Le ginocchia fanno male. Sono appesantite. La mobilità non è ridotta. Il colore è normale. Non gonfie. Più tonde. Meno toniche. Nulla. Solo pesanti. Come se i problemi si riversassero in quel punto. Nel collegamento tra coscia e tibia. Nel nervo centrale delle gambe. Piega e stendi. Piega e stendi. Cammina. Muoviti. Il dolore nasce. Scende giù. Attraversa tutto il corpo. L’ansia. I tic. Gesti veloci di cui nemmeno ci accorgiamo. Sto affondando, forse. E le ginocchia ancora mi sostengono. Accumulano. Potrebbero esplodere. Come le teste in quei film splatter pieni di vernice: boom…. rosso che sgorga sulle pareti. Sul pavimento. Sulla faccia di chi è intorno. Così grotteschi da essere ridicoli. Anche la morte processata. Si può ridere di tutto. Di teste che esplodono. Di gente che muore. Del dolore che provoca. Di ginocchia gonfie. Pesanti. Identiche a quelle di sempre. Non sono malate. Rotte. Sfregiate. Scheggiate. Sono solo contenitori. Accumulano.
La dottoressa è una ragazza giovane. Camice bianco. Sotto, un maglione e un jeans. Non quelle tute blu. Arancioni. Verdi. Quelle che si vedono in Scrubs. Allora è tutto falso? I medici lavorano con i loro vestiti? Sudano. Si sporcano. Curano le persone. Cazzo. I medici curano le persone. Anche se sono giovani. Anche se fino a qualche giorno fa ascoltavano un vecchio professore dietro una scrivania. Magari con un microfono. Un telecomando per le slide. Disegni. Nomi. Schemi. E ora persone. Certe volte sembra tutto un’impalcatura inutile. Fanno. Dicono. Insegnano. Studiano. Passano esami. Poi feste nei locali. Ansia nelle camerette. Tirocini infiniti. Lauree incredibili. E non sai nulla. Sei in un ospedale e curi le persone. Esperienza, maestro. L’esperienza ci insegnerà qualcosa. Intanto sono passati trent’anni e siamo alla decima stagione. L’interesse è finito. I personaggi hanno detto quanto avevano da dire. Il budget è finito. La dottoressa ha i capelli biondi. Un paio di occhiali che cercano di essere il meno visibili possibile. Qualcuno dice: già che li devi indossare, prendili belli, evidenti. Che migliorino il volto. Non cercare di nascondere qualcosa. Non vergognarti di nulla. E la verità e che, poi, alla fine, ognuno fa come cazzo gli pare.
Le ginocchia le sento pesanti, dico. Non so, certe volte, mentre faccio la spesa, sento che potrebbero spezzarsi. Tagliare di netto le mie gambe e farmi ritrovare a terra, le dico. Con tutti che mi guardano e mi ripetono che è una disgrazia. Che sono sfortunato. Che sta arrivando l’ambulanza, dico. Rimane in silenzio. Io mi fermo. Ho messo un paio di pantaloncini corti. Così da non dovermi spogliare. È sempre un confine indefinito. Mi spoglio. Tu sei giovane e bella, io giovane e normale. Mi spoglio per farti vedere le mie ginocchia. Tu sei una dottoressa. Io un paziente. E già che ci siamo. Già che io sono in boxer. In uno studio chiuso a chiave. Su un lettino con un telo che lo copre. Già che ci siamo. Scopiamo. Così per evitare questi pensieri. Mi sono messo il pantaloncino. Anche se fuori piove e fa freddo. Tanto in macchina c’è il riscaldamento. Nello studio pure. E il tragitto parcheggio/entrata è davvero breve. Quindi non dovrebbe succedere proprio nulla. A me sembrano delle ginocchia apposto, dice lei. Si alza. Tocca la rotula. Come fosse una trottola. Quei Beyblade che compravo all’edicola. A cui cercavo in tutti i modi di affinare le punte. Per renderli più taglienti durante i combattimenti. Sui banchi. A ricreazione. Tre. Due. Uno. Lanciate! Le punte si incastravano con quelle delle trottole nemiche e una delle due si fermava. Gloria o disperazione. E poi così. All’edicola di nuovo. Prende il polpaccio. Stende la gamba. La tiene come una canna da pesca. Piega. Stende. Piega. Stende. Il movimento è fluido, dice. Non senti dolore? chiede. Scuoto la testa. Non sento dolore. Il movimento è fluido, ma non è lì il problema, dico. E dove allora? chiede. Lascia le ginocchia. Torna a sedersi. Mi guarda. Anche se i suoi occhi mi sembrano andare oltre. Quasi oltrepassare la mia fisicità. Un fantasma su un lettino verdognolo. Forse è solo una paranoia, dico. Una cosa su cui mi sono fissato, continuo. Ma credo che le mie ginocchia siano più pesanti. Le osserva di nuovo. Pesanti in che senso? risponde. Numericamente intendo, dico. Cioè se potessi staccare il mio ginocchio e pesarlo, la bilancia segnerebbe un paio di chili in più rispetto al ginocchio di un mesetto fa, credo. Intende staccarsi le ginocchia? chiede. O no no, per nulla al mondo, solo ipoteticamente, in una realtà in cui staccarsi le ginocchia e pesarle è una prassi, una realtà parallela. Guarda il soffitto. I suoi occhi sono castani. Anche se castani sono i capelli, di solito. Ma sembra proprio lo stesso identico colore che si usa per descrivere i capelli. Castani. “La ragazza ha lunghi capelli castani che scendono sulle spalle”. Ecco. Quel castani. Quel colore che arriva leggendo questa frase. È lo stesso colore dei suoi occhi. Certo sarebbe strano staccarsi le ginocchia, dice. Certo, potrebbero venire via da un momento all’altro, dico. In che senso? dice. Se ipotizzassimo una realtà in cui staccarsi le ginocchia è un gesto quotidiano, allora tutto l’apparato che mantiene il ginocchio, a furia di toglierlo e metterlo, toglierlo e metterlo, si consumerebbe e così le ginocchia non sarebbero più solide, dico. Avevo un paio di occhiali da bambino a cui staccavo e riattaccavo la vite durante le interrogazioni, continuo. Una specie di tic contro l’ansia, dico. E a furia di mettere e togliere, il foro in cui la vite entrava perfettamente si è allentato e la vite ha iniziato ad uscire da sola, senza controllo e gli occhiali ad aprirsi quando volevano, dico. Ecco, immagino una cosa del genere, concludo. Non so bene il perché della storia. Beh… certo avrebbe le sue conseguenze, dice. Mentre aspetti il pullman, in piedi, metti forza solo sulle tue gambe e tac…. fuori il ginocchio e butti giù la schiena per raccogliere la rotula e rimetterla al suo posto e intanto blocchi la fila e la gente ti supera saltandoti sulla schiena e cose del genere, sarebbe delirante, dice. Oppure stai giocando a pallone in un campo, magari con l’erba non troppo curata, fai uno scatto per recuperare un pallone e tac…. via il ginocchio, una rotula maledetta e si ferma la partita e tutti iniziano a cercare nell’erba la rotula, compagni e avversari e tu con una gamba sola ti stendi a terra a disagio, dico. Certa sarebbe la proliferazione di aziende che fanno rotule, dice. Di certo, usa e getta o durature, come le lenti o i rasoi, dico. Sarebbe un mondo strano in cui vivere, dice. O di certo quanto questo, concludo. Annuisce. Resta il fatto che non ho idea di cosa possa avere il suo ginocchio, dice. Anche i sintomi che riporta sono strani, inusuali, non c’è nulla di rotto, questo è evidente, sarebbe stupido anche fare una risonanza magnetica, non c’è trauma, nulla, dice. Di certo non sono pazzo. Le mie ginocchia nell’ultimo mese hanno qualcosa di strano. E come se una specie di forza corporea, un flusso non visibile, quotidianamente, scenda, forse dalla testa o dal bacino, e si posizioni lì, dico. Sta riempiendo ogni spazio disponibile rendendo il ginocchio sempre più pesante, dico. E ho paura che esploda, come una bottiglia troppo piena, dico. E questo flusso è un dolore? Una scossa? Un brivido? chiede. No… è un movimento interno, spiego. Non è doloroso, non lo sento nemmeno sul corpo. É quella pioggerellina che vedi attraverso la luce, ma non senti mai davvero, anche se poi, a casa, le calze sono bagnate, dico. Non ho mai sentito di qualcosa del genere, dice. Magari vengo da una realtà parallela, dico. Magari nella mia realtà questo è un sintomo comune, dico. Magari sto morendo. Continua a guardarmi. Continua ad attraversare il mio corpo. Sembra interessata a qualcosa dietro di me. Mi giro. Ma c’è solo una parete. Bianca. Tutto bene? chiedo. E che sa, credo di sentirlo anche io ora, dice. Cosa? chiedo. Il movimento, il flusso, dice. Su di me? chiedo. Annuisce. O certo, dico. Non sono venuto qui per mentire. È così tutto il giorno, tanto che ormai non me ne accorgo nemmeno più, dico. Potrebbe essere contagioso, dice. Non credo, ho vissuto una vita normale per un mese e nessuno dei miei colleghi ha detto nulla, dico. Bisogna stare attenti, dice. Già, dico. Non dico altro perché non mi va di parlare del mio lavoro. Degli altri. Della situazione sociale che vivo. E questo flusso si ferma nel ginocchio? Giusto? chiede. Esatto, dico. Mmm, sussurra. Molto strano, dice. Una volta ho letto un caso di un paziente che sentiva una forza attraversare costantemente il suo corpo, però da giù a su, nella testa, dice. E cos’è successo? chiedo. Credo l’abbiano rinchiuso in una specie di manicomio, dice. Cristo, dico. Oh non si preoccupi, se chiudono lei dovranno chiudere anche me, il flusso c’è, dice. Amen, qualcuno che inizia a capire. La ringrazio, dico. Ha qualche idea su come possa fermarlo? chiedo. Continua a fissare il nulla. Ad attraversare il mio corpo. Non ne ho idea, dice. Se una cosa non esiste non sappiamo come curarla, dice. Giusto. Questo flusso non esiste. O meglio. Esiste solo per noi, ora. Qui. In questo studio riscaldato. Questo paziente, quello del caso finito in manicomio, sa come sta? chiedo. I suoi occhi tornano vivaci. Credo sia morto, ma non ne sono sicura, dice. Quindi non hai idea di cosa possa essere? chiedo. Come potrei? dice. Giusto, dico. Mi scusi, dico. E che ho paura, dico. È normale, dice. Abbiamo paura quando ci prende una malattia che conosciamo alla perfezione. Malattie che seguono schemi formati da puntini, dice. Sintomo dopo sintomo ci uccidono, dice. E i pazienti li conoscono molto bene, dice. Sanno tutto. Eppure, hanno paura, sempre, dice. Sarebbe strano se lei ora, senza nessuna sicurezza, non avesse paura, dice. Potrebbe finire tutto da un momento all’altro, anche qui ora, dice. Potrebbe uscire sulle sue gambe e non dover mai più pensare alle sue ginocchia, oppure morire su quel lettino in un attimo, dice. Rimango pietrificato da queste sue parole. Non so. La dottoressa mi è sembrata una persona silenziosa. Forse timida. Oppure solo riservata. Oppure estremamente riflessiva. E ora mi parla di morte. Un dottore non parla mai di morte con un paziente. C’è così tanto oltre questa razionalità, continua dopo il silenzio. Vorrei aiutarla, ma non rientra nelle mie competenze, dice. E allora da chi devo andare? chiedo. O non credo esista nessuno, dice. Le sue ginocchia stanno accumulando e accumulando e accumulando tutto quello che lei pensa, tutto quello che lo rende umano, dice. Ma non potranno reggere per molto, dice. Se le va bene il processo finirà da solo, dice. Ora se vuole può andare nella stanza di fianco, così le faccio qualche ultimo controllo, ma non posso fare molto, dice. Annuisco. Mi alzo. Le ginocchia sempre pesanti. Esco. Un corridoio. La porta è in fondo. Apro. C’è solo un lettino. Mi stendo. Aspetto. Sento pulsare le ginocchia. Sento scendere il flusso con maggiore violenza. Mi sento stanco. Mi sento vecchio. Mi addormento.
Apro gli occhi. È confuso. Il mondo. Tutto. C’è un poster di Strade perdute. Uno di Avengers: Endgame. Un quadro della Madonna con Gesù bambino in braccio. La trinità. È la mia camera da letto. Sento le gambe indolenzite. Mi sento tutto indolenzito. Ma le gambe dormono ancora. Si è riattivata solo la parte superiore. Conta i passi che ti separano dalla fine. Su, fai una previsione. Così, senza nessuna base. Quanti anni credi di vivere ancora? Dipende da quanti ne hai? O credi di avere. Se hai vent’anni spera di arrivare a novanta. Settant’anni. Wow…. un sacco di passi. Le ginocchia diventeranno mongolfiere. Inizio a toccarmi le dita dei piedi. Sembra un film di Tarantino. Il formicolio inizia a sparire. La vitalità a risalire. Energia. Vivacità. Stronzate del genere. Mi siedo sul bordo del letto. Le piante dei piedi sul parquet. A casa mia non c’è nessuno. Nessuno che possa sentire il ronzio del flusso. Di un cartellone pubblicitario per la strada. Poggio la mano sulla libreria. Mi faccio forza con il braccio. Mi alzo. Molto più semplice di quanto immaginavo. Le gambe reggono. Le ginocchia al centro. Ci usuriamo come gli oggetti. La differenza la fa il tempo. Vado in bagno. Di fianco al lavandino è pieno di prodotti. Mi siedo sul cesso. Li guardo. Listerine. Colgate. Spazzolino normale. Elettrico. Dove deodorante. Dove sapone. Un pacco di rasoi Braun. Proraso schiuma da barba. Proraso dopo barba. Una crema che non ho mai visto. Un’altra che non ho mai usato. L’attenzione scende. Guardo dalla finestra. C’è una strada. Il cielo. Due palazzi di fronte. Un paio di persone camminano. Il flusso non c’è. Mi accorgo di non sentirlo. Di solito c’è. Sempre. Ovunque. Bagno. Letto. Tv. Sempre. Non prende pause. Mi tocco le ginocchia. Mi alzo. Mi metto a correre senza preavviso. Stretching. Allungamenti vari. Nulla. Corro. E funziona. Funziona tutto. Non sento nulla. Non c’è peso. Cazzo. Non pesano per nulla. Sono leggere. Corro dal bagno alla cucina. Poi nella sala della tv. Poi di nuovo in camera da letto. Poi in bagno. Mi lavo la faccia e continuo a correre sul posto. Poi torno nella camera da letto. Apro l’armadio. Mi metto un vecchio pantaloncino consumato. Corro nella camera della lavatrice. Dove ci sono le scarpe. Ne prendo un paio da corsa. Avranno vent’anni almeno. Le indosso. Metto la chiave di casa nella tasca della giacca. Esco chiudendo la porta. Inizio a correre sul marciapiede. Falcate lunghe. Mi sembra di essere attore di un musical. Mi sembra che tutti intorno a me siano contenti. Perché corro. Finalmente. Torno a correre. A vivere. Non sento più nulla. Non sento più un enorme peso che cerca di controllare ogni movimento. Perché sono guarito. Davvero. Ora. Mentre corro. Con il vento che sembra respingermi. Con la forza necessaria per controllare questo vento. Per non farmi buttare giù. Per non farmi uccidere. Sono sicuro di essere guarito.
Giuseppe Fiore è nato a Matera nel 98. È laureato in Comunicazione presso l’Università degli studi di Parma e ora segue un corso magistrale in Giornalismo e cultura editoriale. Ha pubblicato suoi racconti su varie riviste letterarie.