Quando arrivò la missiva, la donna stava zappettando l’orto. Spuntò fra una bolletta e una pubblicità. Una vera lettera, l’indirizzo vergato con una grafia ordinata che, anche se non ci fosse stato il mittente, non lasciava tanti dubbi: suo figlio. Perché le scriveva una lettera, e non un’email? O non le telefonava? Non aveva mai fatto nulla del genere.
La lasciò sul mobile dell’ingresso e continuò a dedicarsi all’orto, accaldandosi, sudando, sporcandosi di terra.
Poi, una volta in casa, si concesse un grande bicchiere di tè freddo, preparato da lei stessa al mattino presto. Infine, decise di leggere quello che il figlio aveva deciso di comunicarle tramite carta e penna. Sperò non fosse qualcosa di serio, brutte notizie, qualcosa che riguardava la sua salute.
L’inizio e il tono della lettera non annunciavano nulla di buono:
Cara mamma, spero non ti spiaccia ricevere mie notizie. Già, spero non ti spiaccia, perché so bene che non sono affatto il figlio che preferisci. So bene che non sono Erica…
Quattro fogli, pieni di accuse e recriminazioni. A quanto pare, il figlio la rimproverava perché non era mai stata una buona madre. Aveva preferito Erica – l’attrice di successo – a lui. Attribuiva a lei, usando parole in voga del gergo psicanalitico, le sue ansie, le sue frustrazioni, i suoi fallimenti.
La donna, a differenza del figlio, non aveva mai studiato molto. Non era sicura di capire fino in fondo quanto stesse leggendo.
Telefonò alla figlia.
«Che fai?»
«Imparo un copione.»
«È un brutto momento?»
«No. È noioso.»
«Marco è infelice.»
«Che è successo?»
«Io.»
«Non capisco.»
«Pare che sia sempre stato infelice. Perché ho preferito te a lui. Inoltre, mi accusa di essere una “filistea senza rima né ragione,” ma ti confesso che non riesco a capire cosa intenda.»
«Vuoi che parli con lui?»
«Credo di doverci parlare io.»
«Sta scrivendo la tesi, vero?»
«Penso di sì.»
«Sarà in tensione per quel motivo. Sono sicura che non pensa queste cose.»
«Ha scritto una lettera. Ha preso carta e penna, si è seduto, ha scritto la lettera e poi è andato fino alle poste per inviarmela. Ha avuto tutto il tempo di pensarci. Credo che le pensi.»
«Come va l’orto?»
«Mi rilassa. Pensi che dovrei scrivergli? Rispondere?»
«Non credo che dovresti farlo.»
«Cosa dovrei fare, allora?»
«Ignoralo. Gli passerà.»
«Mi accusa di non aver mai capito le cose importanti per lui nella vita. Le cose di cui si occupa. Mi accusa di preferire te a lui perché noi filistei siamo più impressionati dai successi di un’attricetta che da ciò di cui si occupa lui, anche se fa cose più importanti delle tue.»
«Mi ha chiamata attricetta?»
«No. Non proprio. Aspetta.»
La donna riprese il foglio. Andò al punto.
«Di una showgirl.»
«Non sono una showgirl. Ho fatto l’accademia.»
«Penso ce l’abbia più con me, comunque.»
«Ignoralo. Gli passerà. È sempre stato così.»
«Così come?»
La ragazza, se in quel momento non avesse avuto gatte ben più importanti da pelare, si sarebbe anche potuta considerare offesa dal modo di fare e dalle espressioni del fratello. Fra i vari termini che le vennero in mente, scelse quello che le parve più indulgente:
«Umorale.»
«Devo rispondergli.»
«Non farlo.»
Attaccarono il telefono simultaneamente. Non si salutavano mai.
Nonostante ormai su internet si trovasse tutto, la donna andò nello studio del marito per consultare l’enciclopedia che avevano acquistato da un venditore tanti anni prima.
Filisteo.
Si chiese perché il figlio la associasse a quell’antico popolo biblico… cosa c’entrava?
Marco stava terminando il suo dottorato in un’università di provincia. Lei non aveva mai capito bene cosa fosse un dottorato. Quando le sue amiche le chiedevano cosa stesse combinando il figlio, lei rispondeva:
«Si sta laureando.»
E loro:
«Ancora?»
Le sembrava di capire che il dottorato fosse una seconda laurea per persone particolarmente intelligenti. Di spiccata intelligenza. Come era sempre stato Marco, mai una fidanzata, una partita a pallone con gli amici, sempre col naso nei libri. L’enciclopedia, all’epoca, un investimento mica male, era stata acquistata per lui. Nonostante lui nella lettera sostenesse che non l’avevano mai capito, che non avevano mai fatto niente per lui, che (nello specifico) non avevano mai speso somme importanti come quella per far studiare Erica all’accademia, lei era convinta che lei e il marito avessero trattato i figli con equità. Era vero, avevano speso di più per Erica, ma il suo grande talento era stato riconosciuto fin dai tempi della scuola. Sarebbe stata un’ingiustizia non darle modo di continuare a recitare. Marco aveva sempre avuto modo di comprarsi tutti i libri di cui aveva avuto bisogno.
Lei, Erica. Brillante. Bellissima. La migliore. Sempre alla ribalta, al centro dell’attenzione, fin da quando eravamo piccoli…
Anche se era una filistea (cosa c’entrava poi?) aveva capito che Marco soffriva il successo della sorella. Ma, cosa poteva farci se lei aveva talento e lui si era scelto un destino più oscuro, sui libri? Le pareva che ormai, sopraggiunta la trentina, dovesse avere la maturità di accettare alcuni fatti della vita. Alla loro età, lei e suo marito avevano avuto sia Erica che Marco e avevano lavorato duramente per crescerli.
Non si rendeva davvero conto di tutto quello che loro avevano fatto per lui e la sorella.
Erica, invece, era sempre stata un po’ egocentrica, ma non era un’ingrata.
Si versò altro tè freddo, al tavolo della cucina, la lettera in mano. Pensò se fosse il caso di rispondergli, ma non era capace, come lui, di articolare i pensieri con la penna. Pensò di telefonargli, ma sarebbe stato strano, imbarazzante. E poi, per qualche motivo, rispondeva raramente alle sue telefonate. Eppure, lamentava di essere il figlio trascurato.
Rileggendo la lettera, capì. Sospirò. Un accenno alle ristrettezze a cui lo costringeva la sua esigua borsa di studio. Una metafora su come la pianticella, se non adeguatamente innaffiata, non avrebbe avuto modo di sbocciare. Una excusatio non petita su come non stava assolutamente sostenendo che lui avesse bisogno di un finanziamento dalla madre, perché lui era al di sopra di quelle questioni materiali. Anche se non aveva studiato, la donna comprendeva al volo le questioni, quando si andava al dunque. Era riuscita ad accumulare un gruzzolo che sperava di usare per andare a Valencia con le amiche, ma probabilmente avrebbe dovuto rinunciare. La famiglia è la famiglia. Viene prima di tutto.
Però, prima, voleva parlare di persona col figlio. Le sembrava che fosse il caso di capire cosa stesse accadendo nella sua vita. Forse era vero che l’aveva trascurato. Il senso di colpa, come il serpente della valle dell’Eden, fa sempre capolino, anche quando siamo fondamentalmente convinti di stare nel gusto.
L’autobus è un mezzo democratico. La donna faceva presto a stringere amicizia con gli altri passeggeri.
«Suo figlio studia?»
«Sì, sto andando da lui.»
«Cosa studia?»
«Storia.»
«Troverà lavoro?»
«Ha già una specie di lavoro.»
«Cosa fa?»
«Lo pagano per studiare.»
«Intende dire che ha una borsa di studio?»
«Non è proprio…» poi ci pensò su. Le pareva di capire che percepisse una borsa di studio, in effetti. «Comunque insegna già. Tiene un corso.»
«Perciò è un insegnante.»
«Sì, diciamo di sì…» disse la donna, sentendosi indifesa, non capendo anche lei del tutto. In effetti, anche lei non comprendeva esattamente cosa facesse Marco. Lui era stato molto chiaro, nella lettera, dicendo che nella sua vita non aveva trovato altro che incomprensione, da parte sua, di Erica, e anche di misteriose altre persone che ogni tanto facevano capolino fra le righe. Se l’era portata con sé. Ogni tanto la rileggeva, anche se in autobus le veniva un po’ di nausea. Cinque ore di viaggio. Per fortuna, la signora con cui aveva cominciato a parlare sembrava cordiale.
«Mio figlio lavora invece.»
«Sono contenta. Che fa?»
«È nell’azienda municipale.»
«Di cosa si occupa?»
«Computer. Lui ha studiato ingegneria informatica.»
«Sono contenta per lui» disse la donna, massaggiandosi stancamente gli occhi. Si chiese se sarebbe stato di cattivo gusto togliersi i sandali. Le pareva di cominciare a capire cosa intendesse suo figlio, quando diceva che era una “filistea.” Forse, intendeva dire una persona che si toglie i sandali nel bus. Però i piedi erano gonfi. Alla sua età capitava spesso. Non sarebbe stato male massaggiarli.
«È stata da suo figlio?» chiese alla donna con cui aveva attaccato bottone.
«Sì, mia nuora è incinta.»
«Sono contenta. Mai che i miei mi diano queste soddisfazioni.»
«Ah, perciò ne ha altri.»
«Una figlia più piccola.»
«Cosa fa?»
«È un’attrice.»
«Interessante.»
«Sì, fa teatro, televisione e cinema.»
«Come si chiama?»
«Erica.»
«Erica come?»
«Sposetti.»
«Sei la madre di Erica Sposetti?»
«La conosce?»
«Io e mio marito l’abbiamo vista in Arrivederci amore. Complimenti, è una bellissima ragazza. Un grande talento.»
«Sì.»
«Di successo.»
«Sta facendo molte cose.»
«In effetti vi somigliate, ora che ci faccio caso. Ci facciamo una foto? La madre di Erica Sposetti. Uao. È sulla cresta dell’onda.»
Le due donne si fecero un selfie.
«La metto su Facebook. Ti spiace?»
«No.»
«Comunque ha preso più da suo padre. Lui era un bell’uomo. Occhi azzurri, spalle larghe.»
«Non c’è più?»
«È morto quando i ragazzi erano ancora giovani. Mi chiedo…»
«Cosa?» chiese la donna, avvicinandosi, ponendosi in atteggiamento confidenziale.
«Praticamente li ho cresciuti da soli» disse la donna, sentendosi inumidire gli occhi, cercando di reprimere qualche lacrima. «Mi chiedo se sono stata abbastanza brava con loro.»
«Un’attrice celebre e un insegnante. Direi che vanno a gonfie vele.»
«Lei ha figli. Capisce che non si è mai…»
«No, certo» disse l’altra, guardando fuori dal finestrino. «Ucciderei per una sigaretta. Tu fumi?»
«No.»
«Mi chiedo quando quell’idiota si fermerà.»
«Ogni due ore ha detto.»
«Ha proprio un’aria da idiota. Perciò tua figlia conosce tutti gli attori famosi. Certo, lavora con loro.»
«Sono colleghi. Lei dice che sono persone normali. Per loro è un lavoro. Hanno figli, e tutto il resto.»
«Chissà che vita che fanno. Non come noi comuni mortali.»
«Penso che facciano una vita normale. Le spiace… se mi tolgo le scarpe? I piedi mi stanno uccidendo.»
«No. Certo. La mamma di Erica. Come posso negarti qualcosa?» disse la signora, continuando a sorridere. «Sai, anch’io ho una nipote» disse, prendendo il cellulare in mano «che lavora nello spettacolo. Lei però non ha mai avuto successo. Mi chiedevo… insomma, non è che le possiamo mettere in contatto? Magari diventano amiche. Così lavora anche mia nipote. Si sa che funziona così per avere successo, contatti, amicizie…»
«Mi dia pure il suo numero» disse la donna, sorridendo, chiedendosi se non si fosse aperta troppo con quella sconosciuta. Poco male. Non lo avrebbe mai passato a Erica.
«Spero che quell’idiota si fermi», continuò la donna, cercando il contatto per la nipote. «Lei è una di quelle, sa, che non sono inserite. Si sa che se non sei inserita non lavori.»
«No, certo…» disse la donna, massaggiandosi i piedi. Pensò che, alla fine, si parlava sempre di Erica e del suo lavoro. Forse Marco non aveva tutti i torti. Ma le persone sono fatte così. Alla sua età, suo figlio avrebbe dovuto farsene una ragione.
«Peccato che, impegnata com’è, Erica non avrà il tempo di fare una famiglia.»
«È giovane» disse la madre. «Si sta godendo il suo momento.»
«Sì, certo, capita una volta sola. Però, sa, poi da grandi diventa più difficile, se vuoi farti una famiglia.»
«Sì, penso di sì» disse la donna. «Quando nascerà suo nipote?»
L’autobus si fermò a una stazione di servizio. Ancora tre ore di viaggio. Dopotutto, se non avessero avuto i figli, di cos’altro avrebbero parlato?
Marco risiedeva in un dormitorio universitario appena fuori dal centro. Non sapeva che stava andando da lui. Le era sempre piaciuta quella piccola città, i vecchi palazzi beige e rossi, le strade in acciottolato, anche se non era comodo camminarci.
«Desidera?» le chiese il portiere.
«Sono qui per Marco, mio figlio. Sa se è in stanza?»
Il buonuomo telefonò. Parlottò.
«Sta scendendo.»
La donna si sedette a una panchetta di fronte al vetro della portineria. Aspettò per un tempo che le parve interminabile. Marco infine scese.
Lo trovò molto magro. Indossava jeans, una maglietta nera e una camicia aperta, sgualcita. Aveva la barbetta incolta e i capelli arruffati. Sembrava si fosse appena svegliato, anche se erano le undici del mattino.
«Che ci fai qui?»
«Scommetto che la tua stanza è un disastro. Mi fai salire?»
«Andiamo a fare colazione.»
«Ho già fatto colazione. Mi fai salire in stanza?»
In effetti, la vista era desolante. Il letto sfatto, i resti di vecchi take-away che si accumulavano sulla scrivania e per terra, strati di polvere sui mobili. Tutto ciò stonava coi dettagli sulle pareti, stampe che riproducevano i dipinti di grandi maestri dell’arte di ogni tempo.
«Dove tenete gli strumenti per pulire?»
«Penso ci sia uno sgabuzzino.»
Fece strada alla madre.
«Non sono granché» disse, prendendo in mano una scopa spelacchiata.
«Io devo andare in università» disse Marco, indossando una tracolla nera col computer e i libri.
«Bene. Ci vediamo lì per pranzo?»
«Va bene.»
La donna si dedicò alle pulizie. Ordinò e lavò tutta la stanza, poi pulì il bagno. Sospirò. “A che servono le madri, altrimenti?”
«Cosa ti andrebbe di mangiare?» chiese il figlio, quando furono sotto al suo ufficio, in uno dei cortili dell’università.
«Va bene la mensa dove mangi tu» disse la donna, frugando dalla borsa. Lì era pieno di fiori. Sentiva che le stava venendo l’allergia.
In mensa, presero il pasto e si sedettero a un tavolo vicino alla vetrina che dava sulla strada.
«Ho parlato con Erica ieri.»
«Come sta?» chiese il figlio. La donna notò che aveva gli occhi cerchiati. Aveva preso per sé un piccolo cartone di vino bianco.
«Bene. È preoccupata per te.»
«Non c’è niente di cui preoccuparsi.»
«Stai scrivendo la tesi?»
«Ci provo.»
«Di cosa parla la tua tesi? Non me l’hai mai detto.»
Marco storse il naso.
«Non ti direbbe nulla.»
«Mi piacerebbe saperlo.»
«È qualcosa di complesso.»
«Parlamene.»
«È difficile.»
«Fallo semplice.»
«Parla della storia. Degli uomini come esseri storici. Cioè, se siamo noi a fare la storia, o se è la storia a fare noi.»
«Credo di capire.»
«No, non penso.»
«Dovresti chiamare tua sorella ogni tanto.»
«So che è molto impegnata. Col suo gran mondo.»
«Ti vuole bene.»
«Solo perché è mia sorella.»
«Che intendi dire?»
«È costretta a volermi bere. Perché… è mia sorella. Insomma, è costretta della biologia. Se non fossimo fratelli non mi considererebbe neppure.»
«Non è vero.»
«Anche lei potrebbe chiamarmi, comunque.»
«Le dirò di farlo.»
«Fantastico» disse Marco, sorridendo in modo sarcastico, vuotando il bicchiere di vino.
«Non mi hai offerto neppure un goccio.»
«Non pensavo ti interessasse.»
«Cosa farai oggi?»
«Ho lezione.»
«Dovrai fare una lezione?»
«Sì.»
«Su cosa?»
«Perché ti interessa tanto cosa faccio, tutto d’un tratto?»
La donna prese dalla borsa la lettera.
«Tu mi hai scritto…»
«Non è così che funziona.»
«Non capisco.»
«Non puoi ignorarmi per anni, poi fare un’improvvisata, lavarmi la stanza e fingere d’interessarti a quello che faccio, affinché tutto ti sia perdonato.»
«Non fingo d’interessarmi.»
«No?»
«No.»
Marco sospirò.
«Tengo un monografico. Parlo dell’espansione commerciale dell’Olanda del ‘600 e il suo effetto sulle arti e sulla vita quotidiana. Ora sei contenta?»
«Sì.»
«Ho dieci studenti.»
«Saresti più contento se fossero diecimila?»
«Non capirebbero comunque. Nessuno capisce.»
«Tu capisci però.»
«Sì.»
«Tu capisci tutto.»
«Vado a prendere dell’altro vino.»
«Non dovresti bere tanto a pranzo.»
«Hai detto che ne volevi.»
«Ormai ho finito di mangiare.»
«Che fai ora? Torni a casa?»
«So che le lezioni universitarie sono libere. È vero?»
«Che intendi dire?»
«Mi piacerebbe sentire la tua lezione.»
«Due ore di noia. Come per il resto degli studenti. Svogliati. Disattenti. Dovresti vedere i loro volti. Sono lì solo perché hanno bisogno dei crediti.»
«Mi piacerebbe sentirti. Non so niente dell’Olanda del ‘600.»
«Be’, libera di annoiarti, se hai voglia. Non posso impedirti di ascoltare una mia lezione.»
«Non è colpa mia se le persone preferiscono andare al cinema. Guardare la tv.»
«No, certo.»
La donna prese i vassoi e li vuotò nel cestino. Marco, fuori, si arrotolò una sigaretta. Guardava nel vuoto.
«Andiamo in università?»
«Prima devo andare da una parte.»
«Mi dici dove fai lezione?»
«Si chiama “aula A.” È nel cortile con le magnolie, quello che ti piace.»
«Va bene.»
La donna lo vide allontanarsi. Vide che entrò in un bar. Si disse che doveva aver voglia di un caffè, dopo pranzo, e di non essere ulteriormente disturbato.
Tornando nei cortili universitari, notò un piccolo capannello di studenti vicino all’aula A. I dieci ragazzi di Marco.
Alla sua età, ormai la donna, che comunque era una persona espansiva, aveva perso ogni timidezza nel parlare con le persone.
«Siete qui per la lezione?» chiese ai ragazzi.
«Purtroppo.»
Tutti risero. La donna si dispiacque.
«Perché ridete?»
«Il prof è terribile.»
«Non è un prof, è un ricercatore» lo corresse un altro.
«Perché dite così?»
«Farfuglia. Perde il filo. Non si capisce quando parla. Inoltre, quando gli facciamo delle domande ci ignora.»
«Perciò queste lezioni non vi interessano?»
«In realtà sono interessanti» disse un’altra. «Il prof non è così male. Si vede che la materia gli piace. Solo che è timido.»
«Altro che timido. Secondo me è solo un idiota.»
Risate.
«Credo non gli piaccia insegnare, tutto qui» disse la ragazza. «Però è molto intelligente. Non a tutti piace insegnare.»
La donna si sentì rincuorata dal fatto che quella studentessa avesse, tutto sommato, una buona opinione del figlio. In effetti, Marco era sempre stato così. Ombroso, scostante. Il tipo di persona che non riesce a farsi piacere. Non doveva essere semplice, per lui, parlare in pubblico, avere a che fare con gli altri. Ma, che carriera avrebbe potuto fare, se non quella? Gli era sempre piaciuto tanto studiare. Si disse che non doveva essere facile avere dentro quel grande mondo e non riuscire a condividerlo con gli altri. Ma forse non voleva farlo. Non è questo il grande dramma della vita di tutti, che non riusciamo mai a volere il nostro bene?
Arrivò, odoroso di caffè e grappa. Gli studenti sciamarono dentro. La donna si sedette a uno dei primi banchi. Il suo udito non era più quello di un tempo.
«Sarai un bravissimo professore.»
«Non sarò mai professore.»
«Perché?»
«Ho troppi nemici in dipartimento. E non solo.»
«Nemici? Perché dovresti avere dei nemici?»
«Politica accademica. Non è qualcosa che sei in grado di comprendere» disse Marco, versandosi l’altra metà della birra, dopo aver bevuto la prima quasi in un sorso.
«Io ho trovato la lezione interessante.»
«Allora sarai stata l’unica. Gli studenti non facevano altro che sbadigliare.»
«Perché non provi a essere loro amico?»
Marco ghignò.
«Per quanto hai intenzione di trattenerti ancora?» chiese.
«Prenderò il pullman stasera.»
«Bene.»
«Non abbiamo veramente parlato.»
«Non abbiamo fatto altro che parlare.»
«Nella lettera mi dicevi che avresti bisogno di fare una vacanza a Oxford, ma la borsa non ti basta.»
«Non è una vacanza. Devo andare lì per fare ricerca.»
«Scusami, scelgo sempre male le parole. È per questo che dici che sono una filistea, vero?»
Marco massaggiò l’incavo degli occhi. Sembrò rilassarsi un poco. Sembrò leggermente pentito di come aveva trattato la madre, fino a quel momento.
«Come va col tuo orto?»
«Mi dà da fare.»
«Non stancarti troppo.»
La donna prese una busta bianca dalla borsa. La passò al figlio.
«Per il tuo viaggio di lavoro a Oxford.»
Marco aprì la busta. La richiuse. La lasciò sul tavolo.
«Sono soldi di Erica?»
«No.»
«Giura.»
«Lo giuro.»
«Non troverò nessun lavoro, quando avrò finito col dottorato. Non sono tagliato per la vita accademica.»
«Non puoi insegnare alle superiori?»
«Non sono tagliato per alcuna vita.»
«Cosa hai intenzione di fare, allora?»
«Qualcosa… di sicuro non sarò più di disturbo a nessuno, non ti preoccupare. Farò qualcosa per non essere di disturbo.»
«Non lo sei mai stato.»
Marco continuò a ghignare. Finì la birra. Mise la busta bianca nella sua tracolla.
«A Oxford ci sono i quadri di Vermeer?»
«A Londra.»
«Mi piaceva sentirti parlare di lui, prima. Io non so niente di arte. Papà invece era appassionato. Ricordi che ti portava alle mostre da piccolo?»
«Non ricordo nulla del genere. Solo stupide partite di calcio.»
«Ti portava alle mostre. Devi aver preso da lui.»
«Non posso aver preso da nessuno della nostra famiglia.»
«Sei ingiusto» disse la donna, stringendo la lettera dentro la borsa.
«A che ora parte il pullman?»
«Ancora un’ora.»
«Non posso farti altra compagnia. Ho le mie cose da fare.»
«Lo capisco. Mi puoi accompagnare alla fermata?»
«Devo correggere una tesi.»
«Sì, lo capisco. Mi accompagni alla fermata?» insistette la donna, alzandosi. Era stata seduta per tanto tempo in quell’aula. I piedi le dolevano più che mai.
Al ritorno, la sera in autobus, non attaccò bottone con nessuno. Telefonò a Erica. A differenza di Marco, lei rispondeva sempre. Era bello parlare con lei. Parlarono.
Domenico Santoro, nato nel 1986 a Ostuni (Br), dove risiede, laureato in scienze politiche e filosofia, scrive narrativa e poesia. Ha pubblicato poesie e racconti su la Repubblica (ed. Bari), A4, Grado Zero, Risme, Il paradiso degli orchi, Spore, L’ircocervo, Quaerere, Bomarscé, Voce del Verbo, Dimensione Cosmica, Avamposto. Nel 2021 ha pubblicato un romanzo (“Il posto delle cose”) con Placebook Publishing.