Io: prima di tutto c’ero io, e quel buco di casa che mi costava una paccata di soldi. Mi ero iscritta a un corso di laurea magistrale senza pensare ai se e ai perché: ero ancora in quel periodo della vita in cui puoi fare le cose a caso, perché ogni strada ti porterà da qualche parte. Mi interrogavo spesso sulla predestinazione della vita e sul libero arbitrio. Ma poi concludevo che, a conti fatti, una vita qualunque va bene, quando non puoi conoscere le altre possibili.
Ho cominciato a pensare di essere infelice un lunedì di marzo. Mi sono alzata dal letto alle 7, come ogni giorno in cui mi svegliavo viva. Le cose da fare erano: scendere dal letto e andare in bagno, preparare un caffè latte, infilare i libri e il computer in borsa, spegnere le luci, chiudere la porta di casa, andare a lezione. Ma non ho trovato le forze. Mi sono chiesta il perché. Avevo un esame quel giorno? Di solito, quando ho un esame, la mattina mi sento un po’ male. Conservo l’ansia stipata nello stomaco finché non è finito, e poi la lascio scivolare negli avambracci e nelle gambe, che mi fanno male fino a sera. Ma no, nessun esame. Ah, ecco. Ricevimento. Che ora? Alle 11. Online? In presenza? Ho preso il telefono, ho controllato l’appuntamento segnato sul calendario: ufficio del docente, dipartimento di Modernistica, secondo piano.
Un passo dopo l’altro. Hop, hop. Sono arrivata in cucina, spalmando una gamba dietro l’altra sul parquet. Mi sono preparata il caffè latte ma ne ho solo sorbito la schiuma con la punta delle labbra. Cosa dovevo chiedere al professore? Perché non mi ero scritta un discorso? Troppe cose da domandare, solo un quarto d’ora di tempo, il vuoto in testa. Sono rimasta qualche ora al tavolo, fumando un po’. Ho lasciato che il fumo mi scorresse tra le ciglia, sugli occhi. Ho raccolto i miei vestiti dal pavimento e li ho indossati: jeans stretti in vita ma larghi sulle caviglie, maglioncino a righe. Ho deciso di mettermi d’impegno per dare un inizio positivo alla giornata: in bagno ho steso dell’ombretto sulle palpebre, poi una linea di eyeliner e ho condito il tutto con del mascara. Ho anche arricciato i capelli con un ferro che avevo portato durante il trasloco. Nello specchio la mia immagine mi era molto familiare: lo era troppo, arrivava a nausearmi, come se, dopo tutti quegli anni, i miei occhi l’avessero leccata e consumata. Quando avevo assunto quest’aspetto? I boccoli leggeri sulle spalle, le orecchie forate, il viso simmetrico e proporzionato. Ho tirato la pelle qua e là con i polpastrelli, tastandone la plasticità. Avevo sofferto di acne negli anni precedenti, ma un buon dermatologo e una serie di sedute dallo psicologo per dominare lo stress avevano risolto il problema. Mi sono resa conto di aver trascorso anni a forgiare quell’aspetto, così femmineo, morbido, ma non del tutto coerente. I vestiti non mi cadevano mai giusti, ma sempre un po’ larghi sulle spalle e sui fianchi; d’altro canto, non sopportavo i tessuti troppo stretti sul corpo, mi sentivo soffocare.
Fuori il tempo era bello: in bici ci ho messo appena cinque minuti ad arrivare in facoltà. Ho dovuto aspettare qualche minuto in sala d’attesa perché ero arrivata in anticipo, e comunque il professore ancora non c’era. Quando mi ha fatto entrare, ho notato subito che aveva la cravatta larga sul collo e una scarpa slacciata: doveva essersi ricordato all’ultimo del ricevimento.
Buongiorno, ha detto.
Buongiorno.
Mi dica tutto.
Sì. Ecco.
Gli ho detto che volevo che mi facesse da relatore di tesi. E che mi sarebbe piaciuto continuare poi con un dottorato di ricerca. Di questo se ne può parlare in seguito, ha detto. Ha qualcosa da propormi? Mi interessa l’opera di Tondelli, gli ho detto, in particolare quella più giovanile.
Con Camere separate ha sparato tutte le cartucce, mi sono detta. Chissà se avrebbe pubblicato altro, se non fosse morto giovane. Mentre parlavo lui stava come sprofondato sulla sua sedia, la sua schiena enorme quasi inglobava lo schienale. Non era grasso, ma robusto e squadrato, nonostante fosse piuttosto basso; gli occhiali sottili gli inforcavano il naso e gli davano un aspetto più composto, mentre si sforzava di guardare al di sopra delle lenti. Teneva in mano un plico di fogli, l’altra mano la tamburellava su una gamba. Sentivo il suo sguardo spostarsi in vari punti del mio corpo, ma all’inizio non mi dava fastidio. Ha cominciato a farlo quando mi sono accorta che mi stava valutando anche da quello. Mi ascoltava più volentieri se mi distendevo, diventava ostile nel viso se mi irrigidivo, se cominciavo a contorcere le dita attorno agli anelli. Ogni tanto beccavo il suo sguardo fare un rapido scatto in giù, verso il mio seno, e tornare subito a galla. Un rapido cenno, come un sorriso, o una leccata. Ho pensato che continuare a parlare fosse la cosa migliore. Per non fargli sospettare che mi desse fastidio, o anche solo che l’avessi notato. Per non interrompere la mia spiegazione. Però ho spinto leggermente indietro la sedia, ho chiuso le spalle. L’ho visto immediatamente alzare gli occhi e puntare i miei, annuendo. Cosa cambierebbe se fossi maschio?. Su cosa potrei contare per avere la sua attenzione? Forse non mi servirebbe nient’altro che il mio sesso.
C’era stato un periodo in cui avrei potuto diventare un maschio. L’avevo voluto con tutto il cuore. Ero alle medie, avevo undici-dodici anni, e mi vedevo brutta. Ero troppo alta rispetto alle mie compagne, il che mi rendeva leggermente gobba, avevo un residuo di quella pancetta tipica dell’infanzia e il mio corpo sembrava bloccato in una condizione di stasi, di mescolanza di forme indistinte e poco gradevoli. Due punte sottili cominciarono a spuntarmi sul petto: era qualcosa che avevo previsto, le avevo viste su mia mamma e le altre donne della mia vita, la maestra, la tata. Mi ero sempre immaginata che prima sarei stata bambina e poi un giorno sarei diventata donna, senza mai pensare agli anni di passaggio. Alla trasformazione dell’una nell’altra. Per di più, la cosa non mi era mai parsa opinabile. Mi sarei svegliata un giorno donna, con un corpo ondulato e cremoso, forse madre di qualcun altro, e me ne sarei stata contenta. E invece, allo spuntare di quei primi piccoli seni, mi affrettai a prendere una lunga fascia di stoffa, un ritaglio di un lenzuolo, e ad avvolgerla più volte attorno al mio petto. Due, tre giri. Fino ad appiattire tutto. Sopra, una felpa larga. Volevo che nessuno vedesse, che nessuno sapesse, che soprattutto i maschi non capissero che non ero più come loro. Che stavo cambiando. Una sera, a una festa, ingaggiai la solita lotta sul tappeto con un mio compagno. Mi azzuffavo con i maschi da sempre, brevi combattimenti in cui ci spingevamo, mani contro avambracci, e in breve tempo li inchiodavo a terra. Quella sera andò diversamente. Tiè, mi disse lui. Io ero a faccia in giù sul tappeto, il suo ginocchio in mezzo alla schiena. Non ero riuscita minimamente a opporgli resistenza. Stavo diventando debole, non avrei più potuto fronteggiare i maschi. Mi misi a piangere.
Il professore disse, mmmh, e inspirò a fondo. Ma lei mi sta sottoponendo un macro-tema. In una tesi di laura non c’è spazio per occuparsi dell’intera opera di un autore, di un testo al massimo. E serve un tema di indagine, le suggerisco di stare sul linguistico. La invito a circoscrivere il progetto e a ritornare. Cos’avevo sbagliato? Non davvero la proposta: all’inizio era catturato, poi in qualche modo lo sguardo gli si era svogliato, aveva cominciato ad annuire di meno. Sono tornata a casa nauseata dal fallimento. Qualcosa nel mio corpo l’aveva annoiato, non avevo saputo usarlo bene. Perché tutto passa dal corpo, chi lo nega mente.
Ricordavo il momento in cui avevo deciso di essere femmina. Un giorno di terza media mi era arrivato un bigliettino sul banco, durante l’ora di scienze. Riportava una classifica con i nomi delle ragazze di tutte e tre le sezioni di terza, classificate dai maschi in base alla loro bellezza. I simboli che comparivano accanto ai nomi, però, mi facevano presagire che c’erano altri fattori in ballo: la chiavabilità – le due tette abbondanti disegnate in rosso – il fatto che fosse fidanzata e in qualche modo per questo più desiderabile – i due omini stilizzati che si tenevano per mano –, e una qualche simpatia generale che alcune femmine suscitavano a questo conciliabolo di giudici. Io ero in fondo. Il mio nome non c’era neppure, in quella lista, era stato scritto in diagonale nell’angolo in basso a destra. Accanto, una faccina con le sopracciglia aggrottate. Ci appoggiai sopra una biro e premetti fino a farci un buco. I maschi non mi avevano solo giudicata brutta, ma anche ostile. Le mie felpone, i miei capelli sottili e secchi, il mio essere dispettosa e guerrafondaia mi avevano condannata invece che aiutarmi. Il favore dei maschi che mi ero guadagnata alle elementari facendo a botte o arrampicandomi sui pali della luce si era estinto; a loro non interessava più fare gare e giochi da maschi con le femmine, ma guardarle camminare tra i banchi, sperando che nel mentre si aggiustassero le mutandine con una mano. Le femmine piacevano sorridenti, ben pettinate nei loro cerchietti viola, non scontrose e sudate. Comprai delle camicette. C’era un negozio in centro in cui andavano le ragazze più grandi, a volte da sole, a volte con delle amiche il sabato pomeriggio. Ci andai con mia madre dopo la scuola e presi tutti i vestiti che quelle ragazze toccavano. Camicette strette in vita e scollate sul petto. Un reggiseno blu a fascia. Jeans aderenti, di una taglia più piccola. Entrarci era questione di vita o di morte, o forse, peggio, di rispettabilità. Avrei portato top corti per attirare i loro sguardi. Avrei camminato composta e seguito le compagne di classe al bagno a ricreazione, invece di restare a giocare a pallina. Mi sarei innamorata dei rituali del corpo, del controllo dei brufoli, delle lamentele sul colore che mi sbatte. Ma il mondo delle femmine non mi ha mai accolta del tutto. Mi ha sempre un po’ annoiata tenere la porta del bagno a un’amica, trovo che sia anche un po’ offensivo. Fare le cose in due dava l’impressione che da sole non sapessimo cavarcela. Solo un anno più tardi, al liceo, anch’io cercavo i maschi per una compagnia diversa. Mi piacevano alti e forti, che giocassero nella squadra di calcio della scuola: volevo marcare l’infinita distanza tra i nostri corpi, il fatto che in nessun modo l’avrei potuto battere nella lotta.
Ho preso un altro appuntamento col professore. Ho fatto qualche ricerca e ho trovato un progetto più preciso. So che non è per questo che me l’ha accettato. È perché l’ho lusingato, obbedendo alle sue indicazioni e non intestardendomi a fare a modo mio, e perché sono tornata più ben disposta. Non ho più chiuso le spalle, l’ho lasciato guardare. Quel corpo che non mi è mai piaciuto del tutto, ma che ho costruito con incredibile sforzo, dovrà pur fruttarmi qualcosa.
Michela Grotteria