La crapula

Sembrano danzare, all’occhio poco allenato, ma sono movimenti privi di grazia, quelli messi in scena, e senza gioia.

Uomini e donne che si affannano in una baraonda, che gridano per richiamarsi e corrono per fare prima. Succede che qualcuno inciampi, a volte, perché si muovono alla luce tremula delle candele e il pavimento è sudicio e scivoloso. Allora i convitati fanno a gara ad additare il malcapitato, a coprirlo di insulti e gettargli ossa, pezzi di pane, bucce e qualsiasi altra cosa gli capiti a tiro.

E se il baccano cresce ancora, se supera gli schiamazzi, le risate dei bambini e i canti dei musici, allora il Re in persona potrebbe alzare gli occhi dal piatto, pulirsi la barba con uno straccio e ordinare che il poveretto sia preso e fatto frustare. Che nessuno pensi di poter sbagliare di fronte al Re.

In una gozzoviglia del genere non è strano che un ragazzino passi inosservato, anzi, alle volte persino le bestie nelle gabbie non ricevono che uno sguardo; lo stupore che dovrebbero provocare surclassato dai prodigi dei mangiafuoco o dalle forme di una nuova e seducente ballerina. Sembra che tutti siano distratti da qualcosa, ed è così, non sono di certo lì soltanto per le pietanze ed il vino ma Merlino teme che non aspettino altro che giudicarlo. Porta il nome di un grande mago, ma non è altro che un servitore.

Se glielo domandaste, vi risponderebbe che è Re il suo padrone, ma non è così. In realtà chiunque si sente in diritto di urlargli ordini. I cortigiani preferiscono che siano i servi a sobbarcarsi la fatica e ad assumersi i rischi, e così oggi l’Arciduca ha deciso che dovrà essere proprio Merlino a consegnare un messaggio all’Arcivescovo, all’altro capo del tavolo.

«Ma Signore, dovrò già occuparmi delle vettovaglie, et pulire in terra et sincerarmi che lor signorini i duchi non si facciano male, et…»

«Ma tu allora, tu allora vuoi farmi arrabbiare, tu, tu…», e cerca le parole, cerca i nomi per ingiuriarlo, per costringerlo a obbedirgli.

«Com’è che ti chiami?».

«Merlino».

L’Arciduca ride, e con lui ride anche un cortigiano che nel frattempo gli si è seduto di fianco. La faccia rossa di vino, la barba bagnata dal brodo, ripete: «Merlino!». E ride ancora, ride per l’accostamento di quel nome tanto antico a quel ragazzino cencioso.

«Sai, fosse per me», aggiunge, pulendosi le dita con la lingua, «fosse per me, alle serve sarebbe vietato dare nomi sì nobili ai bastardi come te».

Al disprezzo è abituato, e pure all’obbedienza, ma ciò non significa che ne comprenda i motivi. Ogni volta che è costretto a sottostare a quei capricci non può fare a meno di domandarsi perché alcuni uomini sono nati per comandare e altri per obbedire.

«Se non lo porti…», comincia l’Arciduca.

«Andrò, mio signore».

L’Arciduca sorride. Un sorriso senza colore, i muscoli del volto mobilitati solo laddove strettamente necessario. Gli fa scivolare in mano un pezzetto di carta arrotolato, macchiato e ingiallito, ed è strano, perché di solito la corrispondenza tra nobili non si presenta in questo stato.

«Et devo…»

«Devi portarlo all’Arcivescovo. Devi portarglielo subito. Et non devi farne parola con nessuno».

Ciò detto, l’Arciduca torna a rivolgersi agli altri commensali e Merlino torna a essere il fantasma che è sempre stato. Si volta mentre una banda di nani entra in sala portando stoffe e banane dall’Est e una donna con il corpo ricoperto di tatuaggi si aggira a piedi nudi tra le tavolate. E tutti questi saltimbanchi, tutte queste nobildonne, questi preti, questi cretini, cercano più di ogni altra d’ingraziarsi il Re – chi con un racconto, chi con il ricordo di un’impresa – ma quello, che Re ci è nato, ch’è caduto sul trono allo stesso modo in cui un contadino si ritrova a gridare in una stalla dopo essere venuto al mondo, non ha orecchie per quelle canzoni né occhi per quei nani e quei tatuaggi. Lui vuole solo la pace. Pace per sé, pace per la sua Regina, pace per le sue amanti e i suoi bastardi. E poi, soltanto alla fine, pace per il suo regno. Che nulla cambi, che nulla cambi mai. E mangiamo e beviamo in fretta, prima che la carne si freddi e la birra diventi piscio.

Sui tavoli, disposti a ferro di cavallo attorno al trono, abbondano i corpi di conigli, di quaglie e di trote, che si sa, l’uomo deve dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra.

Merlino torna nelle cucine, in quel calore, in quella puzza, e subito una delle serve gli si fa vicino.

«Allora? Che ti ha detto l’Arciduca?».

Lui prova a scansarsi, ma quella gli si para davanti e glielo chiede di nuovo.

«Arciduca? Macché Arciduca e Arciduca, io…»

«Ti ha dato qualcosa, l’ho veduto da qui».

«Ma tu non stavi lavorando?».

«Che ti ha detto l’Arciduca?».

Allora Merlino la prende per un braccio e le sussurra: «se te lo dico et tu lo dici a qualcuno, quelli mi ammazzano. Ma prima che mi ammazzano, io vengo qui et ammazzo te. Mi hai compreso?».

Lei fa cenno di sì con la testa e tanto basta.

Tutto intorno, nugoli di servi escono ed entrano nelle cucine con botti piene e vuote, piatti grandiosi e cumuli di ossa spolpate e sputate, a seconda del verso di percorrenza e di marcia.

Merlino e la sua bella restano a guardare ancora per un momento la grande sala del trono, i suoi arazzi, la sua folla, le sue grida, come fossero lì per la prima volta, come non ne facessero parte. Poi arriva uno dei cuochi e a calci li costringe a tornare al lavoro.

Mentre corrono, con i commensali che si sentono in dovere di toccare la donna e di sputare all’uomo quando non è abbastanza veloce – e non lo è mai, a sentir loro – lei riesce a domandargli: «Ma si può sapere che cosa c’è scritto?».

«Et io come faccio a saperlo? Ho solo ordini di consegnarlo all’Arcivescovo. Io non mi ci immischio, in queste cose».

Quando finisce con le porzioni di carne, il sudore gli cola sulla schiena e gli bagna i polsi. Si avvicina alle cucine, ma anziché entrare, si volta e torna in sala.

Non si è neppure avvicinato ai tavoli dell’Arcivescovo che una delle guardie si alza dalla panca e barcollando gli si fa incontro.

«Altolà! Di qui non puoi passare».

«Ho un messaggio per l’Arcivescovo» dice, e mostra quel pezzetto di carta tutto sgualcito. La guardia sta per scacciarlo di nuovo quando arriva un superiore.

«Che succede?» biascica. Ha gli occhi rossi e la divisa piena di briciole e di pezzi di pollo.

«Questo straccione qui dice di avere un messaggio per Sua Signoria».

«Un messaggio? Et da parte di chi?».

«Ah, non lo so. So solo che è un…».

«Sta’ zitto, tu. L’ho chiesto a lui, non a te» urla, e indica Merlino.

«Il messaggio è da parte di Sua Signoria l’Arciduca».

I due soldati si guardano. È uno sguardo lungo, che dice più di quanto non sembri. Poi quello più alto in grado allunga una mano e si fa consegnare il biglietto. Sussurra qualcosa al suo sottoposto, e quello allarga le spalle e posa una mano sullo spadone che tiene sul fianco.

Il seguito dell’Arcivescovo è una fauna variegata. Ci sono soldati, preti, bambini che portano grosse Bibbie rilegate con delle cinghie di cuoio. E poi ancora un pittore, un assaggiatore, un avvocato, due uomini di fatica, una serva, un’altra, un muto e un levriero. Così, il soldato con il messaggio deve scansare tutti quegli uomini e quelle donne, ognuno servo a modo suo, ognuno servo nei confronti del proprio padrone – chi legato al guinzaglio, chi incatenato per la paura, la fame o a un figlio segreto.

Il soldato si avvicina a uno dei preti, si ricompone, prende un bel respiro e gli sussurra qualcosa all’orecchio. E il biglietto passa di mano in mano ancora una volta, e alla fine arriva davanti ai santi occhi dell’Arcivescovo. E le pietanze spariscono dai piatti, e delle ballerine danzano al centro della sala proprio sotto il lampadario dalle mille candele, e i cani del Re si riposano di fronte all’enorme camino, e dall’altro lato del ferro di cavallo all’improvviso l’Arciduca e i suoi si alzano dai loro posti con un gran baccano, e gettando all’aria le sedie e i boccali pieni a metà lasciano la sala del trono.

Merlino vede il volto dell’Arcivescovo contorcersi in una smorfia, sente i suoi pugni sbattere sul tavolo. Il messaggio non è stato di suo gradimento. Un bicchiere cade e rotola in terra, il levriero comincia a ululare. E il soldato, quello di prima, quello che non vedeva l’ora di menare le mani, quello che è rimasto con Merlino per tutto quel tempo, lo prende per le spalle e lo fa inginocchiare.

Le guardie estraggono le spade, pronte a rispondere alle offese della penna, e l’Arcivescovo, la voce stridula per il vino, per quel rosso sangue di Cristo, urla che il servo traditore sia preso e portato in cortile. E a niente valgono le preghiere e le suppliche del ragazzino: che nessuno pensi di oltraggiare un vescovo e passarla liscia.

Il Re ha ancora il calice pieno, ma chiede dell’altro vino. Non vuole correre il rischio di restare senza quando il bicchiere sarà vuotato. Ordina un’altra damigiana, ma non sente neppure la risposta che il suo vecchio servitore gli sta gridando.

«Ma insomma, si può sapere che cos’hanno tutti da urlare? Sono arrivate le donnacce et non sono stato avvisato?».

«Oh no, Sire. Credo si tratti di un’esecuzione ma Sua Maestà non se ne deve preoccupare. È solo la testa di un servo».


Matteo Candeliere è nato a Torino nel 1990. Si è laureato in Psicologia e suona la chitarra in una band: “Gli Alberi”. Ha pubblicato racconti su Blam, Pastrengo, Micorrize, Bomarscé, Narrandom, Il mondo o niente, Spazinclusi e altre riviste letterarie.

Redazione

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