Dei denti dei muri di confine
Aguzzi sul vento;
degli alberi di ferro
sorti da semi di chiodi;
dell’acqua identica,
ovunque ci si volti
tra le onde e le ombre
e il vagare degli occhi;
Cantami, o Diva.
Scogli neri dalla forma di piatti raccolgono gli avanzi dell’ultima mareggiata. Sono la prima isola e sulla prima isola, per le correnti, arrivano anche le ultime cose. Ulis guarda e insieme ha paura di guardare, anche se non lo ammetterebbe mai. Gli è rimasta da quando ha scorto, a largo, una cosa che sembrava persa da una barca di pescatori e invece era un corpo, neanche intero avevano poi detto. Non lo aveva visto ma ci aveva pensato tanto da immaginarlo, davvero troppo, e ora quell’immagine vaga è diventata un incubo, quello di un ragazzo che gli parla in una lingua che non capisce, prima che attorno al suo letto tutto diventi simile al mare mosso e il letto stesso una barca rotta che sta per affondare.
Ulis si sveglia tossendo dopo il sogno. La gola brucia. E in testa ha sempre una canzone che purtroppo non ricorda mai se non per pochi istanti dopo aver aperto gli occhi. La canta il ragazzo, quando capisce che lui lo non capisce. La musica è universale, dicono. La musica è matematica, ma più bella.
Lui ha gusto per le parole, capisce il ritmo delle frasi e ha una buona memoria. Ma non ricorda mai i numeri, mai. E anche per questo, probabilmente, non riesce a ricordare la canzone. Dimenticandola, Ulis si sente molto in colpa, anche se non comprende perché. A volte, quando il vento cambia, gli sembra di riuscire a metterne insieme dei pezzi, ma come si potrebbe fare con i resti di una barca scassata. Poi tutto non quadra, come per i suoi conti.
Il vento non si vede ma c’è sempre ed è parte dell’isola come le sue pietre piatte e scure. I pescatori dicono da giorni che stia per cambiare verso, e quando lo dicono Ulis pensa subito alla poesia, anche se non c’entra niente. Parlano di direzione, lo sa benissimo. Nota che le onde si stanno quietando e già si vede che ci saranno molti giorni di bel tempo. Ulis sa bene cosa possa dire, è abituato a questo come alle correnti e alle estati lunghissime che bruciano gli occhi e l’erba.
Spesso gli raccontano che l’isola era diversa, molto tempo prima che nascesse, ma non ricordano neanche più l’anno che iniziò a succedere, per quanto è ormai lontano. Gli sembra strano immaginare il mondo come non lo ha conosciuto, ma lui ha dodici anni e l’isola è la sua isola e sempre uguale.
Case chiare e alto mare.
Suo nonno gli dice che il loro mare è quello degli eroi e nomina sempre i greci. È sicuro che con il sole che brucia così tanto, pochi fossero biondi come Venere e Achille e quasi tutti scuri come ceppi. Come sull’isola. Si chiede perché dei ed eroi divini siano sempre chiari, e ha il dubbio che sia così perché non sono esistiti, sono finzioni. Allora pensa spesso al Cristo della chiesa, che forse non è giusto abbia i capelli del colore dell’erba secca d’estate.
La professoressa, quando parla del mare, dice che purtroppo è anche un grande cimitero sul quale non si può camminare. E intanto, mentre è Marzo e le finestre sono già aperte al cielo, leggono nella classe piena di mosche stralci de l’Odissea di Pindemonte. A Ulis piace, ma continua a preferire l’Iliade di Monti, anche se parla solo di guerra. Il viaggio gli fa paura, ha sempre a che fare col morire. Bisognerebbe attraversare il mare, per andare via. E poi, anche per ritornare. Ulis preferisce versi che parlano di terra e polvere e nell’Iliade non ci sono zattere. I versi dell’invocazione alla Musa si infilano nella sua testa come il nonno infila l’esca nell’amo. Cantami o Diva. Ulis si chiede spesso come possa cantare una dea e se anche lei è bionda.
Canta, se puoi,
con voce d’uomo e donna insieme.
Ma che la tua voce
Sia atroce
Fino a portare al pianto.
La giornata è bella come una conchiglia, il cielo sembra liscio e luminoso come il suo interno. Ma Ulis continua a pensare quello che non vorrebbe. Tra i gusci a pezzi, i legni e le alghe galleggianti come lunghe cinture scure, potrebbe esserci qualcosa di perduto. Qualcos’altro che è tornato a terra troppo tardi.
Giorni prima il padre ha riportato a casa uno strano straccio, così pareva. Sembrava un grosso nodo, ma non solo. Tornato non aveva mangiato niente, solo preso il caffè che lui gli aveva portato nel portico dove era rimasto in silenzio fino a cena, tenendo lo straccio in braccio più che in mano, mentre stava seduto tra il bucato pulito, smosso dal vento.
… Non toccare le cose appese al filo aveva detto sua madre, come sempre. Non aveva fatto eccezione neanche davanti agli occhi di suo padre e Ulis aveva pensato che non erano state le parole giuste da dire. Il silenzio di suo padre è buono, sempre tranquillo. Ma quello non lo era affatto.
Suo padre teneva lo straccio con sé e stava zitto, e il suo restare zitto aveva un brutto suono, proprio come certe volte ce l’ha il mare di notte.
Ulis pensa sempre che suo padre deve aver imparato a parlare solo con la gente che non lo capisce e che gli risponde in un’altra lingua, e forse per questo potrebbe spiegargli come comprendere le parole del ragazzo che certe notti torna a terra per annegare di nuovo nella sua stanza, tra le sue lenzuola pulite. Ma Ulis non ammetterà mai di avere paura e suo padre non gli parlerà. Sono maschi e sembra che si debba fare così.
Ma nel profumo di panni stesi, con davanti il mare indaco e profondo, il padre aveva mormorato che quello che aveva in mano non era uno straccio. Ho paura fosse la bambola di una bambina,aveva detto, e poi più nulla, perché la voce gli era caduta come un sasso sui piedi.
Ulis pensa che non vuole fare il medico come suo padre, non vuole sotterrare cose e resti di persone e curare ferite molto più profonde delle sbucciature sulle sue ginocchia. In futuro vuole fare cose da bravo padre e vivere in pace dove è nato. Lui non è un eroe. Non è neanche in cerca di avventure che lo portino lontano da dove si trova. Ulis vuole solo che a casa si stia bene, ma che stiano bene tutti. E suo padre invece, sotto il portico piangeva senza lacrime, questo ne era sicuro. Come era certo anche lui che quello straccio non fosse solo un nodo.
Chi è stato estraneo
Conosce la gola stretta dell’approdo.
E oltre la riga del confine
Ci sono sempre case
dagli occhi chiusi
su tutti gli occhi chiusi dal mare.
Arrivano gli altri ragazzi, Ulis si volta verso di loro. Sono sempre stati insieme e Ulis spera resteranno così per sempre. Ma non gli piace la sensazione che ha in quel momento, né le parole che sua madre gli ha detto al mattino, mentre faceva colazione assieme alla sorellina.
Ti stai facendo grande e presto sarai anche tu un uomo.
A lui piace pensare di essere già un uomo, ma solo perché ha capito che le ragazze non potranno mai fare certe cose perché femmine e pare sia giusto così. Suo padre, se parla, lo fa delle donne straniere che stanno male e Ulis pensa sempre a quante ne buttino a mare perché malate o morte, prima di arrivare sull’isola. Lo fanno davvero? A volte lo chiede. E il padre gli risponde in un altro silenzio.
Essere donne è peggio, l’ha capito benissimo. Era peggio anche tra gli dei greci e nei racconti degli eroi. Le donne sono più fragili. Vanno protette, lo dice sempre anche sua madre.
Ma Ulis pensa che alcune donne siano fortissime e forse non è vero quel che si crede di loro.
Ulis andiamocene che c’è vento e il sole pesta forte!
Lo dice Ettore, che non somiglia affatto all’eroe dell’Iliade e che parla solo la lingua dell’isola, nonostante la professoressa cerchi di fargli dire le cose in italiano. Ha ragione, meglio andarsene da lì. Meglio andare a giocare nel nuovo oratorio. Non è lontano dal centro di accoglienza, dove lavora pure suo padre. Ettore gli mette un braccio attorno al collo e lo attira a sé con un gesto irruento. Puzza già di sudore così come tutti.
L’odore di sudore è quello che si sente di più, in certi momenti. E in certi momenti ricorda quello del mare quando a riva ci sono pezzi di cose rotte dalla mareggiata finita.
Mentre ripensa alle parole del ragazzo del sogno e a cosa possano significare, Ulis ricorda la prima volta che ha visto Lope. Anche lei è venuta dal mare. Ed è piccola e bruna, bella come certe pietre. È arrivata a riva nuotando e si è salvata da sola. Lope è fortissima, molto più di lui.
Hai gli occhi del colore del mare gli ha detto la prima volta che l’ha visto e poi sorriso. E Ulis, sorridendo, ha pensato che anche i suoi erano del colore del mare. Ma di notte.
Forse tutti hanno gli stessi occhi in altri occhi.
Forse gli occhi delle persone sono solo occhi.
Perciò nulla, Musa,
che si possa cantare
Nell’indifferenza distratta
di lavarsi le mani.
Il mare è indaco quanto è nero.
E noi siamo tutti umani.
Mattia Alari è nato tra due mari ma naufragato lontanissimo e solo di recente ha pensato di proporre le sue storie. Si occupa d’Arte e ha pubblicato alcuni racconti su diverse riviste letterarie. Al momento è concentrato sullo studio della lingua inglese e della sceneggiatura.