Chagarrata

La pioggia aveva smesso di cadere e il vento soffiava teso e gelido, incurante del calendario, Amir avanzava, piegato in avanti sotto le raffiche, mentre le fronde degli alberi sibilavano come serpenti infuriati; le loro ombre si contorcevano sinistramente sulla strada. Da Valby Langgade girò a sinistra in Toftegårds Allé. Dietro l’angolo il vento perse di forza e Amir alzò lo sguardo al cielo. Ammassi di nubi nere come pece rotolavano velocissimi, nascondendo e svelando a tratti incredibili aiuole di cielo color indaco.

Si sentiva bene quella mattina, dopo tante settimane di ansia aveva finalmente avuto la notizia che stava aspettando con il cuore in gola: suo fratello stava tornando.

Sulhaima, la segretaria dell’Imam della moschea, glielo aveva detto la notte precedente, dopo l’amore, mentre con un dito gli disegnava il contorno delle labbra.

«È un segreto Amir. L’Imam mi ha raccomandato di non parlarne ad alcuno» aveva mormorato la donna.

«Youssuf atterrerà domani a Kastrup, alle 12:55, volo BA0814».

Gli aveva avvinghiato i fianchi con le gambe nude e, mentre con la lingua gli stuzzicava l’orecchio, aveva sussurrato:

«Vorrà farti una sorpresa, il fratellone».

Al pensiero del fratellone, il volto di Amir si atteggiò a un leggero sorriso di tenerezza. Youssuf era un fratellone sotto ogni punto di vista… Aveva ventiquattro anni, sette più di quanti ne avesse Amir e, a differenza di quest’ultimo, magro e delicato, era un ragazzo sovrappeso, con il corpo a forma di oliva, il viso paffuto incorniciato da una nera barbetta senza baffi. Il viso, largo e gioviale, era sormontato da occhi vivi, molto ravvicinati e irrequieti.

Ultimamente, però, il suo sguardo, sempre esuberante e curioso si era incupito, come spento dalla persistente frequentazione dell’Imam e dei vari predicatori che si avvicendavano nella scuola della moschea.

Un improvviso, indefinito senso d’inquietudine frustò la mente di Amir, che affrettò il passo verso la stazione della metro. Erano passate ormai svariate settimane da quando Youssuf era partito per una scuola musulmana, in Pakistan, nella zona del Bajur, al confine con l’Afghanistan. Dopo i primi frequenti contatti, le sue telefonate si erano diradate; le poche volte che era riuscito a parlargli, Amir lo aveva sentito sempre più distante ed evasivo, non parlava più del pellegrinaggio che avevano pianificato con tanto entusiasmo per il prossimo Dhu l-Hijja[[1]] e, alle domande circa il suo rientro a Copenaghen, le risposte si erano fatte sempre più ambigue ed evasive.

Amir cominciava a essere tormentato da un senso di sottile apprensione, sentiva nelle parole del fratello l’odore pesante dell’intolleranza e del fanatismo.

       Anche il suo modo di parlare stava cambiando, le sue frasi erano diventate un crogiolo di accenti ed espressioni con connotazioni egiziane, saudite, yemenite…

      Mentre l’aria continuava a spazzare la strada deserta, Amir girò a destra in Mellemtoftevej e scorse poco distante l’insegna della stazione di Valby; si affrettò sotto la luce mutevole del sole che galleggiava slavato tra schiere di nuvole nere impazzite sotto il vento.

      Entrò nell’atrio deserto, percorse i lunghi corridoi mal illuminati fino alla banchina della linea B e sedette nel gabbiotto di vetro in compagnia di un barbone ubriaco che biascicava oscure maledizioni all’indirizzo di un non meglio identificato Peter. Sull’altra panca sedeva una silente coppia di mezza età dall’aria stanca e rassegnata.

Era la prima volta che i due fratelli erano rimasti separati per un periodo così lungo. Erano cresciuti insieme alla dura scuola dei campi profughi palestinesi, abbandonati a sé stessi. Il padre, un rottame d’uomo, non era stato fortunato come i morti ammazzati nella strage di Shatila, no, lui era sopravvissuto alle orribili mutilazioni subite; gli avevano mozzato il naso, le orecchie, la lingua; aveva inoltre subito varie amputazioni agli arti. Curato alla meglio, era stato trasferito con la famiglia nel campo profughi libanese di Naher al-Bared, dove passava il suo tempo zoppicando per le stradine del compound, biascicando misteriosi suoni. I due buchi nerastri, dove una volta era stato il suo naso, spurgavano pus e muco in continuazione. Il suo aspetto raccapricciante spaventava e al contempo affascinava i bambini del campo, che lo seguivano a frotte, in nugoli di polvere, lanciandogli sassi e parole di derisione.

     Si era impiccato una notte, mentre la famiglia dormiva accampata nella baracca. Il cadavere era rimasto appeso alla trave del soffitto per quasi dodici ore, avvolto in una nuvola di mosconi, con gli escrementi che colavano a terra lungo il moncherino del piede, prima che le autorità del campo concedessero il permesso di rimuoverlo.

     La madre, alcolizzata cronica, era anche lei una sopravvissuta alla carneficina di Shatila: tre giorni di stupri subiti a opera dei falangisti libanesi e di compiacenti militari israeliani. Nonostante le traversie, aveva conservato un corpo appetibile, che lei concedeva agli uomini che volessero approfittarne, per denaro, e forse anche per disperazione, per punirsi di esser sopravvissuta… Forse, semplicemente, per non pensare.

     Intossicata dal pessimo alcool di contrabbando che circolava nel campo, subdolo anestetico dello spirito, passava buona parte della giornata relegata nella baracca, in un angolo riparato da una tenda, a soddisfare le voglie dei suoi clienti.

     A pochi metri di distanza, i due bambini, Youssuf e Amir, avevano fatto il callo a quel turpe viavai, ai grugniti che provenivano da quella tenda celeste. Spesso spiavano dagli interstizi e, in cambio di pochi spiccioli, raccontavano ai loro amici quello che vedevano. Un giorno, i rumori che arrivavano da dietro la tenda celeste si fecero orribili rantoli agonici che terminarono quando un omone barbuto scostò la tenda e barcollando, una bava verdastra gli colava lungo il mento, uscì dalla baracca, con il membro penzolante. Quando i due fratellini si avvicinarono alla branda della madre videro un volto bluastro, sfigurato dal dolore, una lingua enorme, nera, che penzolava su un lato e gli occhi fuori dalle orbite, come due biglie di vetro opaco. Quell’uomo, pieno di alcool e cocaina, l’aveva strangolata, per godere degli spasmi e delle contrazioni dell’agonia.

    A tali pensieri, Amir sorrise mestamente, con amarezza: avevano trascorso la fanciullezza all’inferno, innocenti esche in pasto alla violenza e alla miseria morale più cieca. Se lui, Amir, era uscito indenne dall’orrore di quei campi, lo doveva alla protezione e alla dedizione del suo fratellone Youssuf, suo paravento e difensore, che portava sul corpo, sul viso e nell’animo una dolorosa ragnatela di cicatrici. Ancora oggi, ad anni di distanza da quella dura scuola di vita, quando vedeva un qualunque sconosciuto avvicinarsi a suo fratello, Youssuf serrava d’istinto i pugni, pronto allo scontro.

    Amir ricordò gli anni in cui suo fratello lo trasportava per il campo a cavalcioni, aggrappato alla sua larga schiena, una simbiosi del corpo e dell’anima, un unico essere, bicefalo, che gli abitanti del compound chiamavano Chagarrata, il dio dalle due teste e quattro braccia. Usciti dalla loro baracca, Youssuf soleva volgere la schiena al fratellino, curvo in avanti, le braccia protese all’indietro, a semicerchio.

«Su Amir, salta! Dai, dai, dai…» e Amir saltava, aggrappandosi fiero e orgoglioso a quella schiena umida di aspro sudore, batteva la mano destra sul fianco del fratello urlando:

«Al galoppo! Vai!» e Youssuf, caracollando come un cavallo riottoso, si lanciava nell’ostile ventre del campo. Quella simbiosi da creatura mitologica rendeva i due fratelli oggetto delle crudeli attenzioni del cencioso nugolo di ragazzi che vivevano tra i sassi e la sabbia del campo, branco di iene dure e spietate, denti affilati come lame, occhi freddi color del mercurio che ti gelavano il cuore e ti dicevano:

«Vaffanculo, fottiti!».

I figli del mostro e della puttana impararono presto a respirare l’acido fetore dell’intolleranza e del disprezzo. Sofferenza che si tramutò presto in paura, questa già più tollerabile; poi, l’istinto di sopravvivenza cambiò la paura in distaccato cinismo.

Youssuf intuì presto che sopravvivere significava nascondere sofferenza, paura, dolore e umiliazione. Rimase solamente cinica consapevolezza. Tutto il resto diventò una nuvola di nebbia da attraversare con gelida noncuranza.

Mentre guardava la schiera dei binari illuminati da una sporca luce giallastra, Amir ripensava ai lunghi pomeriggi polverosi trascorsi con suo fratello dietro le baracche del campo, quando Youssuf cercava di insegnargli a lottare e difendersi, indicandogli i punti del corpo più vulnerabili, come utilizzare qualunque oggetto atto a ferire: pietre, schegge di legno, chiodi. Lui, Amir, di un’intelligenza viva e sensibile, così gracile e mite, non comprendeva perché dovesse imparare a far del male, e dopo un po’, con l’animo lacerato, si accucciava a terra, ansante, gli occhi pieni di pianto e paura mentre suo fratello gli urlava addosso con rabbia impotente:

«Dobbiamo sopravvivere, Amir, restare vivi!» poi Youssuf si calmava, gli cingeva le spalle e gli diceva:

«Io sono solo rabbia e muscoli, ma a te Allah ha dato un cervello magnifico e io ti prometto che tu diventerai qualcuno… Un grande avvocato, un ingegnere, uno scienziato. Te lo prometto, fratellino».

Dopo la perdita dei genitori, i due ragazzi vennero affidati alla Mezzaluna Rossa[[2]]. Iniziò così il loro lungo viaggio attraverso il difficile mondo delle organizzazioni assistenziali. Fu soltanto dopo vari anni e molteplici passaggi da un’istituzione all’altra, col terrore di essere prima o poi separati, che i due fratelli furono rintracciati da un cugino del loro padre e condotti in Danimarca, dove furono affidati alle cure dell’Imam della moschea di Valby.

I fari del treno lacerarono l’aria polverosa, puntualissimi, e si avvicinarono silenziosamente alla banchina. Amir e la coppia silenziosa salirono su un vagone completamente vuoto, abbandonando l’ubriaco alle sue allucinazioni. Dopo il cambio alla stazione centrale, la navetta lo condusse in pochi minuti all’aeroporto di Kastrup. Entrato nell’ampia hall del terminal 3, Amir si diresse verso gli schermi che annunciavano partenze e arrivi… Eccolo là, volo BA0814: atterrato!

     Accanto al numero del volo, il simbolo lampeggiante di una valigia indicava che i bagagli erano già sul nastro girevole. Si avviò impaziente verso il cancello di arrivo, dove la solita folla eterogenea attendeva l’uscita dei passeggeri: uomini d’affari con la ventiquattr’ore, la ragazza che si getta tra le braccia del giovane innamorato, la famiglia che spinge carrelli stracolmi di valige… Poi, finalmente, dietro una torma di monache violacee, ecco spuntare l’alta figura di Youssuf. Era dimagrito, la barba era più corta del solito e i suoi occhi avevano un’espressione seria e decisa. Indossava dei pantaloni neri, una maglietta blu e un ampio giaccone nero. Mentre Amir si avvicinava, fendendo la folla, Youssuf appoggiò a terra il borsone, chinandosi per aprirne la cerniera. Fu in quel momento che Amir spuntò alle spalle del fratello, piegato sul bagaglio; la vista dell’ampia schiena riportò alla mente del giovane l’antico gioco del campo profughi, quando aggrappato alla schiena del fratello scorrazzava per le stradine polverose del compound… Chagarrata, il dio bicefalo.

Il ragazzo compì di corsa i tre passi che lo separavano da Youssuf e saltò a cavalcioni, gridando il vecchio incitamento:

«Al galoppo, vai, vai!» Amir non fece in tempo a percepire l’anomalia: invece di voltarsi a guardare chi gli fosse saltato addosso, Youssuf, con un movimento rapido e deciso, strappò qualcosa dal borsone. Poi si voltò, e l’espressione di quel volto gelò il ragazzo. Il viso del suo fratellone era una maschera di odio allo stato puro: gli occhi ridotti a due lame nerastre, le labbra aperte in un rictus orribile scoprivano i denti digrignanti. Durò solo un attimo e quell’espressione si tramutò in sorpresa, prima, e orrore dopo. La bocca di Youssuf si spalancò in un urlo primevo:

«Amir! Nooooo…».

Il rombo dell’esplosione cancellò quell’urlo e Chagarrata, il dio bicefalo, sparì in un lampo accecante, portando via con sé ventisette vittime sacrificali.

Notiziario CNN: breaking news.

A distanza di tre giorni dal devastante attentato all’aeroporto di Copenaghen, costato la vita a ventisette persone, la polizia danese ha identificato i due attentatori: si tratta di due fratelli di origine palestinese, Amir e Youssuf Jbril, residenti in Danimarca da cinque anni. L’attentato è stato rivendicato da un gruppo finora sconosciuto della galassia islamica. Sembra che l’esplosivo sia stato consegnato a uno dei fratelli, dopo lo sbarco, da un complice all’interno dell’aeroporto. Non è ancora ben chiaro quale sia stato il ruolo di Amir, il fratello minore, nell’attentato.

La Hibros Bank ha contattato gli inquirenti informandoli che, di recente, a favore del più giovane dei due fratelli, è stata versata una notevole somma di denaro proveniente da un non meglio identificato “Istituto di Studi Islamici” di Sana’a, nello Yemen.

 La polizia prosegue le indagini.

FINE


Luigi Lazzaro, dirigente di una multinazionale. Tanti anni in giro per il mondo, poi una sera decide di cambiar vita. Torna al mare della sua Pescara e scrive racconti e romanzi che nel giro di pochi anni ottengono riconoscimenti in vari premi letterari, tra i quali: Premio letterario Il Molinello 2014, Premio Città di Torino 2014, Premio Città di Livorno 2015, Premio Riviera Adriatica 2015, Premio Voci, Città di Abano, Premio Terre d’Aspromonte 2015, Premio La Pira 2015, Premio Cerchiara, Premio Delitto d’Autore, Il Molinello 2016, Premio del Leone, Premio Voci Città di Roma, Premio Michelangelo, Premio Giglio Blu Firenze, Premio Inventa un Film, Premio città di Ascoli (premio della critica), XXXVI Premio Letterario Città di Cava de’ Tirreni, Premio La Città del Ponte, Premio Giano Vetusto.


[1] Dodicesimo mese dell’anno lunare islamico, è il cosiddetto “mese del pellegrinaggio” e, in quanto tale, dedicato all’espletamento dei riti del pellegrinaggio.

[2] Il Movimento Internazionale della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa costituisce una tra la più grandi organizzazioni umanitarie al mondo.

Redazione

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