Sergio Oricci, Volevo essere Vincent Gallo
Pidgin, 2021

Se ci fosse davvero una parola magica la userei o proverei a dare qualsiasi cosa per dimenticarla?
La piccola raccolta di sedici racconti di Sergio Oricci, Volevo essere Vincent Gallo, ha la peculiarità di trascinare in un mondo che, a dispetto della sua natura pop e stramba, cerca a tutti i costi di indagare cos’è la normalità. Che è anche dire, di capire come appartenere al mondo.
Potremmo considerarlo, questo, un tema generazionale, una cosa che noi ragazzi tra i venti e i quaranta anni forse sentiamo più della generazione dei nostri genitori. Ma questa categoria è certamente aperta a tutti coloro che, nella prospettiva umana, hanno sentito almeno una volta di non appartenere al mondo, alle aspettative della vita da adulti.
D’altra parte, se sentissimo di appartenere veramente al mondo non parleremmo per citazioni. E invece in questa fascia di età lo facciamo in continuazione, mentre i nostri genitori, pur avendo il loro tessuto di cultura pop a cui attingere (forse più interessante del nostro) non lo fanno come noi: noi parliamo buttando lì il riferimento a qualche serie tv, saga cinematografica, serie di libri ed è raro che qualcuno non colga il riferimento. Però, se queste citazioni non vengono neanche colte, anche appartenendo al nostro condiviso sapere pop, allora siamo in tutto un filone esistenziale inesplorato. Rassegnato, di nicchia, forse esasperato e mai esente da comicità.
Esempio emblematico di questo deragliamento dei riferimenti è la confusione di validissimi attori con le loro controparti più famose: ed ecco perché, nell’universo di Oricci, Vincent Gallo viene scambiato per Joaquin Phoenix, e Rachel Weisz, un’attrice straordinariamente profonda ma molto poco mondana, non viene neanche associata al suo viso. E non è un caso che spesso sono i nostri genitori a scordarsi il nome di un attore o a confonderlo con un altro, quando a noi sembra un abominio non identificarlo per l’intera cinematografia.
Il protagonista, più o meno riconoscibile in tutta la raccolta come voce narrante, è allora il creatore di un universo condiviso che vive in questo tipo di contesto: è colui che parla per citazioni non colte, che ha obiettivi incomprensibili, che solleva dubbi persistenti sulla realtà in forma di piccole ossessioni al limite dell’inutilità. Un essere di volta in volta anormale, più affine agli oggetti kitsch, ai famosissimi misconosciuti, all’arte contemporanea (“l’arte contemporanea, una liposuzione del cervello”), ai freak, alle ossessività infantili, che agli altri esseri, anche volendoli possedere per intero. Ma il suo sguardo è quello di un adulto disfunzionale o quello di un bambino che vuole preservarsi?
Era bello quando nel nostro mondo esistevamo soltanto noi. Niente uffici, nuove ragazze bellissime, birra artigianale e cose così. Cose così, cose da adulti. Gli adulti sono davvero soltanto dei ragazzi morti.
Che è anche chiedersi, attraverso la sua esperienza del mondo, cos’è poi la normalità? Appartenere o no?
Gli oggetti sono il collante di questa raccolta, al punto che l’usanza del protagonista, nel racconto Gli Oggetti, è drogarsene. Gli oggetti non sono particolarmente pregiati, non sono assegnati di un valore commerciale come nell’era vigente di Instagram, non sono brandizzati, e questo apre lucidi spunti di riflessione sulla realtà, e sulla natura dell’arte: nel racconto più toccante della raccolta, Ipertricoticofocomelico, farsi brand diventa un modo per sopravvivere alla stranezza, ma è davvero l’emblema di un presente che è velocissimo, e l’arte contemporanea deve esserlo ancora di più. A contare sono caleidoscopi con immagini di denti, pesci di vetro, caramelle di gomma, cucci giganti in vetroresina fluorescenti, luci al neon, laghi artificiali, le cose sintetiche tutte, che sono investite di un unico vero valore: gli oggetti sono importanti, rassicuranti, non si consumano. Hanno l’energia delle persone che non invecchiano.
Questa rassicurazione è facilmente derivabile dalle sensazioni di noi bambini cresciuti con le pubblicità dei giocattoli, trainati dal desiderio dei piccoli accessori di plastica, dei primi videogiochi, dei lavoretti fatti con la colla vinilica, degli adesivi da attaccare al diario, che non abbiamo mai lasciato; bambini non privi neanche di un’immaginazione salvifica sulle cose, fattore che non esiste forse più con la smaterializzazione dei desideri. Al punto da investire le serie tv e i film dello stesso valore e al punto da farne un manifesto esistenziale (Il rock’n’roll è un orsetto gommoso ricoperto di ketchup e glitter). Il culmine di questa appartenenza emotiva mai del tutto superata è lo scontro col concetto di hobby, non a caso piuttosto centrale nel mondo del narratore:
Gli hobby sono il male assoluto, hobby è una parola che vorrei cancellare dall’esistenza. È proprio il concetto di hobby che non capisco, qual è il vantaggio? Perché non fare qualcosa davvero?
Perché a volte finiamo per fingere che il lavoro da adulti che amiamo poco sia un hobby per potergli sopravvivere, e che la nostra passione inesprimibile sia il vero lavoro, il destino che afferreremo di lì a poco, ma in fondo mai. È una cosa, non priva di tragicomicità, con cui si empatizza molto bene, come le scorpacciate di caramelle.
A contare sono allora solo i piccoli personali appigli del protagonista sul mondo. Conta di più provare a capire l’ora esatta in cui le persone si sono lavate i capelli, cercare di capire se la vicina non abbia una gravidanza simulata, piuttosto che capire quando la nostra relazione con le persone che amiamo sia diventata un’incomunicabilità inspiegabile (Potrei simulare anche io una gravidanza per esistere un po’ di più). Fino a un picco narrativo in cui il narratore si fa donna, incapace di ritenere la sua maternità altro che un anacronismo, e la procreazione di una perdizione da rifiutare: poiché la vita non porta ad altro che al rifugio in quelle fessure d’esistenza in cui sentirci validati, in un mondo di cui non ci sentiamo mai la parte alla sua altezza.
«Infatti. È questa la cosa incredibile, a te essere normale viene del tutto naturale.»
«Anche tu eri così, una volta.»
«Non è vero. A volte ho provato a esserlo, non è la stessa cosa.»
Si arriva così alle figure più interessanti della raccolta, gli strambi per eccellenza, l’Ipertricoticofocomelico e Woofie Il ragazzo-cane, in cui la stranezza ha la sua ragion d’esistere senza discolpa. Ma per cui l’indagine sul senso dell’inadeguato raggiunge un picco emotivo interessantissimo: l’Ipertricotico, fatto diventare brand e opera d’arte contemporanea, su un palco di fronte a una donna che piange dalla commozione per lui, si chiede in fondo cosa succederebbe se si liberasse della sua peculiarità da show, se si radesse e indossasse delle protesi. C’è un piccolo film indipendente, Fur- Un ritratto immaginario di Diane Arbus, in cui Nicole Kidman incontra un Robert Downey Jr affetto da una malattia che lo ricopre di peli e che le spalanca il mondo degli emarginati. Nel film, il momento struggente in cui Robert decide di liberarsi di tutti i suoi peli è anche il momento in cui decide di abbandonarsi al suo destino condannato.
Se dunque ci togliessero il personaggio che ci siamo costruiti a suon di riferimenti e dettagli insignificanti, se ci togliessero la nostra mitologia, qualcuno rimarrebbe a commuoversi per noi?
Ha insomma ragione il bambino dentro di noi che sente l’inadeguatezza dell’età adulta, anche l’età adulta del mondo, o hanno ragione gli adulti che ci ritengono inetti, troppo rifugiati in un caleidoscopio di riferimenti che gli altri non colgono, troppo bombardati da altri riferimenti ancora? In fondo, proprio come tutte le versioni del protagonista, a volte ci scegliamo superpoteri neanche così eccezionali, e ci prefiguriamo destini giganteschi, come volerci fare il nostro attore preferito, a costo di comprare i suoi vestiti per migliaia di dollari e cambiarci i connotati; come decidere di deviare dalla direzione prestabilita, correre in una direzione diversa da quella genetica; ancora, come voler afferrare la persona che amiamo mentre lei se ne va svanendo sulla neve, come a volerle parlare davvero per capirla, come a diventare padri e madri. Ma non riusciamo a fare nulla di tutto ciò. Anzi, ed è la vera tragedia, non riceviamo in cambio ciò per cui nonostante tutto ci sforziamo di renderci all’altezza. Stante così questo mondo a cui aspiriamo, se avessimo una parola magica che fa fermare il caos e ci riallinea con i pianeti, le costellazioni, l’universo e tutto quanto il resto, la useremmo poi davvero o proveremmo a fare qualsiasi cosa per dimenticarla?
Chantal Salvinelli