Lì nel quartiere lo chiamavano “il bastardo”, perché tanto per cominciare ce l’aveva proprio, la faccia da bastardo. Da ragazzino, morello e grazioso, pareva un bel saraceno – come disse una comare particolarmente ispirata – pronto a far razzie di grazie e cuori con la sciabola dello sguardo.
Ma crescendo si scurì di più, soprattutto nello sguardo, e s’allungò e affilò e curvò, così che a un certo punto cominciò a sembrare l’ombra di quella sciabola o, per dirla ancora con la comare, questa volta la vena insecchita d’anni e amarezze – una malombra. Tant’è che qualcuno, vedendolo, si segnava. Anche lui, il bastardo, si segnava, e pure in chiesa. Non ci metteva piede che per una spicciola questua, quando credeva che qualcuno gli avesse gettato il malocchio, o a propiziarsi una celeste occhiata di riguardo, che gliela facesse vincere, una schedina, e subito dopo si precipitava al tabaccaio dirimpetto alla chiesa. Il vizio del gioco o meglio, il gioco dei vizi, lo fece suo fin dalla prima giovinezza.
Allora, nei libri di scuola – quella scuola in cui non mise più piede dopo la terza bocciatura in seconda media, con sollievo dei professori, per lui era soltanto il bianco, il bianco tra le parole e attorno alle immagini e sui margini, ad avere rilievo e profondità. Te lo vedevi lì tutta l’ora a scarabocchiarlo, sordo alle risatine degli altri alunni e agl’aspri richiami dei professori. Quel bianco vibrava in lui d’un altro richiamo, ora più ora meno chiaro, ma forte, un richiamo a essere colmato. Lui ci provò, a riempirlo, prima di fregi incerti e subito dopo con sfregi d’ogni sorta, e più ci provava più quella vibrazione aumentava, si faceva fremito e grido, e il bianco enorme cieca mancanza. E poco dopo lui sentì, in qualche modo, oscuramente, che la mancanza non l’avrebbe certo colmata con quegli sfregi. Allora si dette in fretta e furia a farne altri, più ingarbugliati, più netti, più scuri: non solo con le mani, rompendo un sacco di cose, tra le quali una cattedra, una vetrata della sala da ping pong e un paio di nasi; ma anche coi piedi, come quando, sorretto per le spalle da un compare, camminava svelto sul muro dell’aula fino al soffitto a lasciarvi l’impronta delle scarpe; e con la bocca, dando schiamazzi primeggianti per frequenza e volgarità. A cui presto si aggiunse l’imponente vagito del sesso, soprattutto quello assieme alla sognata docente di musica, che spesso se ne veniva con dei vecchi sandali, i vezzosi piedi smaltati di rosso e dalla pianta che a lui pareva sempre scura di terra, una terra che seminò fervidamente di fantasie. Le quali fantasie, poco dopo, germogliarono tra i fiori e i frutti meravigliosi di alcune povere straniere che facevano l’antico e sempre giovane mestiere in un casermone popolare fra gl’altri.
Gli sfregi con la penna non li smise, anzi: appena poteva se ne stava chino per delle mezzore su una schedina, alle cui cabale lo iniziò un compare già scaltrito.
Il poco che vinse lo sperse nel solito, le femmine, i fronzoli alla moda, un’altra caccia ai soldi.
Da anni li faceva spacciando, col fior fiore dei malandrini, i quali, anche, lo chiamavano “il bastardo”, perché lui ci aveva provato con la femmina di uno e ancora non glielo restituiva, il prestito, all’altro.
S’era provato pure in qualche lavoretto onesto. Per un po’ aveva fatto il fruttivendolo, all’inizio di malavoglia, il cellulare sempre in mano, e dopo aver capito che un gruzzoletto poteva farselo in quel modo, aveva preso a soppesare pomodori come se fossero d’oro anche di fatto. Prima di scoprire che spacciando poteva guadagnare almeno il doppio, e nella metà del tempo.
A un certo punto finì agli arresti domiciliari, arresti che in effetti, per accortezze sue ma soprattutto inadempienze altrui, non furono che qualche scorrazzata mondana di meno, tra scorpacciate di videogiochi e pornografia. La mezza reclusione riuscì in qualche modo a chetarlo, a infondergli un vago senso e una voglia di maggiore tranquillità, e, finiti gli arresti cominciò a lavorare nella salumeria davanti a casa. A volte te lo vedevi sderenarsi di buona lena, come quando usciva dal negozio a impilare cartoni vuoti in un angolo o portare dentro quelli scaricati dal camion, cantando ora in sordina ora a gran voce una lagna ubriaca di foia e malavita, e pareva avesse capito che, al mondo, se quattro cartoni messi l’uno sull’altro restano dritti per un po’, è già tanto. E un due mesi dopo sparì dal negozio per non tornarci più.
Allora che non faticava, se ne andava in giro con una vecchia BMX rubata a un ragazzino, a torso nudo se non faceva freddo, il ventre pieno della birra che si scolava la sera al biliardo. Il bastardo si divertiva a giocare a carte e a fare il tifo alla pizzeria dell’angolo, tra i fumi della birra e delle grigliate, insultando i tifosi avversari fino ad accendere la rissa. Si divertiva anche a giocare a pallone sotto il porticato del suo palazzo, dribblando con agilità le bestemmie di chi parcheggiava là sotto. Si divertiva ad andare a puttane, certe volte solo per insultarle, a cogliere a balzello le femmine del quartiere, anche quelle fresche di prima fioritura e fin le spampanate e sfrante già da un po’, come la moglie del meccanico, il quale, appena l’ebbe saputo, fra urli e dimenii di orango gli ruppe la testa col cricket. E il bastardo, dopo qualche giorno d’irrequieta convalescenza, la testa ancora fasciata, ricominciò a fare lo scemo e a pregiarsene. Quelle cacce gli fruttavano di solito una smorfia sprezzante o un sorriso incerto e di rado una violenta avventura. Solo una volta, a sedici anni, perse la testa e trovò un cuore, lì nel suo petto, che pareva una colombella rinata a una calda luce. Successe con una giovanissima puttana. Lei era albanese e da un quattro, cinque anni si spostava in Italia di bordello in bordello, o almeno, così lui credeva, non proprio sicuro, perché non facevano che fraintendersi con un italiano poverello, sgangherato, e mischiato, quello di lei, alla sua lingua madre, e quello di lui al dialetto, e l’uno all’altro. Lei rideva, quando lui cercava di farsi intendere per bene, di spiegarle, ancora una volta, le sue “intenzioni serie”, i suoi progetti romantici, perché allora si infervorava tutto, in un modo che le riusciva buffo, e dolce. Grazie, diceva lei, ridendo a quel tenero sforzo d’una più profonda concordia, doveva sembrarle un bel dono, la cioccolata più buona, i fiori più profumati, la pietra più luminosa – no, forse questa no. Certo si può dire che lui, con lei, faceva l’amore, nel senso proprio che lo faceva, con tanto di giugulare gonfia e muscoli tesi, in quelle sue rozze premure, in quei conati d’intesa, in quegli abbracci dell’anima, lo faceva col sudore della fronte e col bollore del sangue, come un falegname, un giovane falegname farebbe la culla per il figlio, il primo, che attende.
E un giorno lei sparì, forse attratta da una più ricca alcova, o meno squallida, forse lontano da tutto questo. Nel paio di settimane seguenti, le furiose irruzioni nel bordello e gli appostamenti furtivi nei suoi pressi non valsero al bastardo che grandinate d’insulti e botte, e, dopo mesi e mesi di ubriacature, la dolorosa vividezza dei ricordi cominciò a illanguidire, le lacrime divennero brina e, a poco a poco, un guscio di freddezza sul cuore.
Anche al mare, si divertiva, a sferzare di sconcezze le femmine, a mangiarsele con gli occhi, la voglia di sbatterle lì sopra agli scogli come i pescatori coi polpi. A nuotare no. Non sapeva nuotare, nessuno glielo aveva insegnato. Non sapeva molte cose che molti sanno. Non sapeva, ad esempio, quando fosse il suo compleanno, se a novembre, o dicembre, l’undici, no, il dodici, come gli disse una volta suo padre durante una delle rare, brevi chiacchierate. A volte sapeva di non sapere o, meglio, ne aveva una vaga intuizione, come quando se ne rimaneva seduto in riva al mare, solo, in silenzio, a lungo, più a lungo se c’era una bonaccia serena, e guardava l’orizzonte lontano. Allora gli capitava di chiedersi dove fosse la donna che l’aveva messo al mondo. No, non sapeva neanche questo. Il padre non lo convinse, quelle poche volte che gli disse che era morta, perché lo fece con una tale voce, uno sguardo, che gli parve non rimpianto e nemmeno constatazione, ma desiderio. Comunque stessero le cose, il bastardo non conservava neanche un ricordo di quella donna. Invece, che quell’uomo fosse suo padre, avrebbe preferito dimenticarlo.
Pescivendolo, ubriacone, batteva il figlio perché a casa, invece di portare il pane, faceva la pacchia, o per un qualunque malumore, e da anni si sbatteva una donna d’aspetto e di senno muffiti, che faceva la puttana in casa di lui. A questa il bastardo non era mai così vicino come quando, fottendosene delle minacce e delle botte del padre sempre più amare, la derubava. Una volta le svuotò il portagioie contenente i guadagni dell’ultimo anno, il quale portagioie, in realtà, non portava che il poco frutto di molta pena.
Bastardo, anche perché fu cresciuto dalla strada, che era troppo grigia, dove scorgevi a malapena altro verde oltre quello di una vecchia campagna. Proprio lì lui ci andava, ogni tanto, a lanciare sassi al cielo, a strappare un fiorone, che gli addolcisse un morso d’amarezza. A volte se ne stava seduto per terra, in faccia un’espressione di scura definitività, lo sguardo fisso sull’erba secca, sulla distante, grigia muraglia di palazzi, come se avesse appena capito che, no, non c’era altro, e sì, lui sapeva già tutto, era tutto lì. E proprio lì un giorno incontrò un cane, un cane rognoso e zoppo, e subito gli scagliò contro parolacce e pietre, fremendo, e gli corse dietro e dopo un po’ s’inginocchiò e pianse, mentre il cane fuggiva. E, trascorso qualche giorno, dove aveva gettato pietre, pose pezzi di pane, e attese. Attese per ore o forse giorni e giorni di una strana malinconia, in un lungo sospiro, che il cane tornasse, come poi accadde. E da allora presero di tanto in tanto ad azzannarsi e carezzarsi e fare lunghe camminate nella campagna, e a parlarsi.
Poi, un pomeriggio, il bastardo uscì di casa svelto, l’occhio pesto dell’ultima litigata col padre, e d’improvviso corse per strada e si lanciò in avanti, la mano tesa al cane che in quel momento stava attraversando, lo zoppicare ormai grave di vecchiaia e malattia, mentre un macchinone s’avventava ruggendo. Il cane, spinto, fece una capriola, divertito, pensando che fosse uno dei loro giochi, e si alzò incerto e poi prese a uggiolare intorno al bastardo, che stava per terra, davanti al paraurti ammaccato dell’auto ferma, scomposto e immobile. Allora il cane dette un profondo lamento.
A lungo dette il suo profondo lamento.
Nicola Esposito nasce a Bari nel 1985. Nel 2009 pubblica Quattro chiacchiere con Altromondo editore. Nel 2013 con Petali di giglio si classifica secondo nel concorso “Scriviamo insieme”. Nel 2019 vince il concorso “Nessuno scrive” con Fiore di legno. Ha pubblicato racconti su diverse riviste, fra cui Come felice (Inutile), Fumo (Pastrengo), Nomade del deserto (Suite italiana).