore. Il rito è una difesa dal caos ma, per funzionare, prende in prestito da esso qualcosa. Se nell’epoca contemporanea vige un continuo stato d’eccezione, lo scrittore deve ridefinire il significato delle regole?

Credo di sì. Nell’ormai abusato topos del conflitto tra arte “impegnata” e arte “autonoma” si tende a dimenticare come ogni segno letterario o artistico porti in calce il problema della ridefinizione delle regole. Come mostrano, con parole diverse, Kiš e Adorno, l’elemento politico circola tra le pagine della letteratura indipendentemente dall’uso, più o meno dichiarato, di temi politici o attuali. Nel saggio Impegno Adorno arriva a dire, riferendosi a Madre Courage e i suoi figli di Brecht: «la tecnica cartellonistica di cui Brecht necessita per rendere evidente la tesi ne ostacola la dimostrazione».
Analogamente, in Due variazioni su Flaubert, Kiš interpreta la famigerata «angoscia dello stile» di Flaubert non tanto, come fa Barthes, come un affinamento dello sguardo che finisce per mettere a nudo «l’unità linguistica fondamentale, la frase» (in Flaubert e la frase); dice Kiš invece: Flaubert sente che gli strumenti che sta usando, quelli del romanzo realista, sono ormai incapaci di veicolare i  conflitti e le tensioni del proprio tempo; c’è, nell’angoscia dello stile di Flaubert, per Kiš, una prefigurazione disperante di star maneggiando strumenti divenuti inerti, innocui, ormai incapaci di rappresentare il mondo per quello che è diventato: un mondo in frantumi. Per questo, dice Kiš, Flaubert spinge in direzione di procedimenti nuovi: la rottura dell’onniscienza del narratore e il superamento del ritratto psicologico.
Questo vuol dire anche che la riflessione teorica intorno ai procedimenti letterari è uno dei veicoli principali dell’elemento politico in letteratura – perché il gioco della riarticolazione delle regole sia azionato, bisogna che gli strumenti siano calibrati sulla natura dei fenomeni che si pretende osservare.

Ho avuto l’impressione che più di un racconto scalciasse per divenire romanzo. Ad esempio, Il ponte, Esecuzione e Il luogo ovvero il caso sono tre momenti diversi di una stessa storia. Ma anche altri racconti sembrano contenere germi romanzeschi.

Il materiale per i tre racconti che citi avrebbe potuto, nelle mani di qualcun altro, diventare un romanzo; ma un romanzo del genere sarebbe la confutazione precisa della mia idea di romanzo. Non voglio difendere la mia idea di romanzo, ma sottolineare la mia indifferibile parzialità: nelle mie mani il romanzo (la forma estesa) tende a frantumare la credulità per mettersi a pensare; vuole dunque altri materiali e altri procedimenti.

Mi sembra un bel piano di battaglia, «frantumare la credulità per mettersi a pensare». Questi materiali e procedimenti «altri», sono la dichiarazione di guerra contro il “romanzo ben fatto”?

Io spingerei, più che sull’alterità, sulla specificità. Si tratta per prima cosa, credo, di cercare di non sovrapporre le categorie editoriali a quelle letterarie – non perché le seconde siano buone e le prime cattive: perché sono diverse, per quanto finiscano necessariamente per sovrapporsi nel libro come oggetto. Sopra ho scritto «nelle mie mani»: è sbagliato. Intendevo che esiste una traccia, verso la quale mi pare di tendere, che considera la forma estesa, il romanzo, come spazio privilegiato per fare, come scrive Ricardo Piglia in L’ultimo lettore, «dei problemi di costruzione il tema stesso della narrazione»; questa di Piglia è a sua volta una riformulazione del principio formalista della «messa a nudo del procedimento», articolato da Viktor Šklovskij nel saggio Parodia del romanzo: Tristram Shandy (in Teoria della prosa). Non è detto che un effetto simile possa accadere solo nella forma estesa: esiste tuttavia una tradizione significativa al riguardo proprio nella forma estesa, in cui l’insieme degli artifici della finzione si trova come sotto processo – è messo a nudo, per l’appunto; in cui il motore non è la sospensione dell’incredulità ma il dubbio, e la discontinuità non è una confutazione ma il suo contrario. Ti faccio quattro esempi: L’uomo senza qualità di Musil; Rayuela di Cortázar; Clessidra di Kiš; Respirazione artificiale di Piglia.
Questa spinta, che abbiamo chiamato “dubbio” e “discontinuità”, nei racconti della Memoria dell’uguale, rispetto alla Bomba voyeur, si esprime in modi completamente diversi: per preservare l’unità di effetto dei testi, non spezza la narrazione ma informa il tessuto della realtà in cui le storie si muovono; non riguarda la voce narrante ma l’ambiente, il contesto, lo spazio-tempo.

Fin dal titolo, La memoria dell’uguale è concepito come tema musicale: variazioni e ritornello. (E qui facciamo pace con Deleuze). L’hai progettato così prima della stesura o si è trattato di un processo naturale?

Credo di avere associato, fin dalla prima ideazione di questo libro, la forma breve a un processo compositivo vicino a quello della musica, con cui ho avuto a che fare da vicino per un periodo. I racconti del libro sono stati scritti, quantomeno nella prima stesura, come notturni, cercando dunque di intercettare un effetto, cioè un sentimento, fortemente musicale: uno in cui il messaggio arriva quasi indipendentemente dalla comprensione logica del suo tessuto verbale. Credo che l’elemento musicale, della composizione musicale, sia principalmente all’opera nel modo in cui i racconti comunicano tra loro.

Ti interessano le scritture autobiografiche, i loro dintorni e le loro derive?

Nella finzione autobiografica come genere codificato c’è una scorciatoia, un accesso apparentemente privilegiato all’insieme di tensioni realtà-finzione; c’è un rischio, allo stesso tempo: uno entra in quella stanza con facilità, vi mette piede, e vi trova una giostra, un museo delle cere: le tensioni sono altrove, dentro rimangono solo le tracce di ciò che un tempo faceva di quella stanza il labirinto del minotauro.
Mi interessa invece la posizione di Šklovskij e dei formalisti al riguardo: il ricorso al memoir, ad esempio, come modo di innestare nel testo la voce della persona reale che prende la parola, cioè di scardinare una delle più proterve mascherate della letteratura: la finzione del narratore onnisciente, la posizione demiurgica da cui prende la parola. Non si tratta, qui, di giocare a specchio riflesso, come spesso accade nella finzione autobiografica, ma di ridurre fin dove possibile l’impatto deformante di certi procedimenti letterari per far parlare nel modo più diretto possibile quello che Šklovskij chiama «il materiale». Anche questa è una posizione un tanto desueta oggi, non c’è dubbio. Tuttavia mi pare che il modo in cui qui si dispongono gli elementi in conflitto (l’insieme dei procedimenti letterari che per Šklovskij costituiscono «l’intreccio» da un lato; e dall’altro i materiali, i fatti) resti valido. E cosa sono, i fatti? Le risposte di Kiš e Piglia a questa domanda, proprio a partire da posizioni formaliste, sono state degli esempi importanti per me – esempi che riguardano precisamente la possibilità della letteratura di afferrare il nocciolo delle tensioni del proprio tempo, di approssimarsi dunque allo statuto mobile delle regole di cui parlavamo prima.

Hai qualche abitudine particolare mentre scrivi?

C’è una lotta peculiare per la concentrazione che ha luogo ogni volta. È bello istituire riti in questo senso, io ne avevo alcuni (leggevo ad esempio sempre una pagina intera di quello che avevo scritto il giorno precedente, di mattina presto e in stato di promiscuità con gli umori del sonno, prima di fumare la prima sigaretta che invece insediava il sentimento del tempo, dell’ansia e della frattura). All’incirca dall’inizio della pandemia, però, ho smesso di scrivere, mi sono limitato a correggere e rivedere cose già chiuse – non ho dunque sperimentato, per oltre un anno, la vertigine della prima pietra (vertigine di gravità): questi riti li ho dimenticati o devo reinventarmeli.

Giustamente hai nominato la pandemia, per un attimo me ne ero dimenticato. Quindi ha avuto delle conseguenze dirette sulla tua scrittura?

Ci sono vari modi di reagire a stravolgimenti simili. Uno può – se sopravvive allo stravolgimento, ed è ancora in condizioni di prendere la parola – scegliere di parlare subito, mentre la cosa accade; o invece può attendere per «pesare i suoni» come diceva e faceva Satie. Entrambi i modi non sono esenti da considerazioni di genere.
Nel primo caso, in cui il valore testimoniale è forte (almeno quanto il rischio che le proprie parole risultino molto presto superate dagli eventi), non è irrilevante che uno scelga la via, ad esempio, del memoir o del reportage invece di quella della finzione narrativa. Il dramma della finzione narrativa consiste nel fatto che essa suppone, dietro la trattazione di un oggetto o di un conflitto specifico, un pensiero sistematico. La finzione narrativa, indipendentemente dalle intenzioni dichiarate dell’autore, universalizza: così, ogni dettaglio del testo (il colore delle scarpe di un personaggio, le pareti nude di un appartamento e la carta da parati di un altro, il traffico all’ora di punta su una certa strada che dalla città si allunga verso la costa) esprime un pensiero sistematico in merito a un certo oggetto o conflitto. Ora, questo pensiero sistematico, nella finzione narrativa, non appartiene propriamente all’autore: lo esprime il testo. Precisamente in questo punto, in questo primato del testo, secondo Šklovskij, risiede la questione di cui parlavamo sopra: il problema politico dell’insieme dei procedimenti e artifici che compongono «l’intreccio» nella finzione narrativa (noi potremmo tradurre la questione della costruzione dell’intreccio nel formalismo con quella dell’invenzione). Ed è chiaro che non ci troviamo alla fine degli anni venti in Unione Sovietica, a un passo dal realismo socialista, ma in pandemia – ciò che conta, tuttavia, non è la risposta ma la domanda: cosa sono i fatti? E ancora: come raccontarli? Dov’è, in questa vicenda, il cuore del conflitto? E in che misura, con quale opportunità, inventare una voce che affronti tale confitto quando invece, proprio ora, l’unico soggetto chiamato a rispondere di un simile stravolgimento sono io? Non ho ancora trovato risposte adeguate – per questo, mio malgrado, resto con Satie a pesare i suoni.

Cosa pensi dell’attuale panorama letterario in Italia? Quali autori senti affini?

Mi pare che negli ultimi anni siano venute fuori voci degne di attenzione. Più che fare nomi di autori e autrici, mi viene da indicare degli spazi in cui si parla, si discute e si analizza la letteratura contemporanea (indipendentemente dalle etichette editoriali) in modi credo significativi: la rubrica di Emanuela Cocco per Bookadvisor, “Dopo la prima”, in cui si cerca, con Cortázar, di leggere i propri contemporanei come se fossero classici: con la stessa attenzione (curiosità e pignoleria); il canale Youtube di Marco Cantoni, in cui invece mi pare di rintracciare una spinta da caffè illuminista, proprio agli albori della sfera pubblica moderna; la rubrica dedicata ai narratori italiani in L’indice dei libri del mese, in particolare gli approfondimenti, a cura di Corrado Iannelli, intorno alle forme brevi; gli interventi ormai regolari di Francesco Spiedo su Minima&Moralia: da lettore-scrittore, in modo poco ortodosso ma molto intenso, il suo sguardo si concentra sull’effetto (sull’esperienza di lettura dal punto di vista dell’unità di effetto). Si tratti di spazi che conosco per esperienza diretta: li nomino perché li conosco.
Per il resto, ci sono persone i cui testi ho letto, o con cui ho collaborato, e che sento vicine per progetto e per intenzioni: con Luca Mignola ho condiviso vent’anni di letture, scritture, errori, entusiasmi e abbagli – e la cosa continua; Luciano Funetta scrive da un luogo che io sento affine – questo luogo è senza dubbio altrove; Ferruccio Mazzanti pensa mentre scrive e riesce a restare fluido, cioè in equilibrio tra i concetti e le immagini, tra la concentrazione dello sguardo (rallentamento) e il suo slittamento (transizione); Federica Arnoldi mi ha spinto, con l’esempio, a stare con entrambi i piedi nel mio tempo – nella forma saggio in particolare, e in generale nella riappropriazione di un orizzonte politico articolato, nella scrittura, senza scorciatoie postideologiche.
Poi c’è uno scrittore argentino, Ariel Luppino, che mi pare si muova nei pressi di un conflitto (un nucleo patogeno, per restare nel registro delle pulsioni, delle resistenze e delle fughe simboliche) a me molto familiare: i suoi modi, come dice Bolaño di Osvaldo Lamborghini, sono modi da sicario; i miei modi invece – non sta a me dire quali sono i miei modi.

Per concludere ti propongo un gioco. È la fine del mondo e l’angelo dell’apocalisse ti ordina di scegliere tra La parte di Arcimboldi, l’ultimo romanzo-fiume di 2666, e l’intero Detective selvaggi: quale dei due sopravvivrà alla distruzione?

La parte dei delitti!

Come sopra: Finzioni o Rayuela?

Questa è una domanda infame.

La fine del mondo deve esserlo. Ultima domanda. Sei sull’isola deserta e leggi sempre lo stesso libro, l’unico che ti è rimasto: quale?

Aut liberi aut libri: l’ultimo libro è finito in acqua e io credo di averlo imparato a memoria. Passo il tempo a cercare di dimenticarlo. In ogni caso mi piace nuotare in mare aperto.

Redazione

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