Perché ancora Socrate? Il metodo elenctico, la priorità definizionale e la fallacia – Parte II

Questo articolo è il secondo di due articoli correlati. La prima parte la trovi qui.

Ha ancora valore la priorità definizionale dell’elenchos?

Secondo Socrate, la conoscenza primaria di alcunché è di tipo definizionale, ossia una conoscenza intorno a che cosa una certa cosa sia.[1] In molti passi si evince questa predominanza della conoscenza definizionale rispetto a tipi di conoscenza diversi. Per esempio, nel Protagora (360e6-361a3, 361c1-6) e nel Menone (71a1-b8, 86d-e, 89b), Socrate sostiene che non è corretto indagare se della virtù sia predicabile un certo attributo senza sapere che cosa essa sia, perché solo sapendo cos’è si può sapere se ad essa quel predicato si possa attribuire con certezza o meno. Un altro passo interessante, in cui Socrate si lamenta del modo in cui si è indagato in merito a qualche predicato della giustizia senza sapere cosa essa sia, è contenuto nel passo finale di Repubblica I, che riportiamo di seguito:

[P]rima di aver trovato ciò che abbiamo ricercato all’inizio – che cosa mai sia il giusto –, l’ho abbandonato e mi sono lanciato nella ricerca se esso sia vizio e ignoranza oppure sapienza e virtù; infine, sopravvenuto un altro discorso ancora, secondo cui l’ingiustizia è più vantaggiosa della giustizia, non ho potuto trattenermi dal gettarmi su questo argomento abbandonando l’altro, sicché mi accade a questo punto della discussione di non sapere nulla. Finché infatti non so che cos’è il giusto, tanto meno potrò sapere se si trova a essere una virtù oppure no, e se chi lo possiede è infelice o felice.[2]

Il più importante dei brani platonici che permettono di attribuire a Socrate questo principio della priorità definizionale[3] è il seguente, contenuto nell’Eutifrone, in cui viene detto che se si conosce il modello (cioè, la definizione) che rende una certa azione santa, allora si saprà dire rispetto a qualunque altra azione se anche questa sia santa o meno:

SOCR: Allora insegnami quale sia mai questa idea in sé, affinché guardando ad essa e servendomi di essa come un modello, io possa dire santa quell’azione, tra quante tu o un altro facciate, che le somigli; non santa invece quella che non le somigli.[4]

Innanzitutto, qualche chiarimento è d’uopo. Qual è il tipo di definizione che Socrate ha in mente? Ci sono, infatti, molti tipi di definizione: nominali, lessicali, ostensive, stipulative, descrittive, esplicative, sostantive, ovvero reali.[5] Socrate, in particolare, si interroga in merito a definizioni sostantive. Definizioni il cui definiendum (l’oggetto da definire) si riconduce a un definiens (condizioni che definiscono) secondo una formula rigorosamente bipartita: (a) prima si riduce il definiendum all’analisi delle sue parti costituenti, (b) poi si fornisce una spiegazione dei costituenti.[6] In questo senso, una definizione sostantiva non si riduce alle definizioni presenti in un vocabolario, perché mentre il vocabolario offre definizioni lessicali o stipulative, la ricerca filosofica cerca di giungere alla definizione reale a partire da cui è possibile imbastire una teoria. Consideriamo il caso della conoscenza. Afferrare una definizione sostantiva, costruendo così una teoria della conoscenza, implica che la conoscenza si riporti ai suoi elementi costitutivi: essa è opinione, è vera ed è giustificata. Dopo di ciò, si spiega che cosa sia l’opinione, cosa significhi per l’opinione essere vera e che cosa sia la giustificazione.[7] Solo in questo modo si può dire di sapere che cos’è la conoscenza in sé e per sé.

Perché Socrate ritiene che la conoscenza definizionale sia così rilevante? Perché il tipo di spiegazione necessaria per rendere conto di conoscenze non-definizionali è una di tipo definizionale, ovvero una conoscenza più fondamentale.[8] Se fosse diversamente, si inciamperebbe in un circolo vizioso di reciproci rimandi. La competenza (expertise) che caratterizza il vero sapiente, l’esperto, è il possesso di una definizione sostantiva, ossia di una teoria che gli permetta di descrivere, spiegare e rendere conto dell’oggetto che gli compete e delle modalità in cui i suoi costituenti si danno nel rapporto con siffatto oggetto.[9] Non è sufficiente sapere che, per esempio, una reazione chimica darà luogo a un certo effetto. Bisogna sapere anche perché accade quel che accade. Ma quest’ultimo tipo di sapere è possibile ottenerlo soltanto se si è esperti a tutto campo nell’arte che si manipola.

Nel caso della virtù, colui che davvero sa cosa essa sia sarà in grado sia di offrire una spiegazione di che cosa la virtù è, sia di offrire una spiegazione affidabile in merito a come essa si possa acquisire e far fiorire. Ed è precisamente questo che i dialoghi socratici cercano di mettere in luce.

Il modo in cui Socrate giunge a una conoscenza definizionale è l’elenchos. Proposta una definizione in merito all’oggetto F, si cerca di testarla ponendola al confronto con le F-condizioni.[10] In altre parole, se si enuncia p, allora si cerca di controllarne la bontà e l’adeguatezza mostrando che p è coerente con q e r. Si noti che le F-condizioni sono conoscenze non-definizionali.

Per “conoscenze non-definizionali” si intendono proposizioni vere del tipo “a è F”, o “F è G”, in cui non viene stabilita un’identità tra F e qualcos’altro, bensì si attribuisce l’essere F a un oggetto o a una situazione specifica, oppure si attribuisce qualcosa a F stessa. Nel primo caso rientrano giudizi del tipo “aiutare questa signora a portare la spesa a casa è generoso”, “questo gatto è bello”, “il giudice è stato severo”. Nel secondo caso, invece, si operano giudizi come “la gentilezza è una qualità”, “la libertà è un diritto”, “se la virtù è conoscenza, allora è insegnabile”.[11]

A fortiori, Socrate testa le definizioni controllando se esse siano vere. E se lo sono, allora è chiaro che si è giunti a una conoscenza proposizionale e definizionale dell’oggetto etico sotto esame. Il solo metodo per giungere a una conoscenza etica, si ricorderà da quanto detto nell’Introduzione, è il metodo elenctico. Per cui, elenchos e conoscenza definizionale sono indissolubilmente legati, nel senso preciso per cui la seconda richiede il primo per poter essere acquisita. Inoltre, un’opinione può divenire una conoscenza (definizionale o non-definizionale che sia) se e solo se per quella opinione si può offrire “un argomento di ferro e di diamante” (Gorgia, 509a).[12] Non può apparire, dunque, anomalo il fatto che il valore di verità di una definizione sia connesso al valore di verità delle F-condizioni, dato che questa è la sola modalità di verifica adamantina applicabile a F, un oggetto etico per l’appunto.[13]

La risposta alla domanda che intitola il paragrafo è, quindi: sì. La priorità definizionale ha ancora valore, perché solo conoscendo la definizione di F si può correttamente predicare qualcosa di F o dire se qualcosa è F con certezza, cioè in maniera giustificata. Così come il misurare è una condizione sufficiente per rispondere alla domanda “questo tavolo è 110x80cm?”, così la definizione della virtù, per esempio, è sufficiente per rispondere alla domanda “quest’azione è virtuosa?”.

La lezione socratica, anche sotto tale aspetto, ancora una volta mette in luce l’importanza della precisione argomentativa e teorica, non solo per giungere a una conoscenza salda, ma anche per non cadere nelle trappole della retorica che fa uso di termini non preventivamente definiti, incappando in un singolare gioco di ambiguità e vaghezze che finisce, poi, per destabilizzare l’interlocutore quanto l’ascoltatore.

Perché ancora Socrate? Perché le sue lezioni sulla virtù, sull’argomentazione, che è il fondamento della vita politica democratica, e sulla priorità definizionale, che è il principio cardine di ogni impresa davvero scientifica ed esatta, rappresentano le basi irrinunciabili del nostro modo di condurre la vita: razionalmente, da esseri umani.

La fallacia socratica impedisce all’elenchos di funzionare?

Gregory Vlastos (2003, p. 89) riteneva che Eutifrone 6e3, riportato sopra, fosse il passo che indusse Peter Geach ad accusare Socrate di aver commesso la cosiddetta fallacia socratica.[14] Anche Robinson (1941, pp. 52-62) accusò Socrate di aver compiuto un errore simile. La fallacia socratica, secondo Geach e Robinson, consiste in due formulazioni non equivalenti ma compresenti:

(G) Se non so cos’è F, non so se qualcosa è F.

(R) Se non so cos’è F, non so se di F si può predicare G.

Nel primo caso, se non so cos’è il coraggio, per esempio, non potrò sapere se l’azione del generale che si sacrifica, affinché i suoi soldati possano fuggire dalla battaglia ormai persa e mettersi in salvo per un’eventuale riorganizzazione strategica, sia un atto di estremo coraggio o di grande stupidità. Nel secondo caso, non potrò sapere se il coraggio in sé sia una virtù, una qualità da lodare, o un vizio controproducente e da rifuggire.

Nei dialoghi socratici ci sono numerosi casi in cui Socrate e il suo interlocutore, pur non sapendo cos’è F, sono in grado di dire se qualcosa lo è o meno. Questa circostanza ha indotto i critici ad attribuire a Socrate una scorrettezza logica di cui, alcuni credono, non fosse consapevole. Se, infatti, Socrate sostenesse (G) o (R) e al contempo facesse riferimento a moltissimi casi empirici o a proprietà che la definizione di F deve implicare – come continuamente accade nei dialoghi, si pensi, a titolo di esempio, a Menone 72a-c – per refutare le definizioni proposte dall’interlocutore, allora (G) e (R) sarebbero false. Socrate, dunque, sarebbe auto-contraddittorio. Dunque, egli si impegnerebbe a sostenere la priorità definizionale che, però, sarebbe falsa. A rigor di logica, egli non dovrebbe essere in grado, non sapendo cos’è F, né di scorgere un esempio di F né di sapere quali qualità F possiede, né quali non possiede, né dovrebbe poter usare un controesempio contro le definizioni scorrette di F.[15]

Abbiamo visto quanto siano legati metodo elenctico e priorità definizionale. Risolvere quest’impasse, perciò, è di estrema importanza per non accorgerci, d’un tratto, di aver costruito un metodo di ricerca teoricamente inservibile. La risposta principale per contro-argomentare all’obiezione di Geach e Robinson è ritenere che Socrate non sostenesse né (G) né (R).[16]

Contro l’opinione che taccia l’elenchos di Socrate di fallacia, si è mosso, con particolare forza, Vlastos (2003, pp. 89-94). Egli riteneva che tutto ciò che Socrate si limitava ad affermare fosse quanto segue:

(V1) Se so cos’è F, allora so se qualcosa è F.

(V2) Se so cos’è F, allora so se sto predicando correttamente G di F.

Dal punto di vista teorico, (V1) e (V2) sono posizioni rispettabili e non coincidono, rispettivamente, con (G) o (R), bensì sono le loro implicazioni contrarie. Le analisi di Geach (1966) e di Robinson (1941), secondo Vlastos, non hanno alcun riscontro testuale.[17] Le presunte prove testuali, come quelle già citate contenute nell’Eutifrone, nel Menone, nella Repubblica I, non sono probanti. Perché nell’affibbiare a Socrate la fallacia definizionale non si è fatto altro che invertire una condizione sufficiente con una necessaria.[18] Un madornale errore logico-interpretativo, che si può risolvere solo ricorrendo a più accurate e rivedute prove testuali. Consideriamo il seguente passo, dal Protagora, in cui Socrate dice:

Ti domando tutto questo solo per il desiderio di indagare come stiano le cose riguardo alla virtù e che cosa essa sia mai. So infatti che, chiarito questo, diverrebbe perfettamente evidente ciò su cui io e te ci siamo entrambi dilungati, io dicendo che la virtù non si può insegnare, tu invece che si può.[19]

È evidente che qui si afferma proprio un’istanza di (V2). Chiarito che cosa sia la virtù, sapremo se essa è insegnabile o meno. Se si assumessero le versioni fuorvianti di Geach e Robinson, allora gli stessi argomenti elenctici non sarebbero possibili. Socrate, infatti, spesso argomenta a suon di analogie ed esempi per favorire nel suo interlocutore il raggiungimento di una definizione. La presunta fallacia socratica ostacolerebbe lo svolgimento dell’elenchos, cosa che di fatto non accade mai perché Socrate argomenta assumendo princìpi che lo pongono al riparo da siffatto paralogismo.

In quei passi, poi, in cui la fallacia socratica sembra essere accolta, Socrate parla per lo più con sofisti o allievi di sofisti. Questo è importante. Come si evince dal Protagora, infatti, Socrate spesso usa argomenti fallaci per porsi allo stesso livello epistemico del suo interlocutore. Rendergli più semplice la comprensione di un principio o di un concetto ricorrendo a mezzi disonesti è un modo per schernire, ironizzando metodologicamente, il grande sapiente che dovrebbe aver dinanzi. Bisogna, quindi, distinguere, di volta in volta, cosa Socrate si impegna a ritenere vero e cosa, invece, si limita a sfruttare per smascherare la pseudo-sapienza del suo interlocutore sofista.

Essendo la fallacia socratica il frutto di un’esegesi scorretta, l’elenchos resta un metodo argomentativo valido. Avendo legato ad esso la priorità definizionale, ne consegue che anche la ricerca scientifica può muovere i suoi primi passi a partire da definizioni chiare e distinte. Socrate, nuovamente, rientra sotto i riflettori. Ancora una volta, tra ironia e argomenti di ferro e diamante, è in grado d’insegnare a chi non sa nulla e a chi sa ancora poco come condurre la vita più bella: quella della ragione.


Bibliografia

Fonti primarie

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Fonti secondarie

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[1] Taylor 2019, p. 50.

[2] Platone, Repubblica, I, 354b5-c2, tr. ita. a cura di M. Vegetti, corsivo mio; si noti che Socrate parla di sapere, che è una condizione filosoficamente più impegnativa di quella opinativa e che richiede un certo grado di certezza e fondatezza.

[3] Si veda l’Introduzione al Menone, pp. 38-41, a cura di F. Ferrari per i tipi BUR per una panoramica sul principio della priorità definizionale.

[4] Platone, Eutifrone, 6e3-6, traduzione a cura di M. Casaglia.

[5] Per una panoramica approfondita si rimanda a Gupta, A., 2021, “Definitions”, in (ed.) E. N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, edizione estiva.

[6] Taylor 2019, pp. 55-56. Tra i requisiti che la definizione deve soddisfare si possono anche indicare quello di generalità e quello di esclusività: il primo garantisce che la definizione di F si applichi a tutto ciò che è F, il secondo che non si applichi a nulla che sia non-F. Per una discussione generale, si veda Woodruff, P., 2020, “Plato’s Shorter Ethical Works”, in (ed.) E. N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, edizione invernale.

[7] Platone costruisce una teoria della conoscenza secondo questi costituenti nel Teeteto.

[8] Wolfsdorf, D., 2004, “The Socratic Fallacy and the Epistemological Priority of Definitional Knowledge” Apeiron, 37 (1), pp. 35-68, in particolare pp. 59-60.

[9] Taylor 2019, p. 56: “the giving of definitions is what characterizes the expert”.

[10] Wolfsdorf 2004, p. 66.

[11] Beversluis 1987, p. 219 (gli esempi sono miei).

[12] Beversluis 1987, pp. 218-219, ricalca che per Socrate è sufficiente un argomento elenctico che abbia resistito a precedenti tentativi di confutazione per ottenere conoscenza di alcunché. Si veda anche Vlastos 2003, p. 67.

[13] Wolfsdorf 2003, p. 286.

[14] Geach, P., 1966, “Plato’s Eutyphro: An Analysis and Commentary”, Monist, 50, pp. 369-382.

[15] Taylor 2019, p. 52. Si noti che se (G) o (R) fossero vere, allora noi non potremmo sapere niente di alcunché a meno che non si possegga di esso una definizione. È una condizione controintuitiva e falsa, che Socrate dovrebbe riguardarsi dall’accettare. Possiamo sapere, per esempio, come usare il denaro in nostro possesso pur non disponendo di una definizione del denaro.

[16] Un’altra soluzione è affermare che, seppur Socrate sostenesse una forma di (G) o (R), la priorità definizionale non è l’oggetto di questi giudizi, come mostra Taylor 2019, pp. 53-54. Qui egli dice che tutto ciò che Socrate richiede al suo interlocutore, quand’anche fossero assunti (G) e (R), è l’intelligibilità del discorso. In altre parole: se io non conosco Marco e mi fosse chiesto “Marco ha i capelli biondi?”, probabilmente risponderei “Non so chi sia Marco, dovrei conoscerlo per poter esprimere un giudizio”. Lo stesso vale per i casi universali, quando si tenti di indagare intorno a oggetti come la virtù, la giustizia, il bello, il disutile, l’utile, il cattivo e così via. Per esempio, se ci fosse chiesto “il 2 è un numero primo?” non potrei rispondere se non sapessi cos’è un numero primo, ovvero un numero naturale divisibile solo per 1 e per sé stesso. In altre parole, il principio dell’intelligibilità del discorso è un requisito minimale da soddisfare affinché sia possibile dialogare l’uno con l’altro. Il principio dell’intelligibilità del discorso, inoltre, non implica quello della priorità definizionale (vale, però, nel contesto dialogico in particolare, il viceversa). In questo modo, la fallacia sarebbe un male prevenuto anziché risolto e Socrate potrebbe continuare ad argomentare come meglio crede.

[17] Della medesima opinione è Beversluis, J., 1987, “Does Socrates Commit the Socratic Fallacy?”, American Philosophical Quarterly, 24 (3), pp. 211-223. Per questioni di spazio, si è preferito evidenziare solo l’analisi di Vlastos.

[18] Vlastos 2003, p. 94.

[19] Platone, Protagora, 360e6-361a3, traduzione di M. L. Chiesara.

Matteo Orilia

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