Il Dritto e il Rovescio: possibili considerazioni su sei romanzi libertini – Parte II

Questo pezzo è la seconda parte di una serie di articoli correlati. Puoi leggere la prima parte qui. La terza parte uscirà lunedì 21 marzo.

2. Diderot moderno. Rameau e la scissione dell’individuo.  

La grande stagione modernista apre una scissione incolmabile nel rapporto che l’individuo intrattiene da una parte con sé stesso, dall’altra con la società: a partire dal Flaubert dell’Education Sentimentale, passando per Musil e Proust e giungendo a Pirandello e Kafka, l’individuo che si muove all’interno dei rapporti romanzeschi (ed esistenziali) , risulta essere un individuo scisso in se stesso che traspone, poi, questa scissione in ambito sociale; tema di fondo diviene, conseguentemente, una duplicità del singolo (a tratti, una molteplicità) incapace di interpretare la realtà e di trovarvi, al fine, un senso.

Non è difficile, infatti, rintracciare esempi di tale scissione: basti, per tutti, l’opera di Italo Svevo il quale, partendo da Senilità ma, più compiutamente, ne La coscienza di Zeno, parla esplicitamente di una scissione che è inettitudine come cifra costante dell’uomo moderno; ma già in Flaubert, come, poi, in Pirandello e Kafka, sono riscontrabili elementi che, nella loro duplicità riferita a un solo personaggio, suggeriscono l’idea di un uomo in sé ricco (ricchezza dovuta, forse, soprattutto alla molteplicità di sguardi posseduti dall’uomo moderno, e dunque dalla scissione interna), ma povero e deluso da un’esperienza sociale risultata vana e inconsistente.

È interessante, tuttavia, notare come questo processo di scissione che investe l’uomo e l’arte moderna trovi delle anticipazioni, se non proprio delle corrispondenze, già nel XVIII secolo, quando quei valori che poi verranno fatti propri da tutta la cultura occidentale tramite l’affermazione storico – culturale della borghesia, e su cui si poggerà, spesso in antitesi, il romanzo modernista, sono ancora agli albori della loro stessa legittimità.

Si prenda come esempio il Neveu de Rameau (Il nipote di Rameau) scritto e pubblicato, poi, postumo da Denis Diderot, in cui due voci, un “je” e un “lui” si alternano in un dialogo di esasperazione ideologica: esse sono, infatti, voci dai pareri discordanti, espressioni di due antropologie culturali destinate a entrare inevitabilmente in conflitto.

Un testo che, per molti aspetti, rompe totalmente con la tradizione narrativa precedente e con la stessa narrativa illuminista di inizio e metà secolo, quella che aveva visto nel modello epistolario, filosofico e prevostiano i suoi punti di riferimento.

Ciò che Diderot, infatti, ci presenta in questo breve racconto è nuovo sia da un punto di vista strutturale, quindi una nuova forma del contenuto, sia da un punto di vista prettamente ideologico e antropologico.

Sin da subito, la cifra connaturante l’opera risulta essere una duplicità: per prima cosa, è l’epigrafe posta in esergo al testo che pone l’attenzione del lettore sulla volubilità del personaggio Remeau: “Vertumnis, quotquot sunt, natus iniquis” (“Nato sotto l’influenza di tutti quanti sono i Ventumni malvagi”), una citazione dalla VII Satira del Libro II di Orazio (e Satire Seconde era, in effetti, il titolo dato da Diderot stesso al racconto, poi mutato nell’attuale a seguito di una complessa vicenda editoriale) che si riferisce non solamente alla volubilità di Rameau, quanto all’intero assetto dell’opera, dall’orchestrazione strutturale, alla scissione interna dei personaggi e del loro rapporto con una nuova società; ma tale aggettivo, attribuibile a Rameau, “volubile”, sta anche a manifestare un tipo caratteriale di cui egli sembra un prototipo, frutto di una nuova organizzazione societaria: Rameau, che si rivelerà essere, nonostante le sue stesse parole, davvero un uomo fuori dal comune (e, così, in effetti, lo descrivono Mercier e Cazotte), nella nuova società liberale e borghese non può che abbandonare la caratura di uomo d’eccezione, a favore di una tipologia caratteriale volta a riproporsi sempre nuova, in base alle circostanze: la sua volubilità, dunque, è una nuova caratterista antropologica richiesta, con egual potere, dalla povertà e dalla ricchezza che dividono, in maniera netta, gli strati sociali; è lo stesso Rameau ad affermare che <<Qualunque cosa si faccia, è impossibile disonorarsi quando si è ricchi>> (p.35), rappresentando, così, l’antropologia dell’avere contro quella dell’essere.

Una seconda constatazione è rilevata dalla presentazione che l’io narrante fa dello stesso Rameau: sin dalle prime pagine, e per tutto il corso del dialogo, il musicista viene colto soprattutto nelle sue contradizioni di uomo: egli è sia capace di idee nobili e considerevoli, sia di riprovevoli considerazioni sulla condotta umana, basata, essenzialmente, sull’opportunismo e sulla falsità, sul sapersi dare al momento giusto e nel modo giusto, venendo meno anche alle proprie convinzioni morali:

È un insieme di grandezza d’animo e bassezza, di buon senso e insensatezza. Le nozioni di onestà e disonestà devono essere stranamente ingarbugliate nella sua testa; infatti mostra senza ostentazione le buone qualità che la natura gli ha concesso, e senza pudore ostenta quelle cattive (Il nipote di Rameau, p. 4).

Sembra, quindi, che l’elemento costitutivo di Rameau sia una duplicità d’istinti che scinde il personaggio in due tipi caratteriali opposti: uomo di garbo e furfante.

Ci si trova, qui, dinanzi al prodotto (non ancora storicamente compiuto) di una società ferina (più volte, nel romanzo, Rameau fa riferimento ai rapporti sociali come connaturati da una ferocia animalesca) che costringe l’individuo a scindersi per poter sopravvivere nel marasma caotico delle richieste sociali.

Eppure, ed è questo un elemento che soggiace a tutto l’impianto romanzesco, i verbi utilizzati da Diderot in questo passaggio per rappresentare il carattere di Rameau suggeriscono un’insinuante volontà scenica da parte del musicista, confermata, poi, dalle didascalie sceniche presenti nell’opera (di cui parleremo più avanti), il quale mostra le buone qualità e ostenta quelle cattive: si può desumere, in sostanza, che Rameau, e conseguentemente tutto quello che dirà, altro non sia che un attore sulla scena del mondo, in una vita che è ormai rappresentazione e non più essenza: sarà questa, un secolo dopo e mezzo dopo, la verità atroce a cui approderà la letteratura modernista.

Non casualmente, in uno dei passaggi chiave del romanzo, Rameau intesse un elogio della maschera, intesa come unica espressione di vita autentica data all’individuo che vuole sopravvivere:

LUI: La maschera soprattutto mi manda in estasi. Perciò quest’uomo gode della più alta considerazione. E perciò possiede milioni. […] La maschera! La maschera! Darei una delle mie dita per aver escogitato la maschera (Il nipote di Rameau, pp. 44-45).

Ormai l’assetto paradigmatico del mondo moderno è retto dall’equilibrio “finzione – ricchezza”, in cui entrambe le voci sono vicendevolmente funzionali a un apparato antropologico – sociale basato sull’insensatezza e sulla falsità: siamo nel regno dell’inautenticità.

Tutto è, per Rameau, ironicamente decaduto, ogni cosa, ogni rapporto manifesta unicamente la sua inconsistenza e non ci sono più forze da opporre, se non quella, dandistica, dell’amara finzione.

La vita stessa, dunque, come recitazione, carriera (proprio così Rameau nominerà la sua esistenza: <<LUI: Appena agli inizi della mia carriera>> (p. 45)) e come prova generale, e quindi falsata, di uno spettacolo insensato che non potrà mai essere messo in scena.

Duplice, inoltre, è la base su cui poggia l’intero asse dialogico che Diderot instaura col suo interlocutore, non soltanto strutturalmente, ma anche ideologicamente: per tutto il tempo, si ha la forte impressione che l’autore abbia voluto giustappore, come in una composizione teatrale, due voci che sono, tra loro, fuori da ogni sintonia, nella volontà di provocare volontariamente continui sbalzi nel lettore; al tentativo di “Je” di porre dei limiti semantici di senso e ordine alla realtà, si contrappone l’ostinata distruzione di Rameau di qualsivoglia senso e significato ultimo del reale e del rapporto tra un io fortemente stirneriano e un mondo vile e corrotto:

IO: Avere un ruolo nella società e adempierne i doveri?

LUI: Vanità. Che importa avere un ruolo o non averlo quando si è ricchi, visto che è solo con quest’obiettivo che si assume un ruolo? Adempiere i propri doveri: a cosa ti porta? Alla gelosia, al disordine, alla persecuzione. È forse così che si fanno progressi? Fare il cortigiano, perdio! Fare il cortigiano, frequentare i potenti, studiarne i gusti, prestarsi alle loro fantasie, servire i loro vizi, approvare le loro ingiustizie. Eccolo il segreto! (Il nipote di Rameau, pp. 34-35).

Ancora una volta, Rameau fa valere la sua morale arrivista e opportunistica su quella, invece, dai toni aristocratici e valoriali del suo interlocutore; anzi, afferma che è proprio tramite l’ordine dei valori e dei doveri che nasce il caos, il disordine e la persecuzione: questi toni nichilisti, che anticipano, nell’intento dissacrante e materialista, il nichilismo russo di metà ottocento (in un altro punto, alla domanda del filosofo su cosa sarebbe stato preferibile, se Racine fosse stato un buon uomo, ma niente più, oppure un genio, tuttavia malvagio, Rameau risponde <<Per lui, secondo me, forse sarebbe stato meglio appartenere al primo genere di uomini>> (p.10), idea che si avvicina, quantomeno nelle sue premesse materiali, all’avversione nichilista per l’arte e gli artisti, descritta magistralmente in Padri e figli di Turgenev) portano con sé tutta la forza e la rabbia che animano il musicista e che è espressione dei nuovi rapporti sociali ed economici in una Francia prossima alla rivoluzione borghese.

IO: Ma se invece dovesse accadere di diventare ricco? Cosa fareste?

LUI: Farei come tutti i pezzenti rivestiti; sarei il più insolente gaglioffo che si sia mai visto. Mi ricorderei tutto quello che mi hanno fatto soffrire, e restituirei tutte le angherie che mi hanno fatto subire. Mi piace comandare; comanderò. Mi piace esser lodato; mi loderanno. […] bastoneremo sulla schiena e sulla pancia tutti i piccoli Catoni come voi, che ci disprezzano per invidia, nei quali la modestia è solo una maschera dell’orgoglio, e la sobrietà non è altro che la legge del bisogno (Il nipote di Rameau, p. 33).

Qui siamo lontani dall’immobilismo dell’abate T… di Teresa filosofa, dalla bontà di Des Grieux slanciata verso un ideale di amore assoluto: Diderot, al contrario, sembra voler rappresentare, come su una scena, gli impulsi e le passioni di chi si sente sommerso dalla fiumana della storia e della società, di una nuova storia e di una nuova società; con la borghesia, non scompare solo il mondo aristocratico con tutti i suoi attributi, onorevoli o di maniera che siano, ma anche una figura, quella dell’intellettuale colto, dell’uomo di genio, che non gode più di alcuna considerazione positiva.

Non è un caso, infatti, che tutta la prima parte dell’opera sia dedicata proprio alla questione del genio, riconosciuto da entrambi gli interlocutori, ma interpretato alla luce di due ragioni differenti: dal filosofo, sotto quella, aristocratica e anacronistica, di dono all’umanità; dal musicista, come inettitudine alla vita pratica (alla nuova antropologia borghese importa solo la praticità) e, dunque, come condanna e per il singolo, e per la collettività

LUI: […] Occorrono uomini; ma uomini di genio no, in fede mia, non ne occorrono affatto (Il nipote di Rameau, p. 8).

In sintesi, a questa prima lettura, la duplicità si manifesta attraverso le due voci contrapposte dei personaggi, distonici e agli antipodi.

Ma la vera novità dell’opera diderottiana si rintraccia soprattutto nella duplicità che lacera un solo personaggio, Rameau: è la sua scissione interna a fare di lui il precursore dei vari Zeno, Mattia Pascal e Gregor Samsa.

Abbiamo visto, infatti, come la rabbia che connatura l’azione e le idee di Rameau facciano di lui un tipo caratteriale con tratti certamente eroici: sembra di rivedere nel suo slancio antisociale (<<Vanità. Non c’è più patria. Da un polo all’altro, vedo solo tiranni e schiavi. […] Vanità. E chi ce li ha gli amici? E se ne avessimo, perché farne degli ingrati? Riflettete, e vedrete che quasi sempre si raccogli ingratitudine dai servizi resi agli amici>> (p.34)) e fiero quello fatto, negli stessi anni, da Alfieri; tuttavia, ed è questo il punto che diversifica Rameau da Alfieri, la spinta eroica del musicista diderottiano non è dettata da una consapevole superiorità intellettuale e morale sulla società; al contrario, questo eroismo è il frutto di una decadenza che Diderot avverte come inevitabile.

Il dialogo sul genio, già citato in precedenza, potrà benissimo chiarire questo punto cruciale.

Si è già visto come Rameau sia avverso al genio: suo zio, J.P. Rameau, musicista di fama nazionale, rappresenta per il giovane la personificazione del genio e, soprattutto, dei suoi limiti:

Ed è ciò che apprezzo di più nelle persone di genio. Sono buone a una cosa sola; oltre questa, niente. Non sanno cosa significhi essere cittadini, padri, madri, fratelli, parenti, amici (Il nipote di Rameau, p. 8).

A una prima lettura, quindi, il rifiuto del “genio” sembrerebbe di matrice sociale: più volte, anzi, Rameau rimprovera Racine di essere stato un uomo malvagio e duro.

Ma andando più in là nella lettura, la ragione che muove il rifiuto di Rameau ci viene spiegata dallo stesso con parole che hanno un’importanza fondamentale nell’indagine di Diderot sui mutamenti sociali in atto nella Francia di fine Settecento. Dice Rameau:

Tutto quello che so è che vorrei essere un altro, perfino a rischio di essere un uomo di genio, un grand’uomo. Sì, devo confessarlo, qualcosa me lo dice. Ogni volta che ne ho sentito lodare uno, il suo elogio mi ha provocato una rabbia segreta. Sono invidioso. Quando vengo a conoscenza di qualche aspetto degradante della loro vita privata, ascolto con piacere. Questo mi avvicina a loro: sopporto meglio la mia mediocrità (Il nipote di Rameau, p. 13).

Questo passo è rivelatore per non pochi motivi.

Il primo: si scopre che la matrice del rifiuto di Rameau dell’indole geniale di un individuo, non è di natura sociale, ma strettamente individuale: egli è geloso, invidioso di una condizione che potrebbe raggiungere con le sue sole forze, ma a cui non approda per via di ostacoli esterni, come la decadenza culturale e il corrispondente potere della ricchezza e del denaro.

Rameau, ormai, si vede e percepisce sé stesso come un uomo mediocre, della massa, immerso in un assetto sociale di cui non può comprendere le motivazioni e, soprattutto, il senso. Più volte, nel corso del testo, il musicista riconosce la propria indole di “buffone, perdigiorno, scroccone, avido”, ma si tratta di astrazioni fatte su di sé per compensare la scissione interposta tra individuo e società.

Ero dunque geloso di mio zio, e se dopo la sua morte si fosse trovato tra le sue carte qualche bel pezzo per clavicembalo, non avrei esitato a rinunciare ad essere me stesso per trasformarmi in lui (Il nipote di Rameau, p.13).

Queste parole denotano tutta la sconfitta del singolo che appare, così, scisso in sé stesso al punto da poter abbandonarsi e trasformarsi in un altro pur di ottenere fama e gloria. Si tratta di un cambiamento di identità non dissimile da quello operato da Mattia Pascal, poi Adriano Meis: come Rameau, anche Pascal è un uomo che non riesce a vivere la sua separazione con il mondo e con sé stesso; il cambiamento di identità, la trasposizione del proprio essere in un’altra vita sono conseguenze dell’abisso ormai aperto da una civiltà (e non più solo società!) che ha eletto come suoi valori paradigmi alienanti e mistificatori.

Si è, adesso, in presenza di una nuova antropologia culturale che Rameau avverte come estranea e che ne provoca la conseguente scissione: eroe e decaduto.

Quanto appena affermato acquista ancora più legittimità dalla presa di coscienza dello stesso “Je” sulla scissione del suo interlocutore, a cui egli riconosce pienamente una volontà simulatoria, una parte recitata. In più punti, infatti, l’io del romanzo riconosce a Rameau non solo delle qualità forse superiori alle proprie (<<IO: Io sono un uomo semplice; abbiate la bontà di trattarmi più schiettamente, e di lasciare da parte la vostra arte>> (p.47)), qualità, appunto, artistiche, ma anche la finzione delle sue parole e dei suoi atteggiamenti che lo costringono, in ultima analisi, a mettere in dubbio la realtà stessa:

IO: […] Perché, a dispetto del ruolo miserabile, abietto, vile, abominevole, che recitate, credo che in fondo abbiate un animo delicato (Il nipote di Rameau, p. 60).

O ancora:

IO: Di tanto in tanto vi vedo vacillante nei vostri principi. […] Penso alle vostre discontinuità di tono, ora alto, ora basso (Il nipote di Rameau, p. 62).

Dunque a Rameau è riconosciuta un’arte e un ruolo, assieme a un tono che riflette la scissione e la duplicità del personaggio: in questa armonica rappresentazione di gestualità e tono viene espressa, da una parte, la complessità del reale, risultato di una reciprocità tra gesto e suono; da un’altra, l’idea diderottiana di una rappresentazione chiara e che tenga in considerazione tutte le componenti sceniche, dalla musica alla danza, dal parlato alla gestualità.

Il riconoscimento patetico e teatrale da parte dell’interlocutore è, pertanto, il riconoscimento della modernità che caratterizza la figura di Rameau, contraddittoria con il mondo e con sé stesso, attraversata da una lacerazione etico – morale che poi, attraverso il processo decostruttivo attuato dalla filosofia e dall’arte tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, acquisirà una maggiore consapevolezza di sé.

Tuttavia, ciò che qui è importante notare è la grande attenzione di Diderot verso i cambiamenti sociali in atto – e, per certi aspetti, ancora in germe – nella Francia di fine Settecento, mutamenti che hanno concorso allo smembramento dell’individuo: Rameau è l’esempio di tale smembramento.

2.1 Diderot e la rappresentazione della realtà.

Più volte si è parlato di una volontà rappresentativa di Diderot, e non a caso.

L’intero Nipote di Rameau è, in effetti, una grande pièce teatrale volta a cogliere, con le sfumature dei gesti e dei suoni, la complessa organizzazione del reale.

La critica ha da tempo individuato la volontà realistica dell’arte illuminista: a partire dai romanzi di inizio secolo, fino a giungere alla narrativa di Montesquieu, di Voltaire e al romanzo di Prévost la pretesa di verosimiglianza della letteratura settecentesca è stata una costante che ha poi inciso sulla filosofia e sulla sociologia coeva, in un rapporto di interscambio.

Nei suoi contributi teorici, Diderot soprattutto è tra i primi ad affermare, proprio in virtù di questa resa realistica, l’importanza di generi fino ad allora esclusi dalle arti ufficiali: la musica, ad esempio, come la gestualità, all’interno di un’opera e nell’intento paideutico perseguito, acquistano un valore semantico assoluto: essi veicolano un messaggio al pari del testo scritto e del recitato; tale funzione pretende maggior rilievo se utilizzata, poi, in un testo che non prevede alcuna rappresentazione: le sollecitudini testuali che Diderot appone proprio nel Nipote, quasi a voler dividere il dialogo in capitoli, sono delle vere didascalie teatrali volte a rendere più vivida l’immagine nella fantasia del lettore e, a un tempo, più dinamica la scena e più leggera la pagina scritta.

È, questo, un espediente che sottolinea l’attenzione dell’autore alla vivacità e alla riuscita della scena espressa, anche quando si tratti di un dialogo tra due persone presumibilmente sedute.

A proposito di ciò, anzi, l’immobilità fisica del personaggio, a cui corrisponde una sua dinamicità dialogica e, implicitamente, intellettuale, attraverso le didascalie viene meno e si dissipa: dialogo e gesto, idea e azione vengono, così, a ritrovarsi e a riacquistare un equilibrio, per Diderot, necessario (è l’autore e il teorico teatrale, qui, che opera!): i movimenti rappresentati da Rameau, le pantomime improvvisate, i concerti simulati, sono tutti espedienti che tendono a una immediata parificazione tra testo letterario e vita reale, come in teatro; questa operazione radicalizza le posizioni realistiche già proprie della cultura letteraria settecentesca, fornendo al personaggio uno spessore rappresentativo inedito sino ad allora.

Teatro e narrativa, insomma, rappresentazione e narrazione, in Diderot finiscono coll’identificarsi e col confondersi, dando una nuova forma al romanzo stesso e alla struttura romanzesca: ci si allontana dal romanzo quale pura narrazione dei fatti, dando inizio a una nuova tipologia narrativa che troverà, poi, seguito nelle grandi rappresentazioni ottocentesche, quali quelle di Balzac, in Francia, o Manzoni in Italia.

Sotto questo punto di vista, dunque, Diderot mostra ancora la sua capacità di precorrere i tempi dando nuovo spazio e nuovo respiro al genere narrativo; e non si sarebbe potuto operare in maniera diversa, dovendo ormai, sia il teatro che il romanzo, fare i conti con una nuova classe sociale interessata alla vivacità della rappresentazione, più che alla sua coerenza.

In quest’ottica, gli stessi personaggi mutano forma, acquisendo, nella mente del lettore, connotati vagamente comici, che suggeriscono un genere più che un’ identità: così, il filosofo protagonista non ha nome, è un “je” generico conosciuto unicamente per il suo ruolo sociale, quello di filosofo, e non per la sua specificità di essere umano (in un passaggio dai sapori inquietantemente moderni, Rameau afferma: <<LUI: Il mestiere vale quanto l’uomo che lo esercita, e viceversa l’uomo vale quanto il proprio mestiere>> (p.31)); d’altro canto, Rameau ha sì un nome, ma non ha nessuna funzione sociale: sia la società che lui medesimo non riescono a vedere in lui alcuna specificità, alcun ruolo, e il suo nome acquista un senso ironico e beffardo; leggendo il dialogo, man mano che Rameau espone le proprie teorie, si ha come l’impressione che a parlare non sia affatto un uomo ben individuabile, ma un pulcinella disperato, un clown moderno che nasconde nel riso una profonda vena di smarrimento e malinconia: è questo l’effetto straniante che Diderot ottiene attraverso due livelli espressivi: il primo, di carattere antropologico, rimarcando le nuove richieste e i nuovi traumi dell’uomo moderno; il secondo, di carattere puramente strutturale, fornendo al testo, attraverso tecniche teatrali, più vivacità e verosimiglianza.

Il risultato straniante e ambiguo, in cui tutto sembra essere la parodia di tutto, è il grande traguardo raggiunto da Il Nipote di Rameau, in cui classicità e modernità, aristocrazia e borghesia, io e mondo non possono scoprirsi complementari, ma forze opposte che provocano scismi. 


Filippo Casanova

Redazione

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