Mio padre il farabutto

Quel genio di mia madre ha detto: Esci un po’, che fai in casa?

Sicché sono uscito.

Fuori c’era una tempesta di vento senza pioggia e la felce in cortile svolazzava come la pappagorgia di Maurizio Costanzo. Ho messo la strada sotto ai piedi e sono andato da Rocchino, il fratello di Ginetto, che è una specie di boss della zona, con la coda e i capelli rasati sui lati e il naso che ci puoi appendere la giacca.  

Rocchino a casa non c’era, ha detto sua sorella Lina, che era bona, non c’è che dire. Aveva la quarta. Ma aveva anche una personalità se è per questo. Quando Ugo, il figlio di Marione, le ha pizzicato il culetto, lei s’è girata e gli ha detto se lo fai di nuovo, ti faccio un nodo alla ciola e ti vendo ai preti come eunuco, al che abbiamo riso tutti, però a metà, perché la parte del nodo alla ciola l’abbiamo capita, ma la parte dell’eunuco non tanto.

Ho proseguito il giro verso casa dell’Enrica. Enrica era famosa in classe perché una volta a novembre si era vestita con i pantaloncini e la maglietta e tutti a prenderla in giro: che credeva che era giugno?! E suo padre quando l’ha vista ha detto: ma ti pare modo di uscire? Vatti a mettere subito i calzini! Come se erano i calzini il problema. Nemmeno Enrica c’era. Allora ho camminato per mezzo paese e sono arrivato alla piazza, lì c’era Gigi Pesce che stava parlando di politica con quell’altro grosso che non so come si chiama e gira senza giacca anche col gelo e una volta è caduto e si è fatto un bozzo alla testa e poi si è alzato ed è andato a prendere un pasticciotto al bar e quello del bar gli fa ma guarda che hai una testa così, ti portiamo all’ospedale, no, fa quello, dammi un pasticciotto meglio, ché ho fame. Alla fine ce l’hanno portato all’ospedale, un medico sveglio gli ha controllato gli enzimi, così per caso, e il tizio aveva una ventina di infarti in corso.

Apparentemente il sindaco aveva dato un lavoro a un parente suo e questo non si fa, se sei onesto, ha detto Gigi Pesce, grazie alla minchia, ha risposto quello senza giacca, Allora nemmeno tu dovevi lavorare all’Inpisi se non era per quell’amico tuo. Che minchia c’entra, ha detto Pesce, guarda che io mi sono sudato la pensione. Ma se sei andato in pensione che avevi ancora i capelli neri, ha risposto l’altro. Che minchia vuoi, fa Pesce, quella è genetica, mio padre è morto che aveva un cespuglio in testa che manco la foresta Amazzonica.

Sono entrato nel bar e mi sono ordinato un chinotto e mi sono seduto al tavolino fuori. Mo’ quei due stavano parlando di Papin del Milan. È forte, diceva Pesce. Meglio Marco Simone, diceva quell’altro. Il chinotto faceva schifo, mannaggia a me e a quando ho visto il nonno che lo beveva! Ho lasciato la lattina lì come a un fetente che ci stai parlando ma ti sta sulla minchia e a un certo punto ti alzi e te ne vai e nemmanco ti giri più a guardarlo, sbem! lo molli così e sparisci come il rotolo alla Nutella la domenica pomeriggio. Allora, sai, mi sono incamminato verso il Cinema. C’era Il Silenzio degli Innocenti, niente di meno. Stavo decidendo se Jodie Foster era bona quanto la Lina, quando è uscita la maschera del cinema, uno con la panza di birra e il lupetto grigio, e mi ha fatto il giochetto del pollice mozzo che si nasconde dietro all’indice. Ci ho provato anch’io ma non mi è riuscito. Gli ho chiesto quando facevano il prossimo Rocky e lui ha detto che era più facile che il Lecce vinceva lo scudetto, poi si è sturato i timpani, ha scatarrato per terra e se n’è tornato dentro.

Il vento intanto si era calmato ed era gradevole starsene così camminando. Ho camminato per mezz’ora, niente popò di meno, e sono arrivato da Pietro che mi doveva ancora duemila lire, mille per un panino al salame e mille per delle figurine che erano doppioni ma gliel’ho vendute lo stesso. Ce li hai i soldi, ho fatto. Sei venuto apposta per i soldi? No, passavo da qui. No, tu sei venuto apposta. No, passavo da qui, ti ho detto. Comunque mio padre mo’ non c’è, ma se vuoi ci facciamo una partita al Nintendo. Vabbè, se ci tieni che ti umilio.

L’ho stracciato a Mario Bros 2, senonché abbiamo mangiato due girelle, e sua madre mi ha fatto tipo tredici domande: e come stavano i miei e come stavo io e dove vivevo ora. Scassaminchie di grande livello, però che fai, non rispondi? Dopo che ti ha dato l’orzata e due girelle, che a me l’orzata fa pure schifo e al massimo si beve d’estate, non d’inverno, e mi sa di gente vecchia che tiene i centrini sui tavoli.

Quando me ne sono andato ho guardato lo Swatch, si erano fatte le sette di sera e mi ritrovavo vicino a casa di mio padre. Non sapevo se bussare o no, alla fine ero stato fuori abbastanza e potevo pure rientrare se volevo. Mo’, non vedevo papà da parecchio, tipo tre settimane, anche se mi aveva chiamato una domenica, che da quando viveva lì io lo vedevo di meno, e quando lo vedevo non sapevo bene cosa dire o fare, cioè come ti comporti con uno che è stato tuo padre fino all’altro giorno e mo’ d’un tratto non è, e magari se gli gira, nemmanco scoreggia più davanti a te, per esempio. Comunque ho bussato e quasi non mi apre il farabutto, infatti mi ero già girato per andarmene che si è aperta la porta a vetri e ho sentito: Ah tu sei, e che fai qua?

Sono venuto a trovarti.

Bravo, paparino, entra entra, stavo guardando le notizie. E poi c’è pure l’Inter dopo, se vuoi rimanere.

Allora mi sono seduto sulla poltroncina accanto alla sua. La televisione, le poltroncine e il tavolo consumavano tutta l’aria della stanza. Come minchia si era ridotto papà a vivere in un buco come quello, che caduta di stile. Ma quello era un benefit del divorzio. Faceva pure una punta freschetto per via delle volte a stella alte alte. E il pavimento bianco era proprio miserabile, non c’è che dire. Beh, quasi sentivo lo scorno a stare in una stanza come quella, senza nemmanco un quadro e un tappeto. Che io dico, mettila una fotografia, no, qualcosa per abbellire, il minimo civile almeno! Però c’era una bella stufa a gas che puzzava più delle ascelle di Enrica dopo l’ora di ginnastica; apparentemente era a causa della pubertà, che non era una bella maniera di dire ‘povertà’, bensì un altro concetto completamente diverso che era in voga in quel periodo e lo sentivo ovunque nell’aria.

Alla TV Maurizio Mosca aveva l’affanno e diceva che secondo lui Savicevic non aveva nulla da invidiare a Platini. Quell’altro nello studio gli ha detto che non doveva bestemmiare, allora Mosca l’ha chiesto al pendolo, ha detto: Pendolo, balla, se pensi che Savicevic è un genio più grande di Platini. È quello si è mosso. Porca vacca! ho detto, papà, hai visto? Lui ha annuito, si è grattato la narice e ha acceso una Muratti. Quell’altro ha detto che Mosca l’aveva mosso apposta il pendolo e Mosca gli ha detto: Tu non devi mettere in dubbio la mia arte né la classe di Savicevic, dilettante che non sei altro! 

Come va la scuola? mi fa papà, sempre guardando la TV.

Più o meno bene, dai, ho preso ottimo in inglese e distinto in matematica, ma solo perché non c’ero quando ha spiegato le frazioni multiple.

Bravo, hai preso da me allora! Hai fame?

Sì, un po’ ce l’ho.

Ti aggiusto un panino col prosciutto e lo svizzero?

Vabbè, va.

La mamma sta bene?

Sì, apparentemente.

Allora significa che sta bene, ché quella mica fa finta.

Allora mentre che stava nel cucinino dietro al cartongesso che mi preparava il panino, gli ho chiesto se Ronaldo era più forte di Baggio.

Eh, sono fortissimi tutt’e due, ha detto.

Grazie alla minchia, devi sceglierne uno, che sennò è facile!

Allora preferisco Baggio. Però Ronaldo si può dire che è più completo.

È più ricco Berlusconi o Agnelli?

Berlusconi.

E quale è meglio, la BMW o la Mercedes?

La BMW.

Era il sogno di mio padre comprarsi una BMW serie 3.

A quel punto è squillato il telefono. Vado io, ho detto, e mi sono fiondato che manco Inzaghi nell’area piccola. Senonché sollevo la cornetta e dico pronto, ma nessuno risponde.

Chi era? fa papà

Nessuno.

Come nessuno?

Non hanno fiatato, scherzo era.

Evidentemente, fa lui.

Apparentemente, dico io.

Allora manco ero uscito dalla camera che squilla di nuovo, subito mi fiondo sulla cornetta e stavolta vedi se non mi sentono!

Pronto?

Pronto, c’è Michele?

Chi è?

Un’amica.

Mio padre non ne tiene amiche.

Chi è, fa papà

A te vogliono.

Papà è arrivato, ha preso la cornetta e ha detto: Vai di là.

È mancato saranno stati venti minuti buoni buoni, figurati che ho finito il panino, mi sono bevuto il succo alla pera e mi sono spazzolato mezza stecca di cioccolata e due fichi secchi con le mandorle.

Quando è tornato, apriti cielo! Non dovevi rispondere, ha detto, sono fatti miei, questione di riservatezza, et cetera. Mi ha sgridato, insomma, serio serio, con gli occhi sparati di fuori, quasi quasi che mi incuteva paura. Pesante proprio. E io sono diventato triste e zitto per tutto il primo tempo della partita che mio padre, figurati, mi ha chiesto perché stavo mogio mogio e gli ho detto perché l’Inter fa pena, così gli ho detto. E quello mi ha dato ragione con la testa che faceva: Sì sì, è come dici tu.

Non vedevo l’ora che veniva l’intervallo per squagliarmela e così ho fatto. Non mi vede più quello, dicevo, mentre camminavo sul marciapiede e siccome ero distratto ho pestato una cacca di cane e ho cercato un po’ di erba per pulire la suola delle Reebok Pump che se mi vedeva mia madre era capace che me la faceva leccare a me la merda e non mi faceva entrare in casa, come se l’avevo fatta apposta. Solo che in questo paese, lo giuro, non c’è un filo d’erba neanche se ti spari, tutto asfalto e cemento.

Quando sono uscito nel vicolo accanto c’era un omone grosso e nero che fumava. Ho fatto ciao con la testa e quello non si è mosso, da in fondo al vicolo venivano voci di altri uomini che stavano bevendo Dreher, c’erano ventinove bottiglie vuote sul tavolo di plastica rosso e due di loro stavano giocando a carte e tutti gridavano e ridevano come iene ingrassate da una settimana di caccia buonissima e ho pensato anch’io voglio ridere come quelli, sicché sono entrato nel circoletto e ho chiesto una Dreher; mentre passavo tutti mi guardavano con gli occhi delle mucche e c’era un bel profumo di fumo e grasso di carne bruciata. Ho tirato fuori mille lire e quello mi ha allungato la Dreher. Aprimela, ho detto.

Ne ho mandata giù mezza bottiglia, gli occhi mi lacrimavano e per poco non mi affogo. Mi è venuto fuori un rutto lungo quanto un film e mentre ruttavo ho detto: ‘Buona sta birra’ e tutti gli uomini hanno riso. Quella serata forse non era da buttare. Intanto la testa ha cominciato a girare e ho deciso che era meglio se me ne andavo.

Sono tornato a casa e mia madre ha detto: Beh, dove sei andato? E io: era meglio se stavo a casa.

Perché, non ti ha fatto bene?

Una meraviglia guarda! ho detto. Ho fatto una pisciata tale e quale alla Dreher e mi sono coricato. Ho sognato la Lina e l’Enrica che giocavano a pallavolo senza maglietta e io in alto che facevo l’arbitro e a un certo punto la Lina ha detto Che caldo, togliamoci anche i pantaloncini, e non vi dico come mi sentivo quando la palla cadeva a terra e la Lina la raccoglieva e diceva Punto per te, mi sentivo morire, però anche vivo, come quando emergi dall’acqua, o come quando la lava esce dal vulcano e tu corri sennò ti prende. Dopo il primo set, l’Enrica saliva da me sulla sedia alta e mi dava un bacio alla Basic Instinct e io dicevo: Anch’io ti amo, Sharon.

Quella sera l’ho seguito. Mi sono messo dietro il Kebab di fronte a casa sua e lui alle sette meno undici è uscito e ha acceso l’Audi a gasolio. Io avevo la Top Gun colorata che mi ha regalato quel tirchio del mio padrino, io volevo la Bianchi Predator, ma figurati se me la comprava, quello è capace che non mangia per non andare di corpo, tanto è spilorcio.

Quando è partito, gli ho dato un paio di metri di vantaggio e mi sono lanciato alle sue calcagna. Ha fatto il giro di Treccase, difatti ho pensato ma questo non sa manco dove deve andare. Per dire, siamo passati davanti alla cooperativa due volte, ho pure dovuto rallentare ché quello usa solo la seconda in paese e io ho dei quadricipiti che se voglio assumo Cipollini come stira-camicie. Non so se avete presente, sui miei quadricipiti ci devi mettere i segnali stradali per quanto sono grossi, e se mi gira, a Zanetti gli dico: Ehi tu fammi un massaggio, e lo umilio così. Comunque, alla fine si ferma sulla sinistra e da una casa a destra non mi esce una signora col caschetto? Capello verde moccio, occhiali, jeans, niente di che, anzi positivamente racchia. Vabbè. Sale su e sgasano via e a quel punto mi sono un po’ vergognato della situazione e vicino al ponte per Tutino, ho detto: Sai che c’è, lasciamo perdere, va, ho sterzato a sinistra e sono risalito verso Via Roma, rapporto duro, Gianni Bugno degno solo di ingrassarmi gli scarpini. E quindi quel vigliacco di papà, come lo chiamava mamma, c’aveva la zita. Un’amante in piena regola.  Alla fine, si poteva pure fare i fatti suoi, ché tanto non era più sposato. Solo che in questa sua nuova vita, mi chiedevo, chi ero io per lui, chi eravamo noi altri per lui, cioè quando ora lo guardavo mentre mi spiegava, diciamo, la difesa a tre con due terzini alti che sono pure centrocampisti, o parlavamo del tasso di cambio del dollaro, e avete presente quando parlando con qualcuno ti appoggi metaforicamente, con lo sguardo, al suo naso, alla fronte, agli occhi, allo spazio tra i denti, e prendi un difetto e lo fai come un posticino per la tua anima, a cosa appartenevo io ora che c’era una zita e lui con lei era diverso da come poteva essere con noi e sicuramente le aveva anche prestato qualche pezzetto di pelle o gengive su cui poggiarsi?

Ma questo era lo stesso padre che mi portava a tennis e mi guardava mentre le prendevo sei tre sei due, lo stesso che sulla litoranea la domenica di sole con Battisti ‘le anime non hanno sesso, né sono mie?’. Era lo stesso cristiano che si guardava li western con la Muratti in bocca? 

Se mia madre si faceva i fatti suoi e non mi diceva di uscire, ora io questa cosa non l’avevo vista e me ne stavo bello tranquillo. Ma no, bisogna starsene fuori quanto più possibile che sennò uno marcisce dentro. Ché io mai, nella vita mia, ho pensato che mio padre poteva stare con un’altra tizia diversa da mia madre. Sangue del diavolo. Ma come? dico, solo l’altra estate, quando già si erano separati, lui è venuto alla casa al mare e si sono chiusi in camera tutto il pomeriggio e a mia sorella ha fatto schifo e quasi ha pianto e io invece ho detto ma scusa se ci vogliono riprovare perché no? E poi se n’è andato e noi tutti tipo imbarazzati. Che significa questa storia? Che non significa? Che dobbiamo pensare? Come dobbiamo sentirci? Erano quasi le sette di sera, già avevo mortificato Giada a briscola e lei aveva detto Lampo e fulmine che culo che hai! E io me la sono risa dentro senza mostrare quasi nessun sentimento per non dare soddisfazione, e intanto le zanzare, ci stavano mangiando le carni e Giada si lamentava delle punture e indicava tutti i bubboni rossi. Quindi ho detto sai che c’è? Vado a calarmi, laddove calarmi significa farsi un bagno nel mare. Senonché ho preso gli scalini sotto i piedi e sono sceso.

L’acqua era calma e trasparente, un acquario pareva, il mare bianco era. Infilo i piedi dentro, sul muschio, che devi stare accorto casomai scivoli e ti rompi la testa. E mi sono messo a guardare le barchette all’orizzonte, in fondo ma non lontano lontano. A un certo punto sento qualcosa che mi pizzica l’osso della caviglia. Sangue di quel porco del diavolo! Questa è la volta buona che mi prende un accidente, e non mi sento stringere?! Guardo, e chi era? Un polpo attorcigliato alla caviglia! Quante confidenze che si pigliano ‘sti polpi, è incredibile.

Beh, mi metto a gridare e quasi mi sentono fino in Albania, ché io se voglio ciò la voce da soprano. Scalcio, mi dimeno come una macara pizzicata dalla tarantola. Meno male, che il polpo lascia la presa della caviglia e se ne scivola di nuovo verso l’acqua profonda e gli dico: Bravo, bravo, tornatene al buco che chiami casa! Cornuto! Nano di un polpo, come ti permetti?! E avevo il cuore che batteva come Lecce-Juventus allo stadio coi tamburi. Ho dovuto mettere la mano lì che se no quello se ne usciva dal petto. Poi mi sono calmato, grazie al cielo.

Mo’ un po’ mi vergognavo della reazione estrema che avevo avuto, mica ti ammazzava?! ho pensato, e ho riso tra me e me, che sembravo pazzo come Anthony Hopkins, e mi sono girato per vedere se nel frattempo era sceso qualcun altro e non facevo per caso una figura di merda solennissima.

Alla fine mi sono buttato in acqua. Che piacere, guarda, era come l’olio. Ho fatto quattro bracciate e quel suono di me che sbattevo, mi ha scaricato di tutte le energie e di nuovo calmo ero. Che pace, che goduria. Era calda, dopo tutto il sole che si era presa durante la giornata. Mi sono sistemato in mezzo, tra la riva e lo scoglio che c’è là davanti. Il cielo e il mare, non si capiva la differenza. Sembrava come quando uno si fa il bagno nel latte, come quando ti sdrai per terra e guardi il cielo e ti gira la testa, e dici: Qua sto abbastanza bene. In fondo c’erano le barchette con i pescatori piccoli piccoli e in fondo in fondo c’erano le navi grandi mercantili. Le barchette erano a metà tra me e le navi, non troppo vicino, non troppo lontano, ma quelli stavano lavorando, mica erano lì per calarsi in acqua come me. Quelli sì che erano cristiani di garbo che non pensavano alle carte, alle zanzare, all’Inter.

Mi sono girato verso la riva e ho guardato la casa mia. Pareva una fortezza, dietro alle canne, incollata alla roccia, che potevi pure pensare ma questa perché non si stacca e si mette a galleggiare nel mare? Ma la casa l’aveva fatta il nonno ed era bella solida, la BMW delle case era! Si vedeva pure la veranda dove poco prima stavamo giocando a scala quaranta, a briscola, aspettando che il sole scendesse, e papà e mamma là sotto si spicciavano di fare quello che dovevano fare.

Allora chissà cosa pensano quelle canne che tutto vedono, chissà se sanno tutte queste cose, ho pensato.

Me ne stavo fermo come una boa nel ventre del mare per capire a cosa era meglio che appartenevo. Io alla fine volevo solo una punta di serenità e di calma, niente di che, senza tutte queste parole farabutte che alla fine ti straccano.

Però, sai, nell’acqua io ero felice. Se, per esempio, Dio veniva e toglieva il tappo dal lavandino, io non mi ribellavo. O facciamo pure che veniva uno squalo e mi prendeva, mica combattevo, lo lasciavo fare, e gli dicevo: Ok saziati pure, con quei denti cariati che hai, prendi prendi, ché pure io sto bello sazio! Che tanto qui nessuno lo veniva a sapere, che tanto qui nessuno s’accorge di niente.


Vito Panico vive a Tricase. Ha studiato filosofia in Irlanda e scrittura per il cinema e il teatro presso l’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. Gli piace il mare, la parmigiana. Non gli piacciono i capperi. È stato stagista presso la Graham Greene Inc. e collaboratore presso la Heinrich Boll Limited. Suoi racconti sono apparsi su Altrianimali.it, Il Rifugio dell’Ircocervo e micorrize.

Redazione

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