Fabio Stassi, Minimum fax, 2018
Saravà, estratto
Ve lo ricordate quel vecchio affondato in una poltrona?
Sì, sono io, introducevo uno dei più grandi sceneggiati della televisione italiana, l’Odissea. Era il 1968. Qualcuno di voi sarà stato un bambino all’epoca, di certo ne avrà ancora memoria. Una donna mi disse che da allora, per lei, Omero ebbe per sempre la mia voce. Una voce cavernosa e senza tempo. La voce eterna della poesia.
È stato uno dei complimenti più belli che abbia mai ricevuto nella mia lunga vita. In realtà mi è sempre piaciuto starmene seduto in una poltrona, a parlare di letteratura. Con il mio vecchio amico Jorge, nella sua casa a Bahia, ci passavamo intere nottate.
Quale Jorge mi chiedete?
Ma Amado, uno dei miei fratellini brasiliani. Il suo cognome era un participio passato e diceva quello che vogliamo tutti. È per questo che si scrive, soltanto per questo, per essere amati.
Quanto risate ci siamo fatti. Ci raccontavamo la vita, le sue stravaganze, i nostri leggendari colpi di fortuna, ma anche i suoi dolori. E per raccontarvi la mia, di vita, una poltrona è sempre un buon punto di partenza (…).
Sono sempre stato fiero di essere venuto alla luce nel luogo che aveva ospitato la più grande biblioteca dell’antichità: Alessandria d’Egitto. Vi sono nato nel 1888, il 10 febbraio, in una notte burrascosa, come in un libro. Dicono che l’8 sia il simbolo dell’infinito: nel mio anno di nascita ce ne sono addirittura tre. Per la verità quattro, perché il 10 febbraio fui registrato all’anagrafe, e sempre in quel giorno festeggiai il mio compleanno ma ero nato due giorni prima.
L’Oriente, si sa, ha mille e una notte. Quelle di Alessandria erano fatte di deserto, di miraggi, di una nudità immaginaria che innamora e fa cantare. I miei venivano dalla provincia di Lucca e avevano preso casa nel quartiere di Moharrem Bey, alla periferia della città, sull’orlo del deserto.
Moharrem Bey era una grande spianata dove per tanti anni muratori e terrazzieri avevano scaricato terriccio e rottami per costruire i palazzi dei signori di cui noi vedevamo soltanto il retro liscio e spoglio, i loro cortili, gli orti lontani. A sinistra correva la via ferrata, passava sotto un ponte, si curvava un poco per poi allungarsi sulla pianura fino al Cairo. Il tracciato dei binari delimitava il nostro sobborgo.
Era un quartiere povero, di ebrei e arabi e immigrati dall’Europa. Il vento portava sempre nel dedalo delle sue strade un odore di burro d’oca, di grasso di coda di montone. Ogni tanto, all’alba, dal braciere della moschea giungeva un’aria calda di legno aromatico. E la voce del muezzin, che chiamava i fedeli alla prima preghiera e dal minareto sovrastava tutte le casupole.
Ebbi una balia sudanese, e da noi venivano a fare qualche servizio una badante argentina e anche una vecchia donna croata di nascita. Mia madre la accolse come una sorella maggiore. Fu la mia prima tenerissima, espertissima fata. Mi insegnò a indovinare la meraviglia nascosta nelle parole e nei sogni. Le rughe le sciupavano e rimpicciolivano gli occhi, eppure di notte, mentre mi raccontava le sue incredibili storie, il suo sguardo conteneva l’universo, come il suo nome, Dunja. È a lei che dedicai l’ultima poesia e l’ultimo verso che scrissi in vita, la notte del 31 dicembre del 1969.
La mia casa distava quattro passi dalle tende dei beduini. Per vivere possedevamo un forno di pane, ma mio padre lavorava anche come operario e solo due anni dopo la mia nascita morì per le conseguenze di un edema nello scavo del canale di Suez.
Quando si perde un padre così da piccoli, la sua memoria mantiene in casa un lutto costante. Tutte le settimane, durante la mia prima infanzia, mia madre mi conduceva al camposanto. Per raggiungerlo, a piedi, ci voleva del tempo e si attraversavano quartieri quasi abbandonati.
Maria, mia madre, era una donna energica, che non si lasciava andare quasi mai alla tenerezza: ci pensò un poco se chiudere bottega, fare le valigie e ritornare in Italia, ma alla fine decise di andare avanti.
Prima di scrivere versi, ho imparato così a fare il pane. E forse è per questo che la poesia per me ha a che fare con la farina e con il lievito madre.
(…) Il nostro quartiere era distante dal mare, ma se ci serviva della legna per il forno, andavamo a comprarla al porto. Quella era per me la linea di un confine. L’orizzonte che conteneva l’Italia, quel luogo impreciso e perdutamente amato per quanta notizia ne avessi dai racconti in famiglia. Ogni tanto qualcuno faceva ritorno e noi ci precipitavamo ad accoglierlo.
Poi scoprii l’amicizia.
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
Di emiri di nomadi
Suicida
Perché non aveva più
Patria.
Fu il grande compagno della mia infanzia.
Enrico lo incontrai per caso, invece. Mi iscrissi a un circolo anarchico che pubblicava un settimanale di propaganda atea, il Risorgete. Lo distribuivano di domenica, alle porte delle chiese, dopo la messa.
Enrico era un toscanaccio come i miei antenati, a cui piaceva tirare sassate agli idoli. Socialista, era arrivato in Africa da mozzo e aveva ereditato dal suocero una segheria, l’aveva ingrandita e meccanizzata, ma invece di mobili ben lavorati vi fabbricava porte e finestre tutte sghembe e approssimate, e commerciava col marmo, e altri traffici sempre si inventava. Aveva bisogno di stare in movimento, e di avere spazio. Per questo aveva fatto costruire la Baracca Rossa. Una casa di legno, a due piani, ricoperta di lamiere. Il suo magazzino per i marmi e il legname, e anche la sua abitazione.
Per riconoscerla l’aveva dipinta di rosso, ma al piano superiore, sopra la segheria meccanica, aveva destinato uno stanzone, in realtà una specie di soffitta, a ritrovo di tutti i sovversivi di Alessandra d’Egitto. Bulgari, greci, francesi … Alessandria era allora la città più ospitale del mondo. Alla Baracca ci tenevamo assemblee, conferenze, feste, riunioni. Veniva gente d’ogni età e d’ogni paese: scrittori falliti, ribelli, apolidi, fuoriusciti. Presto via Hamman el-Zahab, per tutta quell’umanità che la frequentava. Insieme a Enrico avremmo potuto scrivere un’intera enciclopedia della stravaganza.
Con gli anarchici avevo avuto confidenza fin da bambino. Soprattutto con quelli toscani. Diversi di loro, evasi dal domicilio coatto, avevano frequentato casa nostra. La mia era una famiglia di solidi principi religiosi, ma non respingeva nessuno e rispettava chi, per le proprie idee, subiva l’esilio. Erano tempi tragici. Chi non riusciva ad adattarsi a tanti cambiamenti finiva per togliersi la vita. Ci si uccideva anche per nostalgia, per la disperazione di essere nati fuori dalla terra madre, per la coscienza di non poterle mai appartenere. Quest’angoscia è in ogni mio verso: l’impossibilità di mettere radici in un luogo che non si è abitato.
(…) Ricordo che accanto alla Baracca c’era un caffè in cui andavamo spesso. Il caffettiere greco che ci serviva si chiamava Platone. La Baracca Rossa e quel caffè furono la nostra Accademia. (…)
Guadagnavo intanto qualcosa curando la corrispondenza francese per conto di un importatore di merci dall’Europa, un certo Seeger, anche se il resto del tempo lo passavo alla Baracca, a lamentarmi di quell’impiego. Ma a un certo punto mia madre si stancò di tener testa a servi, fornai e garzoni, e anche di vigilare sul sonno dei pigri – il lavoro del pane è un lavoro notturno – e quando credette che fosse venuto pure per lei il tempo di riposare liquidò il forno. Il ricavato lo divise per tre. Una parte la tenne per sé, le altre due le affidò a me e a mio fratello in egual misura. Il nostro sangue proveniva da una razza parsimoniosa, era certa che non l’avremmo delusa. Invece io sbagliai un affare dopo l’altro e in pochissimo dissipai tutto il mio capitale. A ventiquattro anni decisi così di abbandonare l’Egitto e l’Africa e di trasferirmi a Parigi.
L’Italia non l’avevo ancora mai vista.
Era il meraviglioso paese del sentito dire.
Fino a quell’epoca sapevo di lei soltanto quello che avevo letto nei libri o imparato a casa o in collegio. Più che un luogo, era una lingua. Non lo si può spiegare. Conteneva tutta la mia memoria anteriore, dalla culla dei miei alla lontananza dei tempi.
Dall’Italia, per la prima volta ci passai in quel viaggio. Con mia sorpresa la scoperta più commovente non fu il mare, ma la montagna. La montagna che sta ferma contro il tempo, che resiste al tempo, che sfida il tempo.
Immagino che sia così per tutti quelli che da grandi vanno a scoprire di chi sono figli. Le abbracciai con gli occhi, tutte quelle montagne, e promisi di tornare. (…)
Ma avevo perso Moammed. Avevamo preso una stanza d’albergo al numero 5 della Rue des Carmes. Lui si era mutato il nome in Marcel, e si era riconosciuto nelle pagine di Baudelaire, sulla cui poesia discutevamo per nottate intere, ma non era riuscito a diventare francese. Per questo eravamo amici: la sua patria l’aveva abbandonata senza trovarne un’altra; la mia era appena una diceria, una penisola fantasma che non avevo mai conosciuto.
Lo trovarono morto sopraffatto dalla nostalgia, perché non seppe sciogliere / il canto del suo abbandono. Come morirà molti anni dopo, in un altro hotel, anche l’attore di etnia albanese che aveva interpretato Ulisse nello sceneggiato della televisione italiana. Insieme alla padrona dell’albergo, portai il suo corpo al camposanto di Ivry, sobborgo che pare/ sempre / in una giornata/di una /decomposta fiera. Il suo suicidio fu come un segno di gesso sul selciato.
L’anno dopo mi stabilii a Milano, dove trovai la nebbia, e finalmente pubblicai due poesie su una rivista. La prima si intitolava << Il paesaggio d’Alessandria d’Egitto >>.
Ma sopravvenne la guerra. (…) Quello che (…) quasi ci disorientò fu la facilità di ottenere delle licenze. Io le trascorrevo a Parigi. Spesso correvo a trovare Apollinaire. Alcuni giorni prima dell’armistizio, gli portai alcune scatole di sigari toscani che mi aveva chiesto, ma quando arrivai, la sua casa era immersa nel pianto. Il mio amico era appena morto. Ricordo che gli avevano coperto la faccia con un panno nero e che per le strade la gente gridava A mort Guillaume, a mort Guillaume. Per una straziante ingiustizia della coincidenza, anche lui si chiamava Guglielmo, come il Kaiser appena sconfitto. (…).
Nel 1921 mi fissai finalmente in Italia, come avevo sempre desiderato. Alessandria mi aveva insegnato la voce dei porti sepolti, Parigi l’autunno, il Carso il senso della pietra, ma Roma m’insegno l’orrore del vuoto. Così forte non l’avevo provato nemmeno nel deserto. M’innamorai di quella città, ma sopravvissi a fatica, soprattutto tenendo conferenze all’estero. In quel decennio nacquero i miei due figli, Ninon, e poi Antonietto.
Lentamente arrivarono i primi riconoscimenti, le prime traduzioni in altre lingue. Nel 1933 pubblicai Il sentimento del tempo e tre anni dopo il governo argentino mi invitò per il congresso del Pen Club. Fu durante quel viaggio in Sudamerica che l’Università di San Paolo del Brasile mi offrì la cattedra di Lingua e letteratura italiana. Mi ci trasferii con tutta la famiglia, e ci rimasi sei anni.
Il Brasile è una smisurata isola in mezzo alla nebbia dell’Oceano, ma non ha a che fare con nessun paradiso esotico.
È troppo azzurro questo cielo australe,
troppo astri lo gremiscono,
troppi e, per noi, non uno familiare …
La tristezza del suo popolo e della sua musica è la stessa tristezza di Orfeo e Ulisse, è la tristezza di chi è stato strappato alla sua terra e al suo amore. Non potevo immaginare che proprio lì avrei fatto l’esperienza più tragica della mia vita. Un’appendicite mi portò via Antonietto.
Cos’era la morte lo sapevo anche prima di perdere un bambino di nove anni. Ma da allora fu come se avessero reciso la parte migliore di me. Non è un dolore che si può comunicare o dal quale ci si può riprendere. I versi che scrissi furono l’unico modo che avevo per differire il congedo da mio figlio. Per questo dico che Il dolore è il libro che di più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d’essere impudico. Quel dolore non finirà più di straziarmi. (…)
Al ritorno in Italia, mi diedero la cattedra di Letteratura, a Roma, nel 1942. (…) Tutto il resto è stato solo il fiato sopravvissuto di un vecchio più vecchio di un sasso che si ostinò fino alla fine a cantare.
A riedificare umanamente l’uomo. A comporre il racconto d’amore d’un demente / ormai unicamente percettibile / nell’ora degli spettri.
Mi tolsi persino la soddisfazione di farlo per davvero un concerto, al Teatro Argentina, con il mio antico amico brasiliano Vinicius de Moraes, e Chico Buarque de Hollanda, Baden Powell, Toquinho, Sergio Endrigo … Tornavo alla musica, con i miei canti.
Vinicius aveva i capelli bianchi, legati all’indietro, la pancia in fuori, il viso largo. Io mi tenevo a lui sottobraccio. Dissero che sembravo un ginn del deserto, uno di quei folletti che muovono le fronde delle palme alle sorgenti e si mettono a bisbigliare cose impertinenti alle ragazze che vanno per acqua al tramonto.
Toquinho prese a suonare la sua chitarra, e io e Vinicius, seduti davanti a un tavolino, cominciammo a bere whisky, e a parlare, mentre la bossa nova ci avvolgeva. C’era dell’Africa su quel palco, ma c’era anche roba di un altro mondo, roba che non sapevi da dove venisse. Forse si veniva dal Brasile, dal paese di vattelapesca dove la gente doveva essere infinitamente più dolce e triste e allegra che da ogni altra parte a me conosciuta, scrisse venticinque anni dopo la mia morte un romanziere delicato e gentile, Maurizio Maggiani.
Vinicius, il negro più bianco del Brasile, cantava come se ti stesse dicendo cose molto personali. La sua voce era piena di fumo e alcol. La mia risaliva invece scura e remota dai polmoni rinsecchiti e dalle mie mani ossute. Recitammo i nostri versi, e Vinicius benedì la nostra vita con il suo << Samba da Bencao >>.
Saravà! Ungaretti, amigo meu.
(…)
Saravà, rispose il pubblico.
(…)
Poeti, poeti, ci siamo messe
Tutte le maschere;
ma uno non è che la propria persona.
Sì, sono stato un uomo di pena, fatto unicamente di sensibilità, ma ho vissuto tutto, fino al respiro finale, con sdegno e coraggio, le stelle polari delle mie azioni. Non sono mai diventato un intellettuale. Sono stato soltanto uno che ha molto amato, molto sofferto, e anche molto sbagliato, ma che non ha odiato mai.
Ora posso finalmente dire che
Lontano lontano
Come un cieco
M’hanno portato per mano.
Me, e il mio buio cuore disperso.
Fabio Stassi







