Un’arancia.
Voglio un’arancia, grossa come il mio pugno.
Rossa, di quelle dolci e aspre. Fibrosa.
La voglio addentare male, così mi rimarranno tutti i fili tra i denti.
Il sole è alto in cielo, così alto che mi disorienta.
Guardò la gobba di una collina e spinse con i piedi con più forza.
«Cazzo!» urlò.
Abbassò lo sguardo per scoprire che aveva perso una scarpa.
«No, no, no!»
Si guardò attorno. Tornò sui suoi passi, ma solo di qualche metro. La vegetazione, tutta uguale, lo circondava.
Poggiò i palmi delle mani sulle ginocchia, sopraffatto.
Si trascinò il piede con il calzino di spugna che ormai aveva la pianta sporca di terra. Era sicuro che su quel promontorio avrebbe trovato un albero pieno di arance. Avrebbe strappato la buccia, avrebbe sentito il liquido colargli tra le dita, che si sarebbero appicciate tra loro.
«Pulisciti un po’ ste mani che ‘nguacchi tutto!» lo rimproverava quella donna meravigliosa che gli tornò in mente.
Del suo viso ricordava le fossette quando sorrideva, gli occhi limpidi come il mare di Pianosa. C’erano stati insieme a Pianosa, a pagaiare su un kayak, in un tour guidato della costa, su quella distesa d’acqua così trasparente che pareva di galleggiare in aria.
Ma i capelli di lei erano diversi allora: rossi, lucidi. Mentre lo sgridava erano disordinati, spenti. Il suo viso non era più tondo, gioioso. Le guance si erano sgonfiate, riempite di chiazze caffè-latte come il dorso delle mani. Non sorrideva, aveva la fronte corrugata dalle preoccupazioni e lo guardava sempre come se fosse infastidita dalla sua presenza.
Si tolse il giaccone. Nonostante la tramontana gli tagliasse la faccia, il sole bruciava un accidente come nelle peggiori giornate estive. Lo lasciò cadere per terra.
Tornerò a prenderlo una volta che avrò preso le mie arance.
Camminò finché il terreno non si fece scosceso. Per arrivare in cima alla collina si dovette aggrappare alle radici di alberi che sbucavano dalla terra come talpe.
Com’è che si chiamano questi alberi?
Allungò la mano libera per raggiungere un frutto piccolo, ovale. Lo staccò e se lo portò al naso. Aveva un odore persistente, familiare, che si sarebbe sposato perfettamente con il pane e pomodoro.
«Che bella questa oliva. Sì. Oliva!» esclamò, continuando a studiarla.
La conservò in tasca e riprese la scalata. Fu in cima nel giro di dieci minuti. I palmi sanguinavano. Le braccia erano indolenzite, e le gambe, che bruciavano dalla fatica, avevano scaricato tutto il peso sulle ginocchia che scricchiolavano a ogni movimento.
Le caviglie infine subivano il peso della panza a cocomero che si trascinava davanti.
Quand’è che sono ingrassato? Facevo salto in alto, un tempo. Lontano. Sì, ma quando? Troppo lontano per ricordarlo.
Certamente più lontano del posto in cui aveva perso la scarpa.
Si guardò attorno. Ancora piante, alberi, rovi, terra spaccata, erba alta pettinata dal vento.
Prese un bel respiro e poi soffiò con energia, sperando di liberarsi di una strana angoscia che gli schiacciava il petto.
Scorse una macchina talmente distante che si ricordò dell’enorme plastico che aveva costruito. Dov’è che l’aveva costruito? Un plastico di…
Fermò il flusso dei pensieri. C’è qualcosa di più urgente di cui preoccuparsi.
Non posso stare qui. Così mi troveranno.
Si piegò in fretta, come dovesse schivare un missile lanciato all’improvviso, ma nel farlo perse l’equilibrio e rotolò giù dal versante opposto. Superò due file di alberi, ma ne prese in pieno uno che spuntava al centro.
Crack. Rimase senza fiato per un sacco di tempo, la schiena contro il tronco nodoso. Sentì la gola ingrossarsi e i polmoni avvizzirsi. Poi, per qualche assurda ragione, ripresero a funzionare.
«Dio!» si liberò.
Restò immobile per alcuni minuti. C’era una calma benefica che distendeva i pensieri. Si nutrì di essa per soffocare la paura che lo stava sbranando.
«Renato, è pronto! Scendi dalla macchina e vieni a lavarti le mani».
Aveva otto anni, forse. Era magro come una cavalletta. Le mani erano perennemente incollate a quel maledetto volante, enorme, sottile. L’odore di pelle dei sedili poteva sentirlo fin lì.
Io mi chiamo Renato.
Chi lo stava chiamando? Una voce acuta, ma rassicurante, non di quelle che quando gridano grattano i suoni.
«Arrivo mamma!» gli venne spontaneo.
Rotolò lentamente faccia in giù. L’odore di terra gli entrò nelle narici, ma non fu fastidioso, anzi gli diede qualcosa di solido a cui ancorarsi.
«Mamma, arrivo!» ripeté, questa volta gorgogliando.
Ma da quale macchina doveva scendere?
Ah sì, la sua macchina. La Tipo rossa.
Mentre cercava di ricordarsi dove l’aveva lasciata, provò a spingere con le braccia, contrastando la gravità e una fitta tremenda tra le scapole.
Riuscì a mettersi in ginocchio e puntò la scarpa al suolo, sostenendosi con la mano sulla coscia. Una volta ritto sulle gambe, ebbe un attimo di sbandamento. Si passò una mano sulla testa sudata.
Discese il pendio abbandonando, stavolta, il peso ai tronchi degli alberi.
Quando raggiunse la pianura, sentì un fruscio di foglie alla sua destra. Si voltò a guardare. Attese che ciò che c’era dietro qual garbuglio selvatico si materializzasse.
Una bestia enorme dal pelo ispido e grigiastro lo puntò. Doveva pesare almeno cento chili.
Renato si toccò la cintura istintivamente come se per magia dovesse materializzarsi qualcosa con cui difendersi. Ci trovò solo il fodero vuoto del coltello.
Lo studiò.
Quasi quasi, visto che sto qua, vado a caccia di funghi.
Si rese conto immediatamente che quell’idea era irragionevole in una situazione simile.
Il cinghiale grugnì. Era spazientito. Avanzò lentamente, poi si fermò per marcare il punto di partenza.
La saliva nella bocca di Renato divenne talmente amara da volersi strappare la lingua.
Eccolo che carica!
Uno scricchiolio di ruote sulla terra arida. Renato ebbe l’impressione che il cinghiale avesse sgranato gli occhi per una frazione di secondo prima di scomparire dietro i cespugli.
Sono loro.
Renato si allontanò più in fretta che poté. Scostava i rami degli alberi con foga, ma alcuni gli frustravano il viso lasciando segni rossi sugli zigomi, sul collo e sulla fronte.
«Renato!» lo chiamavano preoccupati, ma lo sapeva che era tutta una farsa.
Erano più numerosi. Avevano chiamato i rinforzi.
«Renato!» insistevano.
Le arance, cavolo!
Non c’era più tempo per quello. Se lo avessero catturato gli avrebbero riempito il corpo di spilli, infilato la testa in un alveare oppure l’avrebbero costretto a mangiare aglio crudo fino a farlo piangere.
Il sole stava cominciando la discesa, ma Renato non poté vedere in che direzione. Ciò che contava era andare, il più lontano possibile da loro.
Duecento metri dopo, finì con i piedi in uno stagno. Il calzino s’inzuppò completamente e il freddo gli entrò nelle ossa diffondendosi in tutto il corpo.
Non c’era altra soluzione, se non infilarsi nel canneto. Non ci pensò due volte. Le canne erano alte e strettissime. Passarci in mezzo fu faticoso. Ci rimase incastrato.
Due grossi pastori tedeschi gironzolavano attorno allo stagno. Renato riusciva a scorgerli alla fine del canneto. Annusavano smaniosi e si lagnavano. L’acqua li aveva depistati proprio come aveva sperato. Solo dopo venti minuti si allontanarono.
A quel punto Renato spuntò su una stradina spianata. Si guardò attorno e prese per un sentiero che tagliava in due un campo di prugne. Dovette camminare parecchio prima di trovare un segno che gli facesse pensare che la civiltà fosse passata per quei luoghi. La casetta che avvistò in lontananza gli fece ben sperare. Ci vollero più di dieci minuti per arrivarci, ma solo quando poté osservarla da vicino, si accorse che della vita contadina all’interno era rimasto solo lo scheletro: le pareti di mattoni erano sdentate, quella del retro addirittura mezza abbattuta; le finestre parevano bocche rettangolari che vomitavano rampicanti, il tetto era sventrato per metà, una porta di legno marcio era poggiata alla sinistra di quello che una volta era l’ingresso.
Renato entrò lo stesso. Strappò la matassa di piante a mani nude per farsi spazio. Si ricavò un angolino subito a destra. Si sedette per terra, la schiena contro i mattoni. Solo allora il sangue pompò nel piede scalzo un dolore tremendo. Si sfilò il calzino e vide che la pianta era spaccata nel mezzo. Il taglio era profondo e si stava infettando. Si tolse la scarpa e si scambiò i calzini, in modo da proteggere la lacerazione.
Poi si raggomitolò, stringendosi forte alla sua camicia a quadri di lanetta.
Lì vicino c’erano i frammenti di una bottiglia, che catturarono l’ultima luce del giorno per restituirgli il riflesso di un anziano che non aveva mai visto. Si specchiò a lungo. Poi la tramontana prese a sferzare con più forza e il cielo cominciò a sanguinare.
Mi avrebbe fatto proprio comodo il mio bel cappotto.
La mente però indugiò poco su quel desiderio di protezione. La stanchezza ebbe la meglio e le palpebre calarono sui suoi occhi come le serrande di un locale a fine serata.
Si risvegliò qualche ora dopo. Il cielo si era scurito. Renato alzò lo sguardo per contare le stelle in cerca di conforto. In aperta campagna splendevano con maggiore intensità. Una manciata di parole affiorò sulle labbra secche:
Stella che cammini
Nello spazio senza fine
Fermati un istante solo un attimo
E ascolta i nostri cuori
Caduti in questo mondo
Prese a cantarle per ritrovare la forza che aveva sparpagliato durante la fuga.
E a noi che siamo sempre soli
Nel buio della notte
Occhi azzurri per vedere
Questo amore
Grande, grande, grande
Silvana.
Renato sentì la mano destra scaldarsi. Riconobbe il calore di quella del suo grande amore. Sorrise debolmente. Ripensò alle sue dita affusolate, eleganti, impreziosite di anelli d’argento intrecciati. Quanto le aveva baciate quelle mani, le aveva tenute sulle labbra fino ad assuefarsi al loro profumo di sapone.
Era stato secoli fa. O solo anni.
«Aiuto!» gridò alla notte.
Pochi istanti dopo qualcosa di peloso si strusciò sulla caviglia scoperta. Arrivò fino ai suoi polpastrelli e cominciò a rosicchiarli. Tirò via la mano di scatto. Lo squittio innocuo si triplicò e nel giro di qualche secondo fu circondato da luccichii di occhi famelici. Si mise rapidamente in piedi, per quanto gli fu possibile. Allungò il braccio per aggrapparsi alla parete a cui era fissato lo stipite della porta d’ingresso e infilò l’uscita.
Il sonnellino aveva permesso ai suoi muscoli di riposare il necessario per riprendere il cammino. Questa volta, però, invece di proseguire, si girò su se stesso assecondando un riflesso del corpo.
Devo portare le arance buone a Simonetta. Ne va pazza.
Mi rimprovererà di nuovo per le mani sporche.
Scoppiò a ridere, ma quasi immediatamente le lacrime gli appannarono gli occhi.
Dove sei, Simonetta?
Affrettò il passo. L’oscurità attorno si specchiava in quella della sua mente, in cui vorticava un frullato di sensazioni, spasmi di un passato che non voleva morire, immagini prorompenti di un presente frammentato che lo spingeva a perdersi in un luogo senza coordinate. In nessun luogo.
Una scossa percorse il lato sinistro del suo corpo mentre correva verso le braccia di quella donna che chiamava Simonetta. Si arrampicò sulle sue costole e s’avvinghiò al centro del suo petto. Le gambe si piegarono come deboli ramoscelli. Finì ginocchia a terra. La mano sul cuore non servì ad arginare il dolore che era straripato nel collo, nella pancia. Caracollò sulla terra inumidita dalla notte. La testa giacque immobile, sul lato destro, mentre i suoi occhi rimbalzavano in tutte le direzioni, in cerca della via del ritorno. Ma verso dove?
Era buio. Le direzioni si erano fuse in un’unica traiettoria che si ripiegava su se stessa fino al punto di partenza, in un andirivieni senza via di uscita.
A un tratto la sua pupilla s’incollò a un sfolgorio abbagliante. Che si trattasse di una visione celestiale o del disperato bisogno della sua mente di restare aggrappata alla realtà?
Cominciò a muoversi, quella stella, divenne una lama di luce pallida, che apriva la strada a un fastidioso brusio.
Presto. Fate presto.
In un lasso di tempo che parve compresso, accadde che qualcuno lo sollevasse per le braccia, mentre qualcun altro gli trafiggeva gli occhi con una torcia.
«Renato mio!»
Quella voce era…
La donna di Pianosa.
Renato ordinò alla testa di muoversi, ma penzolava come quella di una gallina strozzata.
«Renato mi sente?» domandò, questa volta un uomo «Fate presto con quella barella!»
Gli aveva tolto le parole di bocca.
«Oh Renato! Che t’è successo?» chiese la donna di Pianosa.
«Credo abbia avuto un’ischemia» rispose il dottore.
La luce sparì e tra le ciglia mezze chiuse riconobbe finalmente il suo volto. Era sfocato, ma era sicuro fosse lei.
«S…» provò a dire qualcosa.
«Shhh! Non ti stancare, vita mia.» lo fermò lei.
Lo caricarono su un’ambulanza; lo capì dalle luci cadaveriche e l’odore di ospedale.
«Andrà tutto bene».
Ora poteva vederla chiaramente. Tenne lo sguardo fisso su di lei per tutto il tragitto. Simonetta. La sua casa.
Paolo Ippedico nasce a Pisticci il 26/01/1986. Nel 2013 si laurea in Scienze della Comunicazione presso l’UNIBAS di Potenza. Lo stesso anno si trasferisce a Roma, dove frequenta il Master di I livello in Sceneggiatura e Drammaturgia presso l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, seguito da uno stage presso la Wider Films di Giovanni Cassinelli. Nel 2015 è semifinalista al concorso Short Film Production Fund di Los Angeles con lo script del cortometraggio No Place like Home. Negli anni ha lavorato come assistente alla regia prima per il film Una domenica notte di Giuseppe Marco Albano e poi per alcuni videoclip musicali. A Febbraio del 2021 pubblica Quälen, racconto contenuto nella raccolta I Racconti della Sesta Luna (Edizioni All Around).Attualmente lavora come traduttore per Marcos Y Marcos.