E l’uomo, nel suo orgoglio, creò Dio
a sua immagine e somiglianza.
F. Nietzsche
Da questo lato – il lato che si scorge dalla città – sembra una montagna, anche se l’elevazione è in fondo modesta, collinare.
La parete, erta, scabra, è segnata da una cicatrice, una strada che si inerpica a svolte acute sul fianco quasi verticale e arriva, affannata, sulla cima piatta, dove poi si perde. Questo lato guarda a est.
Dall’altro, quello che guarda a ovest, il paesaggio è invece totalmente diverso dall’aspra parete, e sembra del tutto incompatibile con quella vertiginosa durezza. Quel versante è infatti un lunghissimo, largo crinale che si apre a ondulato altipiano, con un’ampia morbida depressione al centro, appena accennata. C’è vegetazione, un verde fitto, profondo.
Discende – il versante pacato – con moto uniforme, in direzione di una lontana pianura nella quale si consuma, in cui si disperde all’orizzonte, come se avesse deciso di immergersi in un mare quieto.
Foschia in basso ma in alto il cielo è limpido e netto come un cristallo. Di notte una quantità sovrumana, inconcepibile, di stelle popola sfavillante lo spazio che la Via Lattea, densa di quella spuma luminosa, suddivide senza equità in due parti.
Non si riesce a distinguere le costellazioni: troppe altre stelle ne confondono i contorni apparenti, i disegni ingannevoli, le forme illusorie.
Se si sale per l’erta parete, per la strada-cicatrice intagliata nella roccia, precariamente appesa tra la stentata vegetazione, arrivati in cima si può dunque ammirare la città lontana, laggiù in basso, o meglio, quel che ne resta. Da lassù la distesa di tetti dai coppi rossi la fa apparire una piatta lastra rugginosa, brunita e solcata dalle ferite del tempo.
Quei solchi però sono le vie, i viali, i vicoli in cui una volta scorreva la vita. Serena, in fondo. Con le sue differenze, le disuguaglianze, le ingiustizie che la facevano essere ciò che era, la vita viva, e che si accettavano come cose inevitabili, necessarie, e forse davvero lo erano.
Era silenziosa, ricca, umile e vivace, quieta e scoppiettante come un povero fuoco d’artificio, meschina e a volte stolta, sempre bella comunque.
In quelle vie, nei viali, nei vicoli c’era il tempo, il tempo che era degli uomini, il tempo che scorreva insieme a loro facendoli nascere, crescere, maturare, invecchiare, morire.
Adesso il tempo è più veloce degli uomini. I secondi, i minuti, le ore, i giorni si sgranano più rapidi del pensiero, cadono a precipizio sgretolandosi e franando in una rovina turbinante. Non si fa in tempo a nascere e a morire. Sono troppe le cose che non si riesce più a seguire e il ritardo cresce, si accumula, il tempo vola – non è un modo di dire – e nessuno lo raggiunge, nessuno può adesso vivere con lui, secondo lui, secondo quel tempo di cui nessuno è più padrone, nemmeno dio o il diavolo, che poi sono la stessa cosa.
Da lassù si scorge la città, il suo scheletro, le sue polveri nella foschia. Quassù, sull’erta costa della cima, tutto è invece incredibilmente limpido.
Proprio per questa ragione, tanti anni fa, eressero lassù un osservatorio.
Appena discesi, appena un po’, sull’altro versante – quello che digrada dolcemente – guardando a sinistra – a sinistra di chi scende per l’ameno fianco – si può scorgere una collina, una mammella verde, morbida e materna, sulla cui rotondeggiante sommità svetta, come un enorme capezzolo, l’osservatorio. Si staglia contro il cielo luminoso e fa pensare a una testa ciclopica – i fianchi della collina sono le spalle cadenti d’un vecchio saggio – che osserva l’infinito per nostro conto, voltandoci la schiena, intuendone l’enigma.
Alvaro Pintaldi era salito lassù dodici volte, una volta al mese, per un anno.
Aveva cominciato il trenta gennaio, c’era un po’ di neve.
Aveva derogato in febbraio, per motivi indipendenti dalla sua volontà, salendo il ventinove (era un anno bisestile).
Se ne era discostato anche a marzo, stavolta per sua scelta, salendo il giorno (anzi, era la notte) dell’equinozio, quando gli anelli si intersecano e corrispondono di nuovo, per un attimo.
Quindi era salito sempre il trenta, ad aprile e a maggio.
Nuova deroga a giugno, per il solstizio, il giorno doloroso dopo il quale la luce inizia la sua ferale decadenza.
Poi ancora il trenta: luglio, agosto.
Settembre fu di nuovo all’equinozio, di nuovo l’attimo di illusione dell’antica corrispondenza dei due cerchi, poi la caduta, funesta, che accelera.
Ottobre, novembre, sempre il trenta.
Venne dicembre, optò nuovamente per il solstizio, la guerra fra le tenebre e la luce, la morte e (forse) la rinascita.
Oggi era di nuovo gennaio, ancora il trenta.
La giornata chiudeva in bellezza allestendo un tramonto sontuoso, anche se non si presagiva alcuna redenzione.
In città, quando erano gli ultimi tempi, si viveva in uno sconforto totale e anche le cose più (apparentemente) felici, più semplici, generavano motivi di afflizione, di avvilimento e, ad esempio, ci si vergognava di essere vecchi.
Adesso però, qui in alto, sotto la tavola smeraldina della volta concava e vertiginosa, anche la decrepitezza riacquistava l’antica perduta dignità e, in qualche modo, ritornava ad essere considerata un valore, un onore – l’età veneranda – un titolo di merito. Le accorte e operose formiche del luogo, dai tortuosi corridoi delle loro interminabili biblioteche, portavano, a testimonianza di ciò, dimenticate letterature, remote considerazioni, arcaiche vicende, virtuose glosse.
Il cielo, purissimo, era curiosamente affollato di cirrocumuli, le pecorelle, che parevano batuffoli di ovatta bianco-violacea messi lì a bella posta, a far comprendere lo spazio, la profondità, i diversi piani che, se privi di punti di riferimento, rischiavano di essere affrettatamente scambiati per uniformità, piattezza, pura e semplice bidimensionalità.
Pintaldi guardava tutta quella impudìca bellezza.
Aveva l’impressione che la sua memoria si fosse come risvegliata da una lunga amnesia e si fosse, chissà perché, rafforzata, acuita. Ricordava, adesso benissimo, i volti degli abitanti della città, tutti, nitidi, uno per uno; si accorgeva però, subito dopo, che essi si trasformavano in lineamenti indistinti, in forme amebiche, larvali, o in inquiete carcasse dai movimenti meccanici e dagli sguardi agghiacciati, straniti, come gli occhi di vetro nel viso di porcellana delle bambole Jumeau.
Ricordava adesso il suo amico fraterno Berto Amaral: i tratti signorili del suo volto, di antica aristocrazia, i suoi modi esotici, affabili, forestieri. Lo rivedeva camminargli a fianco – al tempo in cui l’immane inganno si era rivelato in tutta la sua cruda evidenza – disperato, avvilito, bestemmiando di continuo, in maniera commovente, come può farlo soltanto chi crede davvero; come uno che, sciagurato, abbia all’improvviso compreso quanto Iddìo sia ingiusto, o meglio, quanto sia ignobilmente indifferente.
Alvaro Pintaldi stava lassù, fermo, immobile.
Si accorse appena quando le gentili formiche lo presero con delicatezza per mano.
Lo condussero verso il rilievo dell’osservatorio. Lo aiutarono nella affatto ripida ascesa.
Era giunto adesso alla base del bianco manufatto, un gigantesco elmo dalla celata ferrigna tenacemente serrata. Le formiche, discrete, lo lasciarono ai suoi pensieri.
Lui e Berto, quel giorno ormai lontano, non stavano fuggendo. Non c’era più un luogo da cui fuggire o verso cui andare.
Si stavano allontanando, questo sì, dal Grande Tilt. Il momento in cui i meccanismi si erano inceppati e tutti i congegni si erano spenti, i dispositivi erano diventati inutili. All’inizio nessuno sospettò, pur nella disperazione, che sarebbe stato per sempre; bastò poco perché, con gli occhi stupefatti e smarriti – come se ancora fissassero gli schermi ormai vuoti – tutti comprendessero la condanna.
Iniziarono a suicidarsi, con sistemi rozzi, antiquati, efficaci. La maggior parte da soli, alcuni in coppia, altri in piccoli gruppi, altri ancora in masse indifferenziate, come i lemming. Molti, al momento cruciale, tentavano ancora – illusi – di immortalarsi ma le apparecchiature, sorde, non rispondevano, i bracci telescopici non scorrevano più, svaniti ormai nel nulla i miliardi di scatti, svaporati nel diaccio silenzio i clic del trascorso imbroglio – la gigantesca trappola in cui erano caduti tutti – adesso evidente.
Anche Berto si era perduto lungo la strada.
Gli schermi continuarono a restare spenti.
Lassù, all’osservatorio, l’immenso specchio del telescopio – cinque metri di diametro – non rifletteva più nulla. Il gigantesco elmo non aveva più sollevato la celata e rimaneva anch’esso immobile, cieco.
Cosa era rimasto da vedere? Non c’era più nessuno a domandarselo o a darsi una risposta plausibile, da quando le dita non sfogliavano più le pagine ingannevoli, non più esistenti.
Soltanto lui, Alvaro Pintaldi, grazie alla confidenza stabilita con le sagge formiche, era riuscito a sapere proprio da loro, dalla loro preistorica conoscenza, che esisteva ancora un ordine, una strada fra le cose, una grande regola da intuire più che da conoscere, un remoto, flebile lumino nel bosco verso cui incamminarsi. Per questo era salito lassù.
Per questo, ancora oggi, si trovava lì, in quel punto.
Un’altra volta gennaio, di nuovo il trenta. Non c’era neve però, non c’era nulla.
Saliva lassù nella speranza di pervenire alla scoperta di un credo, di una religione autorevole, non autoritaria, in cui poter confidare, fermamente, senza dubbi, con l’entusiasmo di una fede forte e certa. Una religione che non avesse gli dèi simili agli uomini ma solo una grande regola aurea che determinasse l’armonia e la ragione delle cose.
Lassù gli spiriti dell’acqua, del vento, degli alberi, delle rocce, ancora camminavano come fossero pure verità. Come se venissero nutriti dalla forza òdica che solo le antenne più sensibili potevano percepire. Le formiche del luogo certamente lo potevano. Forse con i loro accorti consigli, e uno sforzo da parte sua, anche Alvaro Pintaldi ci sarebbe riuscito.
Era un tramonto lentissimo, faticoso. Tutto viaggiava, con indolenza, verso occidente.
La luce non si risolveva a morire e stagnava lassù, abbarbicata alle cose. La terra la tratteneva con infinite mani ed essa rimaneva impigliata ai rami e alle rocce.
Alvaro Pintaldi adesso palpava con la punta delle dita il muro scabro e convesso dell’osservatorio, di un bianco ancora accecante, nonostante muschi e licheni già da tempo avessero iniziato a marcare il proprio dominio, colonizzandone, silenziosi e voraci, il fianco esposto a nord.
Pintaldi si lasciò alle spalle l’edificio, discendendo e incamminandosi verso il centro dell’altipiano. C’era, nell’aria ferma, netto, il senso di un’attesa senza soluzione e, ogni tanto, un refolo improvviso di vento lo sottolineava, eccitando, senza incrinarla, quell’immobilità priva di riferimenti.
Era l’ora.
Improvvisa gli tornò alla memoria la vocina gracchiante del suo ormai sopito meccanismo che certificava con malcelata protervia: “…observatory time…seven forty-five…”.
Le pecorelle adesso occupavano tutta la volta del cielo ancora luminoso, viola e celeste, quando – fu un attimo – apparve qualcosa di immenso, un oggetto smisurato, un’ entità colossale: due labbra rosse e turgide, grandi come il mondo, una bocca gigantesca, inconcepibile, infinita, scarlatta, bellissima e terribile, muta, senza le parole. Aveva occupato, il mostro, in un solo istante, la maggior parte di quel cielo che sembrava nulla potesse riempire e che ora traboccava di quella spropositata apparizione.
Alvaro Pintaldi contemplava l’epifania straordinaria senza domandarsi se fosse materia allucinata, sabbia di sogni, miraggio o se si trattasse di cosa vera, e a quale sorta di vero potesse appartenere.
Udì – appena un tremito – risuonargli nel cuore le parole di Nathanael: “Sì, astro luminoso, mia stella soave, tu sei sorta e m’illuminerai, trasfigurerai l’anima mia per sempre!” *
E mentre le due labbra sterminate – parevano due amanti distesi l’uno sull’altro, appena separati dal filo di un orizzonte di parole impronunciabili – iniziavano a palpitare di una vita prodigiosa, allora il cuore di Alvaro Pintaldi, incantato e commosso, avendo finalmente compreso, pulsò, esultante, per l’ultima volta. Le accorte formiche, disposte a falange, lo sollevarono e con pacata solennità, come in processione – una cerimonia misurata e severa, priva di orpelli – lo condussero, attraverso interminabili ambulacri, a un’edicola sotterranea, un tempio laico, un ipogeo inviolabile dove il corpo di Alvaro Pintaldi sarebbe transustanziato in ottimo cibo.
(dedicato a un dipinto di Man Ray)
*E. T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia
Paolo Marco Durante è nato a Roma ma vive in campagna con quattro gatti e alcuni fantasmi. Si occupa di arte contemporanea collaborando con gallerie, curando mostre, cataloghi, testi, schede ecc. È appassionato di montagna, di boschi, di cinema, di Robert Walser, del Giro d’Italia, di filastrocche (leggerle e scriverle). Suoi racconti sono stati pubblicati su alcune antologie e su diverse riviste letterarie. Negli anni è diventato un po’ solitario e quindi scrive per inventarsi da sé le compagnie che gli garbano e che riescono a sopportarlo. Non ha profili social e non è mai stato a Berlino.