In fondo

Quando anche l’ultimo quartiere della città implose e gli enormi e grigi palazzi, che a lungo avevano osato sfidare il cielo, si trasformarono in vestigia sventrate e polverose, lasciando a terra cumuli di detriti e calcinacci, decidemmo di metterci in viaggio.  Ci portammo dietro quel poco che eravamo riusciti a raccapezzare nei giorni di frenesia, disordine e irrequietezza che s’erano abbattuti improvvisamente su di noi.

Una carovana rumoreggiante di volti trafelati e intimoriti invase l’arteria principale, che tagliava in due l’agglomerato urbano, e marciò in direzione sud, tentando di superare i confini della metropoli fantasma. Nella canicola asfissiante di metà estate si camminava però lentamente e il passo di uno seguiva cadenzato e certosino il passo dell’altro, perché gli occhi non riconoscevano più i paesaggi circostanti, vaste pianure gialle e verdi, avvolte da grano e girasoli, che si susseguivano sinuose e ondulanti, a volte gonfiandosi dolcemente, a volte avallandosi come mani incrociate. La nostra consapevolezza del mondo si interrompeva dopo l’ultimo caseggiato di periferia che ci eravamo lasciati alle spalle al calar del sole, mentre riflessi arancioni abbracciavano gli sguardi stupiti e le paure intermittenti. Il luccichio di un’unica stella, vibrante nel blu opaco e immenso, aveva poi inondato il volto delle donne più anziane di uno stupore che non avevo mai colto in precedenza. Risate trattenute seguirono quella notte e facce rivolte in su, ad afferrare la brezza che spirava rapida e vorticosa, segnale beneaugurante e premonitore. Il cammino riprese il giorno seguente, sotto l’occhio ardente della palla infuocata, ma ancora l’ignoranza del destino rallentava la gamba e l’andatura.

Un tale, dal piglio puntuto e il sorriso sornione, s’era messo sin dalle prime ora in testa alla fila con intraprendenza e caparbietà, sostenendo che un giorno, non molto tempo addietro, origliando una delle conversazioni tenute segretamente nelle grandi aule, aveva sentito parlare di infinite distese d’acqua blu cristallina e di strisce di sabbia scottante, e di vento fresco e riposante, e di pesci e di rocce monumentali.

«Se tutto questo esiste, e io credo proprio di sì, deve trovarsi a sud, ne sono certo» andava ripetendo, non senza un pizzico di fastidio e malizia, a chi lo interrogava curioso e scettico.

C’eravamo fidati perché non si poteva far altro, nessuno si era preso la briga di proporre destinazioni differenti e la voglia d’arrivare da qualche parte, di sistemarsi e respirare, dopo anni di fumo e piombo e caligine, era troppa per tergiversare e intavolare ulteriori discorsi.

Le pianure divennero in seguito promontori aridi e brumosi, le stagioni s’accavallarono rapide e striscianti, e il pellegrinaggio si fece ancora più arduo e silenzioso. Qualcuno cominciò a storcere il naso, a iniettare dubbi malevoli nelle orecchie del compagno vicino, a farfugliare sommessamente con espressione torva. Altri, spinti dalla disperazione della fatica e dell’ignoto, iniziarono persino a rimpiangere la vita passata, quella che eravamo stati costretti per nostra fortuna ad abbandonare, ipotizzando repentini cambi di marcia e precipitosi ritorni in contrade anguste e maleodoranti, oramai tetre e desolate.

Tanta strada avevamo percorso e molti dirupi e affossamenti e valichi avevamo superato, attenti a non lasciare indietro nessuno, a preservare il seme sballottato della nostra umanità, e i villaggi che speravamo di incontrare s’erano palesati solamente sottoforma di sogno o miraggio. Sembrava che il mondo si fosse prosciugato insieme con i suoi abitanti, eppure andavamo avanti, i piedi induriti e le schiene indolenzite, agognando panorami accoglienti e ristoratori, l’eco d’una campana, il nitrire d’un cavallo o il canto di bambini giocosi.

A guidarci erano l’inerzia più indolente, l’istinto bramoso della pura sopravvivenza, l’attaccamento angosciante ai rimasugli di un futuro sconosciuto e impalpabile. Eravamo liberi adesso, avviliti, stanchi, tristi, ma liberi, e liberamente avremmo accolto la morte che pareva attenderci ad ogni miglio, ad ogni tornante sdrucciolevole.

Fu all’alba di uno dei primi giorni del nono mese di quel viaggio estenuante che infine la vedemmo, scostando di poco le siepi d’una radura, e ci chiedemmo istupiditi se fosse già il paradiso o una sua proiezione terrena o l’inganno di un diavolo. Una tavola d’acqua limpida e celeste, in cui onde schiumose montavano a tratti irrequiete e violente, si estendeva sino a rompere la riga dell’orizzonte, oltre le colline e i sentieri sterrati, e i nostri sguardi ammaliati e i dubbi furono finalmente sciolti, e le braccia rivolte al cielo. Tra urla di preghiera e di benedizione, nel rumore assordante di pianti, di singulti e strepitii di commozione, mi sembrò di spezzare le catene di una maledizione secolare, di rinascere una seconda volta, stretto dalle mani accaldate di mia madre, le cui lacrime mi bagnavano le guance e le spalle. Mi divincolai dal suo abbraccio primordiale e presi a correre come un forsennato, indifferente ai severi richiami di coloro che, increduli sino alla cecità, comandavano cautela e attenzione.

Correvo come se non avessi mai fatto altro, correvo e basta, affiancato dai miei giovani e festanti compagni che gridavano ruzzolandosi e strattonandosi, inneggiando motti d’euforia e di contentezza ferina e irrefrenabile.

Correvo incespicando, zompettando tra i rovi e le boscaglie, e grondavo stille di sudore dalla fronte, che venivano giù come la pioggia obliqua e battente che aveva salutato la nostra confusionaria fuga molto tempo prima, e vedevo di fronte a me l’acqua bella e indomita, acqua infinita ed eterna e i faraglioni di roccia acuminata posti a guardia della spiaggia e dei suoi tesori, molossi d’arenaria vigili e guardinghi, la cui fierezza s’ergeva ora piena e vigorosa davanti alle nostre facce imperlate e rubizze.

Quando fummo arrivati, i nostri corpi tesi a lambire la superficie acquosa e misterica, innalzammo un canto d’amore alla vita ritrovata e al futuro ridente e ci gettammo in acqua insieme e l’acqua era fredda e scossa e perturbante, e l’acqua adesso eravamo noi, e dentro l’acqua ci perdemmo, dentro l’acqua conoscemmo una verità indicibile. 


Niccolò Amelii

Redazione

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