Non è la resina secca a tenermi incollata alla panca, né il timore della conoscenza. In fondo, la consapevolezza ha il dono di farti vagliare qualsiasi rischio, anche quello meno plausibile. Mi chiedo, se di questi tempi, succeda così in ogni ospedale. Il mondo è fuori. Le corsie interne sono libere dagli spettatori, gli ospiti scomodi non martellano di domande ogni anima al lavoro, il via vai dei parenti è invisibile, dentro.
Fuori è un’altra cosa. C’è la madre che non può vedere il figlio ma che si affaccia lo stesso alle finestre dell’ospedale. Sulla panchina di fronte alla mia, noto un signore di mezza età che sembra sorridere alla donna al suo fianco. Probabilmente è una smorfia, forse è costretto da una paresi facciale. Lo trovo decisamente strano visto che lei parla del motivo che la porta qui, da queste parti. È in attesa di una nuova medicazione, le si è rotta una ciste sul culo e non credo ci sia nulla di divertente. Un piccolo mondo qui fuori, dove i pazienti si affacciano alle finestre e lanciano qualcosa in una busta e giù c’è qualcuno che la raccoglie. Basta un attimo e sai della donna che aveva i dolori da parto ma non si dilatava, dell’uomo con quella malattia dal nome impronunciabile, del bambino caduto da un balcone. E sebbene le regole del COVID-19 la facciano da padrone, i problemi sembrano essere altri. Ti fermi qui, su questa panchina e in mezzo allo spartitraffico del parcheggio tre donne iniziano a parlare, i loro piedi allineati. Non ho mai capito come si possano indossare sandali alti in queste circostanze. Osservare i piedi muoversi mi dona una sensazione di sollievo. Il movimento sembra toccare anche me e mi lascio solleticare dall’impressione di potermi alzare ma poi mi accorgo di non avere abbastanza forza per staccarmi dalla panchina ed è tutta colpa della resina.
Il venticello comincia a soffiare, una donna bionda coi capelli decisamente corti ma molto elegante mi passa davanti e mi ostino a fissare i dettagli. È bella, con quei sandali verdi e quel completo bianco e penso sinceramente che solo lei avrebbe potuto indossarlo con tanta grazia. Ripenso allo scandalodel gratta e vinci rubato dalle mani del legittimo proprietario; quando chi si crede furbo sale su in sella ad un motorino e prova a fuggire lontano. Provo quasi un po’ di invidia, da qui non si può fuggire: qui si resta.
Sono rimasta anche questa volta, rendendo imbevibile il caffè. Tutto era freddo. La stanza troppo arieggiata, la bevanda ghiacciata, tu in tutta la tua rigidezza. Le tue parole erano sentenze inappellabili. Hai detto basta con la mamma, non è mai stato amore, che io sono solo un effetto collaterale. Sono rimasta a sentire tutte le voci che interrogavano i silenzi, senza implorare la mia presenza.
Mi chiedo se bisogna restare, solo se è qualcuno a chiederlo, mentre ogni poro della tua pelle vorrebbe evaporare. Ho studiato con attenzione l’evoluzione strana delle tue giustificazioni credendo di avere un problema con le bugie. Salvo poi apprendere di trovarsi dinanzi a ulteriori surrogati di scuse. Eppure ricordo la grande notte dei ventagli, con quell’afa di agosto. Avevo circa undici anni e mi rannicchiai in salotto dopo l’ennesima notte brava, in cerca di non so che cosa. Alla fine trovai un cumulo di foto ingiallite, staccate da qualche album e una serie di fogli da corrispondenza. Quella notte lessi delle lettere d’amore che mio padre, ai tempi del servizio di leva, inviava a mia madre. Una pagina solo, ogni volta poche parole con numerosi errori ortografici e, sul serio, pensai che un tempo si fossero amati. Se può essere davvero amore uccidere farfalle e spedirle in una busta da lettere.
Il telefono squilla all’improvviso e, così torno alla realtà. Mia zia chiede se ci sono novità.
“Se ci sono novità?” ripeto fra me e me. Si dice così solo da queste parti? La novità è che ho paura. Ho un terrore che dà fuoco alle vene. Liberarmi finalmente di un peso e non poterlo dire.
-Ci sono novità Francè? – richiede. E a dire la verità effettivamente ci sono. Solo che non riesco a proferire parola. Arrabatto frasi di circostanza solo con l’intento di riattaccare. Sento l’odore della casa in decomposizione. Pochi minuti fa ero in attesa come un parente stretto e persona da contattare in caso di novità. Ora sono figlia, non figlia, orfana già da tempo.
Non sapeva di che morte morire mio padre.
Ha scelto un giorno qualunque, durante una pandemia del cazzo, a settant’anni suonati. E mi vengono in mente proprio le sue parole quando a morire erano gli altri e lui che fosse sua madre o suo padre, il nipote o il fratello una volta appresa la notizia chiedeva “cosa si mangia stasera?”
Francesca Coppola. Napoletana di Portici, tenta di scrivere poesie da quando è nata. Ha pubblicato due raccolte: “Ultimatum dall’inverno”, Ensemble e ”Non togliermi il vestito”, Lieto colle. Suoi testi sono stati pubblicati sulla rivista Italian Poetry Review. Da pochissimo rincorre i racconti brevi che però non rincorrono lei. Ad ogni modo alcuni sono stati pubblicati su Malgrado le mosche, E(i)sordi, Birò con l’accento, Racconti con. Si reinventa ogni giorno ed ogni giorno ne è insoddisfatta.