La fine n.3

Le ultime persone che lo videro dissero di averlo scorto camminare lungo la A2, l’autostrada che collega Berlino alla Polonia, con in mano la custodia di un violino e sulle spalle un piccolo zaino di pelle. Il giorno del suo compleanno, in una calda domenica di maggio, aveva gettato il cellulare ed era partito.

La primavera era inoltrata, il sole scaldava la terra, le piogge lontane. Settimane di luce a venire lo rassicuravano e illuminavano il viaggio. Il passo procedeva sicuro e saldo lungo la strada bianca fra sterminati campi gialli di colza. La testa era vuota, lo sguardo in avanti, la fronte alta verso oriente. Raggiunse Kostrzyn nad Odrą che era sera e trovò una panchina vuota, accogliente in un parco cittadino dove si sistemò e dormì un sonno profondo fino alle prime luci dell’alba. Si alzò, si lavò il viso a una fontana, passò da un panettiere, si rifocillò con due calde brioche con l’uvetta e riprese il tragitto. Il sole alto nel cielo illuminava il mattino mentre il pensiero andava alla città in cui aveva vissuto per oltre sette mesi, al lavoro che aveva fatto pulendo case di ricchi estranei, di coppie di gay annoiate che lo spiavano mentre in estate con la canottiera madida di sudore passava infiniti aspirapolvere lungo infiniti pavimenti di legno di rovere, di vecchie ricche vedove che in segno di affetto gli lasciavano mance spropositate per sentirsi utili o per carenza di affetto o mancanza di attenzione, di paranoiche zitelle che lo lodavano per quanto fosse bravo a pulire. Ogni tanto invece la mente andava al bellissimo ragazzo del terzo piano della Raumerstraße che usciva di camera nudo per farsi notare mentre lui puliva, e ai suoi eccitamenti che non riusciva a nascondere, e doveva calmare con veloci masturbazioni nel bagno appena pulito. E pensando a tutto questo, calpestava metri e metri di asfalto, sabbia e ciottoli, di paese in paese. Attraversò l’Ucraina, scappando da Kiev dopo una notte tormentata, piena di cani che abbaiavano e ringhiavano. Passò da Rostov sul Don, città di cosacchi e di scambi di grano, porta fra oriente e occidente. Dormì fra le braccia di un forte marinaio, sognandolo cosacco, per lasciarlo dormire al mattino senza un saluto nel suo letto anonimo. Iniziarono le montagne dell’Uzbekistan e del Tagikistan, il freddo lo colpì all’improvviso; ma una vecchia donna dalle grandi mani rugose l’ospitò e lo rivestì di caldi giacconi e calzini del marito da poco scomparso.

Il Pakistan lo accolse la primavera successiva, pieno di colori, e il caldo nelle valli lentamente gli fece dimenticare del tutto il gelo delle montagne caucasiche. Giunto in India, si concesse il tetto di un treno, sul quale si riposò per chilometri e chilometri, circondato da occhi curiosi, lingue sconosciute, antiche credenze. A una stazione che poteva essere anche britannica, scese e, dopo nove settimane, seguendo vecchi sentieri di pellegrini, ai piedi del Monte Kailash, a 5210 metri sul livello del mare, raggiunse il monastero di Drirapuk.

Vi rimase a meditare per 69 anni. A tre giorni dal suo novantasettesimo compleanno, una mattina, in silenzio, riempì un vecchio sacco di iuta di tutti i suoi averi, scese a valle, prese un treno e poi un aereo. Tre giorni più tardi atterrò all’aeroporto di Milano. Da lì, in treno, raggiunse Bologna. Era una calda domenica di maggio, il sole era alto nel cielo, la primavera inoltrata, le piogge lontane. Si sedette su una panchina di Piazza Maggiore e, col cuore in gola, chiuse gli occhi.

Lo aveva salutato con un bacio timido, veloce, mentre in lontananza le luci del treno raggiungevano il secondo binario della stazione della metropolitana Schönhauser Allee. La serata era finita e faceva freddo a Berlino in quell’inizio d’anno. Salì sul treno e scomparve. Durante il saggio finale del Master di teatro fu scoperto dal più rinomato regista inglese vivente. Gli affidò prima una parte minore in un palco di provincia, poi un ruolo da protagonista in una produzione nazionale. Non uno, non due, non tre, ma tremila spettacoli si susseguirono in una lunga e brillante carriera di oltre sessant’anni di successi e onorificenze: ottenne un anno di contratto all’Old Vic, due anni all’Apollo Theatre, cinque al Globe, dieci in Germania, a Berlino, al Deutsches Theater, al Gorki e alla Schaubühne, poi in Italia, al Piccolo Teatro di Milano, dove trascorse i dieci anni più belli della sua vita. Per il gran finale rientrò a Berlino, al Berliner Ensemble dove, all’età di novantasette anni, concluse la sua carriera. Per sette decenni, il silenzio di quel binario in quella fredda serata d’inizio d’anno fu cancellato e l’oblio di quel treno partito per sempre riempito. La primavera era inoltrata in quella calda domenica di maggio, il sole scaldava la terra, le piogge lontane. Camminando lungo il secondo binario della stazione Schönhauser Allee, si fermò, fissò le rotaie vuote, e col cuore in gola, sentì le sue labbra, la pelle del viso, la barba pungente, gli occhi scuri, i capelli di pece; poi vide il viso e il suo corpo seduto in silenzio fra le alte cime innevate delle montagne tibetane. Un caldo brivido lo scosse, non credeva al suo sogno.

Si sedette sulla panchina del binario due della stazione Schönhauser Allee e sereno, insieme a Iustin, sulla panchina di Piazza Maggiore, chiuse gli occhi per sempre.  


In copertina, fotografia di Elina Brotherus

Gabriele Avanzinelli nasce a Lucca nel 1975; curioso e amante delle lingue straniere: nel 1996 si trasferisce con un progetto Erasmus a Berlino dove si stabilisce laureandosi in letteratura comparata e in anglistica/americanistica. Diventa insegnante di inglese e tedesco e consegue un Master in recitazione a Liverpool. Attualmente insegna inglese, tedesco e teatro in un liceo di Berlino. Per passione ama scrivere racconti brevi su persone che ha incontrato o che avrebbe voluto incontrare, inoltre adora camminare, recitare e nuotare. I sui racconti sono ancora tutti inediti. Fine n. 3 fa parte della raccolta inedita Le fini di Iustin, dieci storie su cosa sia potuto accadere a Iustin. 

Redazione

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