Un padre

Una bara pesa un centinaio di chili scarsi, aggiungete gli altri novanta della salma. Contate pure la forza fisica, depotenziata dal pianto, di chi deve portarla in spalle fino al carro funebre: insomma, non è mica uno scherzo tenere sulle spalle una cassa da morto. E non è un’esperienza piacevole. La scalinata ripida, il clima solenne, i segni della croce che finiscono con il bacio della seconda falange dell’indice della mano che diventa quasi un pugno.

Forse piansi, forse no, di sicuro se lo feci fu più per l’atmosfera tetra e l’aria pesante che si respirava attorno a me che per l’avvenimento in sé: era morto mio padre, indubbiamente un evento grave, ne riconoscevo la portata storica per le vicende della mia famiglia ma addosso non sentivo emozioni davvero negative, in fondo a me non interessava più di tanto. Ero un adolescente nel pieno della fase ribelle, andavo poco e male a scuola e non sapevo che ne sarebbe stato di me negli anni successivi. E poi quell’uomo lo conoscevo poco e lo stimavo meno, non era un modello, a lui non mi legavano sentimenti positivi, era stato un criminale di bassa lega che ha aveva fatto la fine del topo, morto in quel carcere di Opera, nel Milanese, in cui odiavo andare una volta a settimana per il colloquio. Mi aveva forse insegnato ad andare in bicicletta? No. O magari a nuotare o farmi la barba quando mi erano spuntati i primi peli tra il naso e il labbro superiore? Macché. Non c’era nemmeno il 9 giugno del 1988, il giorno in cui nacqui, perché lui preferì stare in compagnia di una delle sue amanti.


   Si dice che l’indifferenza sia peggio dell’odio: ad essere sincero quel giorno, in una chiesetta alla periferia di Sondrio, ero soltanto un ragazzino indifferente nei confronti della morte.
Della funzione ho memorie sfocate ma credo sia stato un funerale semplice, con la predica del parroco, le preghiere e qualcuno che singhiozza durante l’Ave Maria. Negli anni per lavoro mi è capitato di assistere a riti strazianti con intere comunità in lutto per una bimba portata via da un cancro o per una giovane mamma che perde la vita mentre va a prendere il figlio a scuola: nulla di paragonabile all’addio a mio papà, che definirei privo di emozioni. In fondo aveva lasciato questo mondo una persona come tante altre – egoista e che aveva fatto del male a molti.


   Da adulto mi sono chiesto più volte se la mia sostanziale apatia rispetto a quel lutto fosse stata una reazione di difesa o se magari all’epoca fossi semplicemente troppo giovane per realizzare che non avrei più avuto uno dei genitori. Be’, a 33 anni posso affermare con certezza che la prima impressione fu corretta: non ho mai sentito il peso della mancanza di una figura paterna, o meglio, non ho mai sofferto di non avere lui accanto, perché so che mi sarebbe stato soltanto d’intralcio nel mio percorso di crescita. Detto questo, provo umana pietà per lui come per chiunque non abbia avuto abbastanza tempo da diventare un anziano con la barba bianca, nessuno merita di morire, per come la penso io nemmeno agli esseri più spregevoli si deve augurare la punizione estrema. Ecco, dovendo riassumere in un solo concetto, mi spiace che mio padre non sia vivo, ma non per il legame di sangue, quanto più per il dolore che mi causa la sofferenza di un estraneo. Sarà che nei primi anni di liceo mi sono ubriacato di libri su Che Guevara, ma tengo sempre bene a mente che un vero rivoluzionario non deve mai cedere al rancore e alla cattiveria ma al contrario essere in grado di provare compassione anche per gli sconosciuti e per chiunque sia in difficoltà. Amen.
In questi anni non sono mai andato sulla tomba di mio padre nonostante il cimitero nel quale è sepolto disti una decina di minuti di macchina da casa mia. Il motivo è molto semplice: sarebbe un atto ipocrita, una forzatura che non mi si addice. Non sono religioso e se pure lo fossi non credo avrei preghiere da dedicargli. Per quanto possa sembrare assurdo non ricordo la data in cui è morto, nemmeno quella in cui era nato ma so parecchie cose successe tra i due estremi e tanto mi basta per derubricare la sua esperienza terrena a una parentesi che di tanto in tanto affiora nella mia mente mentre sono impegnato a fare altro, sempre e solo quando qualcuno mi pone domande che riguardano la mia infanzia. È in momenti del genere, mi sarà capitato una decina di volte in tutto, che mi chiedo come sarebbe la mia vita se Nino (lo chiamerei così oggi, non papà) fosse vivo. La risposta non è mai cambiata: mi rispondo sempre che sarei sicuramente meno sereno e con più problemi, senza un grammo di amore ricevuto in più. O potrei non essere vivo, chi lo sa. Perché magari il coltello che il me bambino ricorda a un millimetro dal collo di mio fratello con me sarebbe potuto essere meno clemente. Non era raro che Nino minacciasse mia madre, mio fratello e le mie sorelle per avere dei soldi. Me lo ricordo bene chi era mio padre.

   Seppur nato al mare sono cresciuto in Pianura Padana e il trasferimento dal Sud al Nord Italia fu piuttosto traumatico. Un pomeriggio mentre addentavo un Cucciolone – avevo cinque anni – mia madre mi annunciò che il giorno successivo avremmo traslocato. Fu di poche parole, non era di buon umore, motivo che mi spinse a non chiedere troppi chiarimenti. Continuai a fare merenda, totalmente ignaro di cosa sarebbe accaduto meno di 24 ore dopo. Fino a quel momento avevo conosciuto alcune case oltre a quella in cui abitavo (mio padre non c’era mai, sempre impegnato per lavoro: così mi dicevano quando in realtà era in carcere): spesso dormivo a casa di mia nonna materna, ad esempio, e l’idea di cambiare aria era per certi versi entusiasmante, carica delle fantasiose aspettative tipiche dell’infanzia. Magari avrei avuto giochi nuovi, una stanza piena zeppa di pupazzi delle Tartarughe Ninja o almeno avrei rinnovato l’esercito dei soldatini così da poter buttare nel sacco della spazzatura quelli vecchi che erano rovinati e con armi tutte uguali, fucili troppo piccoli per le guerre che avevo in mente di sceneggiare sul pavimento della mia cameretta. Probabilmente di notte sognai anche il nuovo cortile che avrei subito trasformato in un campo di calcio ma anche in una pista dove far correre le mie macchinine e far vincere sempre la rossa (una Ferrari?) che era nettamente la mia preferita, ben più carismatica del modellino della Fiat 500 giallo e delle altre concorrenti.


Il grande giorno della partenza iniziò all’insegna della fretta. Mia madre mi vestì in maniera sbrigativa e anche la colazione fu più veloce del solito: latte con il Nesquik e biscotti ma senza neanche il tempo di chiedere il bis, che di solito mi veniva irrimediabilmente negato con la spiegazione che non dovevo mangiare troppi dolci. Di solito incassavo il “no” in maniera tutto sommato sportiva: la mia richiesta da goloso era diventata più che altro un modo per dimostrare l’apprezzamento per il pasto.  Da questo punto in poi ho un vuoto di qualche ora e riavvolgendo il nastro dei ricordi mi ritrovo tenuto per un braccio da un carabiniere e dall’altro da mia madre. Ecco come era iniziata l’operazione di trasloco, altro che giocattoli nuovi.  
Piangevo, attorno a me c’era un gran chiasso, decine di persone, in divisa e non, molti vicini affacciati alle finestre, grida, sirene che suonavano. Io reagii nell’unico modo possibile: piangendo a dirotto, anche se non sapevo bene perché. Ero in una situazione totalmente sconosciuta, eravamo a pochi metri da casa ma allo stesso tempo in una dimensione parallela, bisognava sbrigarsi ma non sapevo il motivo di quel trambusto.


   All’improvviso, le lacrime che avevo accumulato sul viso dovettero volare chissà dove nel momento in cui, con uno scatto secco, il carabiniere mi prese di peso, come si fa con un oggetto destinato alla cantina e in pochi secondi percorse il lembo di asfalto che separava il portone di casa da un’auto. Mi ritrovai, sconvolto e sempre più disperato, sul sedile posteriore, in mezzo, con a destra mia madre e a sinistra il carabiniere. Davanti due signori di cui intravedevo soltanto la nuca, quello di destra aveva una lunga coda di capelli neri. La macchina partii a tutta velocità, su un’altra o su altre due c’erano mio fratello e le mie due sorelle. In totale il corteo era composto da cinque o sei mezzi, tutti a sirene spiegate.


   Le buche delle vie di Catania resero il viaggio per l’aeroporto una sorta di rally furioso, un inferno a 140 chilometri orari che peggiorò ulteriormente il mio umore fino a quando mi addormentai sfinito dalla paura. Dovetti dormire per ore – anche se con vari brevi risvegli – perché il mio ricordo successivo è l’arrivo in un residence turistico di Peschiera del Garda. Oltre mille chilometri più a nord, provincia di Verona.


   Oggi so ciò che a quel tempo per ovvie ragioni ignoravo: la mia famiglia era entrata in un programma di protezione, era stata costretta a trasferirsi in una località segreta per evitare ritorsioni dopo che mio padre aveva deciso di collaborare con la giustizia. Erano passati pochi mesi dalla strage di Capaci del 23 maggio 1992, quando gli attentatori, uomini di Cosa Nostra, avevano fatto esplodere un tratto dell’autostrada A29, alle ore 17.57, mentre lì stava transitando la scorta con a bordo il giudice antimafia Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti di Polizia, sistemati in tre Fiat Croma blindate. Oltre al giudice, morirono altre quattro persone: la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.


   Ma, neanche a dirlo, io ero totalmente all’oscuro di quei fatti e la mia prima preoccupazione una volta giunti nel nuovo appartamento riguardò la televisione: avrebbero trasmesso anche lì i cartoni animati? E Bim Bum Bam con i pupazzi colorati? Fui rassicurato in tal senso e tirai un sospiro di sollievo. Ero indaffarato a programmare i miei pomeriggi davanti alla scatola magica e luminosa, ignoravo che non avrei più potuto vivere nella città dove ero nato e pure che non mi ero goduto nemmeno un secondo del primo volo della mia vita. E a dire il vero non avevo realizzato neanche che il luogo dove ci eravamo trasferiti era lontano quasi due ore di aereo da Catania. Ci stavamo nascondendo da criminali che avevano come unico obiettivo la vendetta: Nino pentendosi, infatti, aveva messo nei guai persone che a causa sua erano indagate, latitanti o in carcere. Ecco perché eravamo scappati accompagnati da tutti quei signori vestiti di nero e rosso, con il berretto con una fiamma ben in vista e la pistola.  


   I miei cinque anni mi tenevano al riparo dalla verità e non avevo idea del fatto che degli ex amici, dei colleghi diciamo, di mio papà volessero ucciderci, tanto che le settimane trascorse a Peschiera del Garda furono per me una pacchia: il residence era immenso e avevo fatto amicizia con altri bambini, figli di vacanzieri, insieme ai quali trascorrevo ore in piscina, o sullo scivolo, o sull’altalena;  furono giorni spensierati e con le ginocchia perennemente sbucciate, mi resi conto ben presto di preferire quella sorta di gigantesco parco divertimenti al quartiere che avevo abbandonato tra le lacrime pochi giorni prima.


   In quasi tutte le fotografie scattate nel corso del soggiorno obbligato in provincia di Verona appaio sorridente, abbronzato, ho i capelli corti e biondissimi. Anche mio fratello, adolescente e le due mie due sorelle, quasi maggiorenni, vengono ritratti in pose giocose, scanzonate, con magliette e pantaloncini dai colori sgargianti, in pieno stile anni ’90: a ben guardare, nonostante le premesse decisamente particolari, fu la vacanza più bella della mia infanzia. I nostri unici problemi erano le otiti causate dall’acqua della piscina e le discussioni che scaturivano riguardo a cosa guardare in tv dopo cena: mia madre, pur con quattro figli a carico e una vita da reinventare da zero, mai in quelle settimane ci fece sentire il peso di essere in fuga dalla mafia o anche soltanto di trovarci in una situazione spiacevole. Lei però era cosciente delle difficoltà che avremmo dovuto affrontare da lì in avanti e in questo senso le foto non mentono: in un paio di scatti con al centro io e le mie sorelle si vede lei sullo sfondo, sfiorita, con lo sguardo perso nel vuoto, spaesata tra quelle quattro che sapeva essere nient’altro che un rifugio sorvegliato dai carabinieri. Non le ho mai chiesto cosa provava in quel periodo ogni volta che l’ultimo dei suoi quattro figli chiudeva gli occhi fino al mattino seguente, posso soltanto immaginare l’angoscia che accompagna le notti di chi teme per la vita dei propri famigliari, il senso di terrore che si prova ad essere rinchiusi in una gabbia travestita da villaggio Valtur.


   Con mio grande rammarico arrivò il giorno di lasciare il residence. A mamma feci promettere che ci saremmo tornati almeno una volta l’estate successiva. E anche se non volle giurarmelo, mi disse di sì. Mi fidai o forse finsi di farlo per mitigare quel sentimento che negli anni a venire avrei conosciuto a più riprese il pomeriggio dell’ultimo giorno di settembre prima del ritorno a scuola. Certo era davvero una disdetta dover abbandonare un luogo con tutte quelle casette colorate, i vialetti abbelliti da alberi sempreverdi e un sacco di spazio dove giocare con altri bambini, alcuni dei quali, con mio grande stupore, parlavano una lingua che non capivo.
 Il trasferimento non fu lontanamente paragonabile a quello di pochi mesi prima quando lasciammo Catania, anzi fu l’esatto opposto, decisamente anonimo: delle persone suonarono il campanello, entrarono, ci aiutarono a portare giù i bagagli e in pochi minuti eravamo in viaggio su due auto. Nessuna divisa stavolta, niente sirene né curiosi che ci indicano o salutano. Non pianse nessuno, nemmeno io. Eravamo soltanto una famiglia che lasciava un luogo di villeggiatura per ritornare a casa, i carabinieri che ci avevano preso in custodia avrebbero potuto benissimo essere dei parenti, un po’ come quando uno scende dal treno e trova qualcuno che lo accompagna a casa. Anche noi stavamo tornando a casa. Già, ma quale?


   Il percorso fu breve, una mezz’ora e mi ritrovai in quella che stando al programma di protezione avrebbe dovuto essere la nostra nuova base per molto tempo.  L’appartamento si trovava a Verona, non lontano dallo stadio Bentegodi. Con il senno di poi è chiaro che il residence in zona lago altro non era stato che un primo appoggio, la tana individuata dallo Stato per allontanarci il più possibile dalla Sicilia prima di collocarci definitivamente. A seguito del suo pentimento da lì a poco meno di un anno mio padre sarebbe stato scarcerato per entrare anch’egli nel programma di protezione, il primo ricordo nitido che ho di lui infatti è di quel periodo. Tuttavia la nostra permanenza in Veneto non durò che qualche mese visto che la città non fu considerata abbastanza sicura, nel senso che i magistrati temevano che qualche membro della malavita potesse trovarci, immagino che le loro non fossero soltanto teorie ma supposizioni basate su prove. Qualcuno sapeva dove eravamo? Questo non lo saprò mai con certezza. Ad ogni modo, a Verona non si poteva più stare e di conseguenza a sei anni approdai nella mia terza regione, la Lombardia, in una piccola città, Sondrio, dove finalmente avrei trovato una relativa stabilità.


Vincenzo Corrado, classe ’87, catanese di nascita e mantovano d’adozione, è un giornalista professionista e lavora da 12 anni per la Gazzetta di Mantova. Nel 2010 con l’articolo “Arte e speranza nei territori dilaniati dalla guerra” si è aggiudicato la targa Athesis nell’ambito del Premio giornalistico nazionale “Natale UCSI – Unione cattolica stampa italiana”. Nello stesso anno è stato tra i vincitori del “Premio letterario 800 euro… forse!” organizzato dalla Cgil. Un suo contributo è stato pubblicato nel libro “Dove sono tutti? – Un diario collettivo della quarantena” (Editoriale Sometti, 2020) ed è coautore di “5G e il complotto maledetto. L’inchiesta che smonta tutte le fake news” (Amazon, 2020). A novembre 2020 ha pubblicato “Un’altra Mantova” (Editoriale Sometti). Nel 2021 per Scatole Parlanti ha pubblicato il romanzo “Cronache di quartiere”. Diversi suoi racconti sono stati finalisti in concorsi e premi letterari nazionali.

Redazione

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