Ho sempre ammirato il 15, soprattutto il modello storico, i finestrini che di mattina scorrono quel tanto da far entrare un soffio d’aria fresca, e poi le singole sedute di legno lucido, sistemate in un’unica fila, così che nessuno possa stare al fianco di un altro, quasi a ritagliare per i suoi passeggeri un viaggio silenzioso, una parvenza di solitudine nel mezzo della città. Ai tram di Torino invidio quel loro procedere su rotaie parallele, mai uno scarto, un’indecisione, un minimo tentennamento, e quel percorso a formare un anello ogni volta uguale, la possibilità di ripetere di continuo la stessa strada, senza sbagli. Ciò che la nostra vita non permette di fare…
Sospiro, i raggi del sole condensano i pensieri in gocce di sudore mentre socchiudo le palpebre e in lontananza scorgo la sagoma del tram: vibra nell’aria rovente che risale dall’asfalto. La fermata è quasi vuota. Una signora aspetta in piedi, occhiali da sole, un foulard a coprire il volto fino al naso e una mano sulla fronte per scrutare l’orizzonte intercluso dalla salita che porta a Superga. Due ragazzi sono stretti dentro un abbraccio, le loro labbra si sfiorano ancora un attimo prima di riassaporare ossigeno pulito e nascondere sotto una mascherina chirurgica il desiderio di baciarsi all’infinito. Lei stacca gli occhi da quelli di lui soltanto quando le porte a soffietto sbuffano il loro disappunto per essere state separate senza preavviso, poi gli afferra una mano, dita intrecciate, e si arrampicano insieme sui ripidi gradini. Attendo in disparte il mio turno, rispetto la distanza sociale, e con la coda dell’occhio scorgo il Ponte Sassi e il giardino dove ho incontrato Marilù per la prima volta. Quel giorno, come un marinaio incantato dalla voce di una sirena, ho seguito la sua chioma, tramutata dalla brezza in flutti di una tempesta che mi ha fatto naufragare con tutta l’anima, quasi che quei capelli ramati fossero fili ed io il loro burattino. Sono passati più di cinquant’anni da allora… Uno scampanellio riporta la realtà in primo piano. Mi avvicino al tram e prima di entrare nella carrozza inclino la canna da pesca per non spezzare le carrucole e il fusto sottile ripiegato in sé stesso. L’ho trovata ieri pomeriggio in cantina questa vecchia canna da pesca, nascosta dietro il bob rosso fuoco e uno scatolone colmo di fumetti. L’ho fissata per un paio di secondi, mi sono inginocchiato sulle piastrelle umide, e ho pianto per la prima volta dalla morte di Marilù, come se l’ultima settimana fosse stata una parentesi estranea alla mia esistenza.
Scaccio via i ricordi appena prima che le lacrime tornino a bussare e tentino di offuscare il mio precario equilibrio messo già a dura prova dalla ripartenza del tram. Mi avvio verso il fondo senza degnare di uno sguardo l’obliteratrice, l’età per timbrare il biglietto l’ho superata da un pezzo, e incastro il mulinello della canna tra la spalla sinistra e il bordo di metallo lucido del finestrino. All’esterno Lungo Po Cadorna scorre come un fuso, il tram costeggia il fiume per poi tuffarsi nei meandri di viuzze intasate di vita e riemergere senza fiato in piazza Vittorio. È la mia fermata. Cammino fino ai Murazzi, appena dopo il salto di bidone, dove l’acqua rallenta e pare sussurrare. Proprio qui Lorenzo, da bambino, si divertiva a cercare le camole mimetizzate tra i trucioli dentro la scatolina dei cerini che portavamo sempre con noi, poggiarle sul palmo della mia mano e osservare a bocca aperta amo e lenza che scivolavano leggere nel Po, il galleggiante a rammentare il punto esatto dov’erano caduti.
«I pesci poi li portiamo alla mamma?»
Mi sembra ancora di sentire la sua voce vestita di speranza. Io annuivo e con i piedi a mollo nell’acqua gli chiedevo cosa volesse diventare da grande. Lorenzo ci pensava un po’, lo sguardo rivolto al cielo, e rispondeva sempre un mestiere diverso, a volte astruso e bizzarro come sanno esserlo soltanto i sogni di bimbo e che, in quanto sogno, era destinato a rimanere tale. Al nostro ritorno, ogni volta, lo raccontavo a Marilù che rideva fino alle lacrime.
Ripenso a quei momenti, e ora come allora eseguo ogni minimo gesto, anche senza mio figlio. Afferro una camola, la pizzico nell’amo, lancio la lenza e aspetto. Le persone tutt’intorno si fermano, mi guardano. Qualcuno sorride, altri prendono il cellulare e scattano una foto. Dopo qualche minuto, vedo i Vigili parcheggiare e scendere dalla loro automobile. Si avvicinano.
«Signore, mi scusi… qui è vietato pescare!»
Io rimango immobile, la canna da pesca stretta tra le mani, lo sguardo al galleggiante perso nel riverbero del sole sull’acqua. Qualcuno mi sfiora una spalla. Mi volto. Chiudo gli occhi. Sorrido. Adesso dovrò tornare in una casa vuota, ore e giorni a masticare ossigeno, respirare nicotina e fissare fotografie sbiadite, Marilù, Lorenzo, momenti impressi in eterno sulla carta e nella mente. Diventare un animale che passa il tempo a leccare le proprie ferite per guarire, per dimenticare, o più semplicemente per anestetizzare il dolore, anche dove il sangue è già coagulo, usando una sorta di calmante, un anestetico, come la saliva… la saliva dei gatti…
Davide Ceraso (1976) nasce e vive a Cuneo. Dalle finestre di casa fissa il profilo delle montagne ma immagina le onde del mare. Scrive seduto sulle carrozze dei treni che lo portano al lavoro. E poi sogna. A volte anche di notte. Collabora con il sito HAND – Have a Nive Day – e un suo racconto è contenuto nel libro “Quartieri” edito da La Feluca Edizioni, altri sono apparsi sulle riviste Crack, Marvin, Voce del Verbo, Smezziamo, Spore, Malgrado le mosche, Neutopia, Rivista Blam, Bomarscé, La Seppia, Mirino, Tremilabattute e prossimamente su Formicaleone. A luglio del 2020 la DZ Edizioni ha pubblicato “La direzione della coccinella”, il suo romanzo d’esordio.