Il Dritto e il Rovescio: possibili considerazioni su sei romanzi libertini – Parte I

Questo è il primo di quattro articoli correlati. La seconda parte uscirà lunedì 14 marzo.

Breve premessa

Il XVIII secolo, specie quello francese, rappresenta uno snodo cruciale per la comprensione dei mutamenti socio – culturali avvenuti in Occidente e sviluppatisi sino ai giorni nostri: la morte di Luigi XIV e la successiva scomparsa, da una parte, dell’assolutismo e, dall’altra, della legittima autorità della classe aristocratica (già esasperata durante la reggenza del Re Sole) e l’azione contemporanea di spinte individualistiche e rivoluzionarie, volte ad abbattere un sistema sociale ormai anacronistico, fecero sì che in Francia venisse a delinearsi sempre più compiutamente e con maggiore consapevolezza una nuova classe sociale, quella borghese, capace di assumere su di sé le responsabilità dei “tempi moderni”.

Non meno importante fu, poi, la seducente diffusione di pratiche e correnti filosofiche capaci di pensare all’individuo non più come mero oggetto in seno a un meccanismo universale e collaudato, ma come soggetto attivo e attivante all’interno di rapporti di forza mutevoli: il rango, decadendo, perse la sua funzione organizzativa a vantaggio della ragione e delle capacità evolutive da ognuno impiegate per ascendere la gerarchia sociale. La forza data dalla ragione, dall’audacia, dalla furbizia e dall’iniziativa si impose quale unico mezzo per controbilanciare lo stagnamento di una società, quella aristocratica, incapace di evolversi e di essere fautrice di sé stessa.

A queste rapide considerazioni, che fanno della borghesia – e del suo tessuto ideologico – i veri protagonisti del secolo, se ne possono aggiungere, tuttavia, delle altre che tracciano un percorso inedito e, per certi aspetti, sorprendente.

Il settecento, infatti, è anche il secolo in cui, parallelamente alla morale borghese, se ne affaccia un’altra apparentemente diversa e inconciliabile: è questo il secolo del libertinaggio più sfrenato, della continua ricerca del piacere e dell’oblio di sé; il secolo in cui marchesi, dame, conti e cavalieri, consapevoli della loro inconsistenza dal punto di vista istituzionale e politico, non possono che vivere nel lusso e nel traviamento morale, dediti alla voluttà e al godimento. Si tratta, credo, di un processo psicologico inevitabile e, anzi, necessario; un’operazione di rigetto a cui l’aristocrazia si presta per poter ancora trovare un senso alla propria esistenza storica, minata dal logoramento dei suoi valori e dall’avanzata della borghesia.

Non sorprende, dunque, che la maggior parte degli autori e degli scenari libertini siano di matrice aristocratica; ciò che sorprende, al contrario, è il substrato ideologico che tali autori celano nelle loro opere.

Questo è, infine, il soggetto del presente lavoro, il quale vuole presentarsi come un umile tentativo di lettura di una produzione letteraria complessa in un periodo storico altrettanto complesso.

Attraverso l’analisi testuale di sei romanzi del settecento, l’obiettivo è quello di mostrare l’allineamento alla morale borghese – quella, cioè, al tempo più forte e legittima – della condotta e dell’opera libertina, lontana, dunque, da potersi presentare come forza anti- sistemica basata su un’etica edonista da contrapporre all’ascesa borghese; i testi presi in considerazione vorranno dimostrare la presenza di una sovrastruttura borghese, inaspettata in un romanzo libertino, attraverso la quale diventa possibile individuare il substrato ideologico presente nell’opera: si tratta di un’azione volta alla presa di coscienza dell’attrattiva che la borghesia ha esercitato su una classe sociale, quella aristocratica, ormai disgregata e agonizzante con possibili chiavi di lettura che fanno del romanzo libertino, per certi aspetti, l’antesignano del romanzo moderno: si potrà, così, intendere il libertinaggio come postulato necessario che ha tentato di controbilanciare la morale borghese in ascesa attraverso una vivificazione di quanto quella stessa morale – individualistica e societaria – non poteva manifestare in virtù della funzione contrattualistica della società che proprio nel settecento si impone con straordinaria tenacia. Trova così giustificazione, ad esempio, la natura contraddittoria e complessa di una certa tipologia di libertino, tale solo nella sfera privata per non venir meno al contratto che lo lega alla società; ma al contempo, in una lettura prospettica, trova senso la sconfitta esistenziale che connatura la vicenda libertina, conseguenza dell’allineamento che la forza borghese ispirava a una classe delegittimata.

Ovviamente, le considerazioni proposte non vogliono, né potrebbero essere vincolanti e, anzi, sono frutto di un dialogo intrattenuto con i testi dal quale, si spera, possano fiorire altri punti di vista e altre chiavi di lettura su un periodo che, nella sua complessità, conserva sfumature ancora inedite e interessanti per comprendere i colori della nostra contemporaneità.

1. Libertinaggio e impianto borghese: considerazioni sulla sconfitta libertina.

L’insieme delle pratiche erotiche così come traspaiono nei romanzi libertini della Francia del XVIII secolo, a prima vista, sembrerebbe in totale antitesi con quanto la morale borghese, che proprio all’epoca inizia a farsi largo negli strati della popolazione colta e non, andava prefigurando: valori come quelli della famiglia, dello Stato, della religione – fondamenti su cui si baserà la storia politico – sociale europea successiva – andavano, via via, rafforzandosi con il potere, sempre più legittimato, di una società borghese pre – rivoluzionaria in via di sviluppo.

Apparirebbe, dunque, paradossale affermare che è proprio in seno all’azione libertina che nascono quei presupposti ideologici su cui, poi, la borghesia fonderà il proprio essere – inteso sia ontologicamente, sia materialmente.

Occorre, tuttavia, precisare che non tutto il libertinaggio era cosciente di questo lavorio sotterraneo e che, molto spesso, il libertino si poneva in aperta lotta con il mondo che lo circondava: in questo senso, si può parlare della stagione libertina come prefigurazione di quella dicotomica tra io e mondo che sarà così cara al romanticismo europeo e che verrà, tuttavia, rimaneggiata dallo stesso sotto un’ottica metafisica, anziché fisica, e titanica, anziché individuale.

Nel Romanticismo, infatti, verranno quasi del tutto dissolti i desideri della carne e la ricerca del piacere sarà piuttosto indirizzata verso un’ideale naturale che vuole l’uomo o nemico della natura (“Sol nel deserto tacciono i miei guari”, dirà Alfieri) o parte integrante di essa (si pensi all’Assoluto in Shelling).

Ma, fatta eccezione per questo cambio di prospettiva, anche il libertinaggio si è prefigurato come forza trainante lungo un tragitto che, a partire dall’epoca di Luigi XIV, passando per la Reggenza e giungendo a Luigi XV, ha mostrato tutte le contraddizioni di una società che andava mutandosi.

Non sorprende, per tanto, l’enorme fortuna che alcuni testi libertini avranno dall’ epoca romantica in avanti: Manon Lescaut, ad esempio, opera dell’Abate Prévost pubblicata per la prima volta nel 1731, trovò l’elogio di Villemain, Gustave Planche, De Musset, Michelet, Flaubert esattamente per il suo carattere dirompente e la forza della sua protagonista; così come l’intera opera di Sade, rigettata per secoli, troverà in Apollinaire un estimatore formidabile che ne inciterà, veementemente, la riscoperta.

Verrebbe da chiedersi, ora, per quale motivo testi fortemente radicati nella loro epoca (si pensi all’elenco di personaggi illustri del suo tempo che Diderot fa nel Nipote di Ramou) siano riusciti a vincere la prova del tempo e del suo immanentismo: è banale affermare che la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu da parte di un uomo del settecento, non è certo equiparabile alla lettura dello stesso romanzo operata da un uomo del nostro tempo: mutando i connotati storico – sociali di una determinata epoca, mutano anche le ricezioni di quanto, in quella specifica epoca, è stato prodotto, a maggior ragione se ad essere presi in esame siano testi che affondano i loro motivi nel mondo erotico, delicato all’epoca, ma incapace di stimolare, allo stesso modo, la fantasia (e, dunque, l’interesse) dell’uomo contemporaneo, ormai abituato a una presenza quasi ossessiva del sesso nella vita quotidiana.  

L’analisi critica che su queste opere è stata condotta nel corso dei secoli richiama, certamente, un interesse tematico che ha, come punto di riferimento, nella definizione di “romanzo erotico”, il tema tutto individuale che sta alla base di determinati connotati di singoli personaggi: la critica, cioè, si è più volte soffermata sulle capacità attrattive di singole figure, anziché basare la propria ricerca sull’insieme di contenuti veicolati dall’intera struttura romanzesca, la quale cela (e non è difficile capirne i motivi, se consideriamo la natura scabrosa di questi testi) un impianto ideologico possente e fortemente storicizzato: Michelet, nel 1863, nella sua Histoire de la Régence, parlando proprio di Manon Lescaut , si sofferma sulla “forza e semplicità terribili” della giovane ragazza, individuando proprio in questa forza e semplicità la potenza dell’intero romanzo; così come Flaubert, parlando ancora di Manon Lescaut, loda la forza d’animo dei due amanti che, in virtù di questa forza, assumono quasi la caratura di eroi d’onore: appare chiaro, da questi due esempi, il fascino personae su cui larga parte della critica si è soffermata, individuando, ora in un personaggio, ora in un altro, le forze motrici della narrazione.

Ciononostante, per quanto le singole parti siano essenziali per la riuscita della struttura generale, specie in un romanzo, occorre indagare più approfonditamente l’assetto ideologico sotteso alla produzione libertina, quantomeno per comprenderne l’efficacia e l’incidenza sulla vita reale.

Non è raro, infatti, individuare, all’interno delle dinamiche fattuali delle vicende, forze opposte che tendono a scontrarsi non solo all’interno del singolo, ma soprattutto tra i desideri dell’individuo e le pretese della società: nell’Abate Prévost, ad esempio, si legge:

Per quale fatalità mi domandai son divenuto un criminale? L’amore è passione innocente; come mai s’è mutato per me in una fonte di disordini e di miserie? Chi m’impediva di vivere quieto e virtuoso, con Manon? Perché non l’ho sposata, prima di farla mia? Il babbo, che tanto m’amava, non si sarebbe mostrato più indulgente, se io l’avessi pregato con istanze legittime? L’avrebbe amata lui stesso, ne son certo, come una figlia, una dolcissima figlia, in tutto degna di essere la sposa del suo figliuolo. Io sarei felice, con l’amore di Manon, l’affetto di mio padre, la stima dei migliori, i beni della fortuna, la serenità della virtù (Manon Lescaut, p. 46).

La struttura di questo passo si presenta quadripartita e speculare: da un lato, abbiamo la colpa criminosa avvertita da Des Grieux e cui si contrappone, specularmente, la felicità che solamente un assetto borghese può addurre; dall’altro, si contrappone un amore fonte di miserie, qual è quello vissuto fuori dalla legittimità borghese, a un amore portatore di fortuna e stabilità, legittimo solo nella legittimità del matrimonio.

Le quattro parti che, specularmente, si contrappongono, rappresentano, a coppie, due modi di agire su cui l’autore, per tutto il romanzo, basa la propria narrazione: esse, dunque, non solo si limitano a guidare i personaggi nelle loro vicende, ma veicolano due possibilità di vita che, escludendosi vicendevolmente, si presentano quali leitmotiv della lotta ideologica condotta da Prévost: Des Grieux, così come la sua amata Manon, risultano essere espressioni di forze che non possono governare, non solamente metafisiche, ma antropologiche: “Neppur io appartenevo alla classe dei libertini a oltranza, che si vantano d’aggiungere l’ateismo alla depravazione dei costumi”, afferma il cavaliere Des Grieux e, in questa affermazione, sembra quasi che l’autore abbia scelto volontariamente di rappresentare una determinata parte del mondo libertino, quella volta al dialogo con l’istituzione borghese per un desiderio di appartenere a tale istituzione.

Ed è, in effetti, uno dei temi più importanti e radicali di molti testi libertini, quello del desiderio di appartenenza a uno stato legittimo, garante di una stabilità che, inevitabilmente, un libertinaggio estremo non permetterebbe: per mezzo di questa aspirazione viene creata la dicotomia ontologica tra questo stesso libertinaggio e la riappacificazione borghese che non solo compete con il desiderio del piacere carnale, ma lo affianca con la stessa tenacia e seduzione.

La compresenza di due simili forze così divergenti si viene a scoprire quale substrato narrativo su cui si poggia la struttura ideologica e ideologizzante che è il fine ultimo di molti romanzi libertini: non meraviglia, in questo senso, il forte intento didascalico presente in opere quali Teresa filosofa (opera probabilmente di D’Argens) e Justine, o le disavventure della virtù di Sade nelle quali, a più riprese, la vicenda sembra costruita proprio per permettere all’autore di ricondurre ogni azione libertina contro il libertinismo stesso, ogni scelta contro sé medesima, ogni lascivo contro la sua stessa condotta; e per ottenere efficacemente questo effetto, è interessante notare come le vicende proposte siano, in questi casi, sempre a una voce: l’eliminazione del contraltare dialogico è funzionale alla resa unilaterale ricercata dagli autori, i quali possono, per i loro fini moralistici, far parlare uno e un solo personaggio.

Ci troviamo, qui, all’esatto opposto di qualsivoglia prospettivismo e il monocordismo di queste narrazioni si fornisce come indizio privilegiato nell’indagine sul substrato ideologico sotteso a questi romanzi, i quali spesso, hanno come protagonisti proprio l’elemento ideologico: il finale della Justine di Sade è, in quest’ottica, illuminante:

Voi, lettori di questa storia, possiate trarne lo stesso profitto di quella donna mondana che si emendò, possiate convincervi con lei che la vera felicità risiede solo in seno alla virtù e che se Dio permette che sia perseguitata in terra, è per prepararle una più lusinghiera ricompensa in cielo (Justine, o le disavventure della virtù, p. 154).

Per tutto il romanzo, si è portati a pensare che protagonista della vicenda sia Justine con le sue disavventure: ogni pagina trasuda lascività e malvagità, sete di potere e perversione sessuale e la sola figura martiriologica è quella di Justine, vinta più da sé stessa e dalla sua ostinazione nel voler procedere nel solco della virtù.

Ma, magistralmente, la conclusione rovescia ogni prospettiva finora utilizzata e mostrata: la reale protagonista, da queste ultime righe, risulta essere Juliette, la sorella di Justine, compagna e presenza silenziosa in tutto il romanzo – come compagna e presenza silenziosa è la legittimità borghese – e, soprattutto, l’intento moralistico che proprio a Juliette era destinato: “e che voi possiate convincervi con lei”, dice Sade, giacché non sono le avventure di Justine il centro ideologico dell’impianto narrativo, ma l’emendazione di quella donna mondana che era Juliette prima del suo incontro con la sorella.

Il lettore, quindi, deve immedesimarsi in Juliette e non in Justine, dando Sade, per assodato, la malvagità dell’uomo, specie di quello libertino, e quindi il bisogno di ravvedersi.

L’intero romanzo, dunque, ha come reale protagonista Juliette, essendo essa allegoria delle sfrenatezze umane che devono soccombere nella lotta borghese e con l’ancien regime, e con il libertinaggio; Sade, dipingendo le lascività di preti, falsari, marchesi vuole esercitare un duplice effetto di estremizzazione ed esasperazione che permetta al lettore di porsi dal lato della virtù (e le virtù descritte sono tutte virtù propriamente borghesi) e di capirne la forza, nonché la necessità.

La penna di Sade è, pertanto, stendardo della borghesia e baluardo della legittimità borghese volta a creare un milieu sereno e riappacificante; la stessa mostruosità dei libertini descritti concorre alla resa negativa che l’autore vuole tratteggiare per innalzare la bella e quieta virtù rappresentata da Justine: Sade scrive per combattere.

Ancora più esplicito, in questo senso, è il romanzo Teresa filosofa, scritto quasi certamente dopo il 1742 e pubblicato anonimo.

Si è a lungo discusso sulla paternità dell’opera, attribuita dapprima a Diderot e, infine, a D’Argens, soprattutto per alcuni passi politici che non trovano corrispondenza in quelli propriamente diderottiani.

Ed è proprio su questi passi che si può basare un’indagine critica sull’importanza dell’apporto ideologico presente nel romanzo che, in alcuni punti, si manifesta espressamente e sempre per mezzo dei personaggi più eruditi della narrazione.

Non a caso, infatti, l’autore affianca al tema più propriamente libertino, quello di una speculazione filosofica e sociologica, ricollegandosi direttamente a uno scetticismo di stampo razionalista, da un lato, e a un conservatorismo, dall’altro: i due “maestri” presenti nel romanzo, e riconoscibili per tali, l’Abate T… e il conte, pur appartenendo, su un piano prettamente narrativo e individuale, a due sfere differenti, posseggono molti punti comuni che ne fanno le colonne portanti dell’intero romanzo.

Essi, più esplicitamente che in Sade, hanno una funzione didascalica, in quanto impartiscono vere e proprie lezioni volte a mostrare delle verità: così l’Abate si esprime sulla religione, sul concetto di Natura, sul tema fisico ed erotico (quale la masturbazione) strettamente legato a quello sociale – esattamente come il conte; ed è questo l’elemento più importante ai fini dell’individuazione ideologica all’interno del romanzo e che non ha permesso di vedere in Diderot l’autore del testo.

Entrambi, infatti, il conte come l’Abate, esprimono una concezione ben lucida sull’assetto sociale da mantenere, anche nell’azione apparentemente licenziosa della sessualità e delle vicende erotiche: in Teresa filosofa si assiste a una netta separazione tra il piano individuale e quello collettivo, attribuendo a quest’ultimo maggiore legittimità sul primo: in alcune pagine, è addirittura riconoscibile quel solco, rivelatosi incolmabile, tra vita privata e vita pubblica che, da Maupassant, passando per Proust e, fuori di Francia, giungendo a Musil, Joyce e Pirandello sarà la base esistenziale su cui il romanzo modernista costruirà le proprie basi; spesso, nelle parole dei due personaggi, si rendono esplicite considerazioni di carattere politico e sociale che rimandano direttamente al mantenimento dello status quo: ogni azione umana, comprese quelle inerenti alla sfera erotica, trova la sua ragione solamente nella misura in cui essa non provochi disagi alla collettività:

Per raggiungere la felicità ognuno deve scegliere il genere di piacere che gli è proprio e che si addice alle passioni da cui è dominato, esaminando quel che di bene o di male risulterà dal soddisfacimento di un simile piacere e considerando che un tal bene o un tal male andrà valutato unicamente riguardo a se stessi, ma anche in rapporto al pubblico interesse (Teresa filosofa, p. 22).

afferma il conte, riproponendo quanto già similmente aveva affermato l’Abate T…:

Concludendo, ripeto che nessuno deve procurarsi piaceri che possano turbare l’assetto della società stabilita. Le donne non possono dunque assaporare quei godimenti che agognano, giacché devono tener conto dei doveri che la società impone loro (Teresa filosofa, p. 81).

Il tema portante, dunque, ripreso più volte nel corso del romanzo, è quello che sarà, poi, espressamente borghese, ovvero il mantenimento dello stato vigente in cui le stesse passioni assumono valore positivo solo se mitigate dalla ragione non già nel loro diretto appagamento – sia il conte che l’Abate si lasciano andare ad atteggiamenti licenziosi -, ma nella loro incidenza sulla realtà comune: si può identificare, dunque, una specie di libertinaggio comunitario (laddove “comunitario” bisogna intenderlo come tendente, comunque, al bene collettivo) in cui la componente sottrattiva – nel senso di togliere qualcosa alla società – gode di più attenzione rispetto a quella più strettamente libertina di appagamento dei propri piaceri.

Alla luce di quanto detto sinora, risulta chiara l’intenzione tutt’altro che dirompente del romanzo libertino settecentesco.

In un organismo sociale ormai prossimo al collasso, tra le forze contrastanti che già si muovono all’interno della società francese, i romanzi libertini erano già i precursori della legge e dell’immobilità borghese che, poi, resa più cosciente di se stessa, avrebbe trovato enorme fortuna in tutto il secolo successivo.

La morte di Manon Lescaut, di Justine, la resa di Teresa sono le antesignane delle sorti crudeli di Madame Bovary, di Anna Karenina, di Lotte e dell’impossibilità di far coincidere la libertà sfrenata dei sensi con l’impianto sistemico del mondo borghese: l’insipidezza della vita di Henriette ne “La scampagnata” di Maupassant, il travaglio interiore, tutto interiore, di Claudine nella novella “Der Vollendung der Liebe” di Musil e la stessa forza seduttiva di Mme Arnoux ne L’Education Sentimentale di Flaubert trovano la loro origine nel romanzo libertino sovrastrutturato del XVIII secolo. 

Il libertinaggio, come ogni contro movimento, era provvisto già nel suo seno di quel seme che, poi, lo avrebbe immobilizzato e distrutto, essendo esso stesso già minato da un desiderio irrefrenabile di quiete e pace; non a caso, il quietismo attaccato da alcuni romanzi libertini – Teresa filosofa su tutti – rappresentava per questi autori allo stesso tempo il loro nemico principale e la loro massima aspirazione e l’attacco rivoltogli altro non è che un’operazione di rigetto fallita in quanto anche il quietismo sessuale era parte integrante delle pulsioni più nascoste dello stesso libertinaggio.

Tutto questo ha comportato la perdita di forze di ogni attacco a quella stabilità che sarà il cardine della struttura borghese.

Antropologicamente, la licenziosità libertina era nata sconfitta.

1.1 Laclos e l’esasperazione degli antipodi.

Ne I legami pericolosi vi è finalmente l’esplosione della crisi tra tensione libertina e aspirazione borghese che, come si è visto, ha permeato una certa produzione letteraria del XVIII secolo.

Quella esasperazione già riscontrata in Sade, attraverso la quale ci si proponeva di porre il lettore dal lato della virtù, si ritrova in Laclos ancora più pronunciata e consapevole, tale da poter giungere, per mezzo di essa, su un terreno di aperta lotta tra libertinismo e moralità.

Sono questi, infatti, le forze antitetiche intorno alle quali l’opera di Laclos va concentrandosi ed è, allo stesso tempo, la loro corrispettiva estremizzazione la chiave di lettura dell’impianto ideologico sotteso al romanzo.

A dichiararlo per primo è lo stesso autore nella Prefazione del Redattore, nella quale si legge:

Almeno mi pare che sia opera utile ai costumi, svelare i mezzi di cui giovano coloro che ne hanno di cattivi per corrompere coloro che ne hanno di buoni; e credo che queste lettere potranno concorrere efficacemente a codesto scopo (I legami pericolosi, p.25).

Sin da subito, quindi, l’autore evidenza la finalità del suo lavoro: attraverso la resa della cattiva condotta del libertinismo e, soprattutto, attraverso la resa delle seguenti conseguenze nefaste, egli si prefigge il compito di istruire sulla condotta da prendere per una vita tranquilla, ancora una volta proponendo la differenza tranquillitàirrequietezza già ravvisata in altri testi.

Questa operazione, ideologica per l’autore, viene rafforzata dal fatto che diviene forza propulsiva per gli stessi personaggi del romanzo: nella famosa lettera LXXXI, scritta dalla marchesa di Marteuil al visconte di Valmont, la marchesa, ripercorrendo le tappe della sua formazione di donna e libertina, utilizza proprio la tecnica dell’esasperazione per legittimare la scelta di una vita dissoluta e menzognera:

Ma il buon padre mi rappresentò il male così grande da farmi concludere che il piacere ne dovesse essere estremo; e al desiderio di conoscerlo sottentrò quello di gustarlo (I legami pericolosi, p.182).

In termini ideologici, si tratta ancora di un processo estremizzante che, puntando sull’esasperazione di un polo, giustifica la scelta dell’altro: la rappresentazione del male in termini assoluti, nella psicologia della donna, permette un riconoscimento di un piacere direttamente proporzionato alla sua lascività; nella sua interpretazione, male e piacere vengono a coincidere attraverso la tecnica dell’esasperazione dei poli, indirizzando la marchesa sul polo originario di quella esasperazione, ovvero, il male.

Tale scelta giustifica, di conseguenza, l’amoralità della donna e le conseguenze frutto di quella scelta giovanile: l’amore inteso come mera equazione scientifica, figlio di un’analisi meticolosa che ne fa, più che sentimento, calcolo e, cosa più interessante, la costante pretesa di una certa etica che soggiace ad ogni atto – elemento, questo, assente in Valmont, il quale si muove più per gloria e capriccio: nella stessa lettera (LXXXI), infatti, e poi in altri punti dell’opera, la marchesa rivela la bussola che dirige ogni sua azione:

E tuttavia, se m’avete vista intenta a regolare avvenimenti e opinioni, a mutar codesti tremendi uomini in giocattoli dei miei capricci e dei miei ghiribizzi: togliere agli uni la volontà, agli altri la capacità di nuocermi; se son stata capace volta a volta e secondo mio mobile gusto di avvicinare al mio carro o respingere lontano quei tiranni caduti e fatti ormai miei schiavi; se, in mezzo a codeste frequenti rivoluzioni, la mia fama s’è però conservata intatta: non avreste forse dovuto conchiudere che, nata per vendicare il mio sesso e soggiogare il vostro, avevo saputo creare dei mezzi ignoti prima di me?(I legami pericolosi, p. 179).

Consapevole, nella lotta degli antipodi, dell’esistenza e della forza del polo avverso al proprio, la marchesa non ha altro mezzo per contrastare la rigidità della morale che quello dell’apparenza e della simulazione, attraverso il quale <<mi accertai di ciò che si può fare, di ciò che si deve pensare e di ciò che bisogna sembrare>> (p183).

Per mezzo della marchesa, dunque, Laclos riesce a trasportare, sul piano dell’azione romanzesca, l’esasperazione teorica tra libertinaggio e moralità borghese in un impianto che sembra, più che narrativo, rappresentativo e teatrale.

In tutto il romanzo, infatti, vi è un continuo richiamo al teatro e alla messa in scena che, da un punto di vista strutturale ed etico, tende a far coincidere vita e finzione; sembra quasi che la coincidenza “teatro – vita”, “rappresentazione ed esistenza”, base dell’arte modernista, trovi qui le sue prime basi (e, come vedremo a breve, I legami non sono l’unico romanzo che si muove in questa direzione): in diversi punti, sia la marchesa che il visconte, e significativamente unicamente loro due, riconoscono la recita che stanno conducendo, senza provarne alcuna vergogna: così, la marchesa afferma che <<non mi dispiacerebbe costringerli a mescolare alcuni domestici nell’avventura>> (p. 137); e, al pari, il visconte risponde che <<lo stesso spettacolo che vi fa accorrere al teatro, e che applaudite con entusiasmo, credete che sia meno avvincente nella realtà?>> (p. 218); o, ancora, nella lettera CXXV, in cui Valmont racconta alla marchesa la riuscita seduzione della presidentessa di Tourvel, il visconte costruisce una perfetta scena teatrale, in cui battute e didascalie si alternano e si fondono in una resa formidabilmente scenica:

Mi parve di dover rianimare un poco la scena troppo languida; perciò, alzandomi con tono di stizza: “La vostra fermezza mi ridà tutta la mia”, dissi. “Ebbene! Sì, signora, saremo separati, separati anche più di quanto pensate: e avrete tutto il tempo di rallegrarvi della vostra opera”. […]

Per fortuna mi rammentai che per soggiogare una donna tutti i mezzi sono buoni; e che bastava stupirla con un gran movimento per produrre su di lei un’impressione profonda e favorevole. Perciò, mutando appena l’intonazione della voce, e conservando il medesimo atteggiamento: “Sì”, continuai, “lo giuro ai vostri piedi: o possedervi o morire”. […]

Allora mi appigliai al partito di simulare la partenza; perciò, trattenendomi con forza: “No, ascoltatemi”, disse con foga. “Lasciatemi”, dissi. “Mi ascolterete, lo voglio”. “Devo fuggirvi, devo”. “No!”, esclamò lei. A questa parola si precipitò o meglio cadde svenuta nelle mie braccia (I legami pericolosi, pp. 293-295).

La teatralità è, dunque, a un tempo tema e struttura dell’impianto di Laclos: tema, in quanto richiama la vanità e la menzogna del libertino e delle sue azioni, in netta antitesi con altre figure del romanzo che rappresentano la spontaneità e la rettitudine morale; struttura, in quanto, in passaggi come questo, essa è strutturalmente funzionale a reggere l’impianto tematico: le battute veloci che ricordano quelle sceniche, la descrizione rappresentativa dei movimenti di Valmont e l’unione dinamica tra gesto e parola concorrono a dar forza al tema della teatralità e, quindi, della finzione libertina in chiave antitetica alla genuinità borghese.

La tecnica dell’esasperazione, quindi, è il nucleo su cui si basa l’azione ideologizzante dell’antropologia laclosiana.

Per provarlo, bastino altri tre esempi che, assieme a quello già visto della marchesa di Marteuil, rappresentano l’assetto quadripartito che regge l’ideologia del romanzo.

Anche in Valmont, nella lettera CX in cui parla alla marchesa della seduzione avvenuta sulla giovane Volanges, Laclos pare utilizzare un’esasperazione di un connotato borghese per dimostrare l’iniquità delle azioni del visconte; scrive Valmont:

Mi ci ero determinato non senza ragione; in quel modo incoraggiavo meglio che con qualsiasi altra cosa la mia timida scolara, e insieme le ispiravo un profondo disprezzo per sua madre. Da tempo ho osservato che codesto mezzo, se non occorre sempre usarlo per sedurre una giovinetta, è indispensabile, spesso anzi efficacissimo, se la si vuole depravare; perché colei che non rispetta sua madre non rispetterà nemmeno sé stessa (I legami pericolosi, p. 261).

Nell’ultima frase, come si nota, ci si trova dinanzi a un precetto che diverrà, a seguito anche di eredità socio-culturali comuni a gran parte delle società umane, uno dei capisaldi della moralità borghese; straordinario è il fatto che lo stesso Valmont ne conosca la forza e la rispettabilità; tuttavia, ed è in questo che consiste l’esasperazione laclosiana, il comportamento del visconte volto a una corruzione che già conosce come deleteria per il soggetto che la commette, denota un’ ideologia borghese tesa, da una parte, a denunciare la depravazione libertina del visconte; e, dall’altra, a giustificare le scelte e le interpretazioni di Valmont: l’esasperazione, dunque, come nel caso della marchesa di Marteuil, è funzionale a Laclos per adempiere al suo intento didascalico e moralistico: estremizzando la condotta libertina, egli riesce a delineare la perversione di tale condotta se contrapposta alla moralità borghese: non è un caso, infatti, che l’ultima parola del romanzo, volta a schiacciare definitivamente il libertinaggio, spetti a due personaggi, la signora di Rosemonde e la signore di Volanges, che hanno rappresentato, nel corso del romanzo, il solo esempio di una moralità costante.

Nella lettera CLXV, la signora di Volanges, compiangendo la triste sorte della presidentessa di Tourvel, denuncia la forza distruttiva del libertinaggio soprattutto quando questo riesce vincitore sulle perfette qualità borghesi della virtù, del matrimonio e della prudenza:

Tante virtù, e lodevoli qualità, e pregi; un carattere dolce e agevole; un marito amato e che lei adorava; una società tra la quale si compiaceva e di cui faceva le delizie; bella, giovane, ricca: tanti doni riuniti, e una sola imprudenza è bastata a perderli! (I legami pericolosi, p. 367).

Come già nelle parole di Des Grieux nel Manon Lescaut, anche qui si riconosce un desiderio di quiete e riequilibrio che denota una stanchezza esistenziale propria di una vita dissoluta; Laclos, per mezzo della pia signora di Volanges, delinea due tipologie valoriali, una positiva e una negativa, che poi saranno rese ancora più esplicite nella lettera CLXXI attraverso le parole della vecchia signora di Rosemonde:

Se concedete alla mia età una riflessione che la vostra non fa, è che, fossimo illuminati sulla nostra vera felicità, non la si cercherebbe mai fuori dei confini prescritti dalle leggi e dalla religione (I legami pericolosi, p. 377).

Leggi e religione, dunque, nell’universo ideologico di Laclos vengono a delineare i paletti oltre i quali non può essere vissuta nessuna vita tranquilla, sana e auspicabile; i deliri dell’amore, della passione e del piacere; la simulazione e la menzogna atte a non macchiare la reputazione in società e la scelta del libertinaggio più estremo: tutti questi elementi, come già nei romanzi di Sade, Prévost e D’Argens, assumono un nuovo senso se letti nella loro voluta esasperazione.


Filippo Casanova

Redazione

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