Uova di pettirosso

Cara Sabina,

ti scrivo per dirti che ti raggiungerò presto.

Tutto è perfettamente in ordine, qui e nella casa di Gaeta; le bambine sono andate al mare con i nonni, a insozzarsi della sabbia impastata al mare e a godersi l’ultimo paio d’estati prima che la pubertà le renda intrattabili; il tempo si preannuncia un poco nuvoloso, ma credo che non mi sarà d’intralcio.

Adesso sono seduto nella mia parte di letto – non oserei mai occupare la tua – e scrivo appoggiato al ripiano del comodino. Di fronte a me, una fotografia del nostro matrimonio.

Tu, i capelli raccolti e il velo che ti solletica le spalle.

La tua grazia è un’orchestra di violini e il tuo profumo di quel giorno – era un biancospino di cui avvertivo per sinestesia il candore – attraversa dieci anni senza disperdersi.

Mi accarezza i sensi che l’odore alcolico delle tue lacrime ha provveduto a devastare negli ultimi tempi.

Sabina. Manchi da soli dodici giorni, ma è come se mi avessero scaraventato in un’altra vita. E manchi atrocemente anche a Giada e Gaia: quando le ho lasciate ai miei, sulle loro labbra si leggeva il tremolio di una domanda trattenuta; tu la puoi immaginare.

Loro sanno di Roma e della clinica. Sanno della tua salute, sanno di ogni cosa. Mi scrutano con quegli occhioni color uova di pettirosso – i tuoi, quelli che mi scrutarono, oltre un insospettato bicchiere di birra, a una festa di quindici anni fa – in attesa che io pronunci una risposta diversa dalle solite.

Però quella risposta…

Non importa, non ti voglio ammorbare. Non avrebbe senso.

Stanotte hanno dormito nella tua parte di letto, rannicchiate l’una di fronte all’altra con indosso certi pigiamini rosa a righe sottili che ho provveduto a comprare secondo i tuoi soliti gusti in fatto di abbigliamento.

A loro ho permesso di occupare il tuo posto.

Loro possono farlo, io no. Rischierei di sporcare la tua quiete – le edizioni limitate di un volto sgombro dagli affanni, del tuo respiro ancora sicuro – con la mia lancinante inquietudine.

Le ho ascoltate dormire tutta la notte: il loro respirare leggero si mescolava dentro di me ai rumori dei cocci di tutte le bottiglie che hai fatto fuori.

Quante sono state? Quando hai scelto di scivolare via nel gorgo del lavandino in cui ti ho vista rimettere fino alla nausea? E quando hai scelto di lasciare la mia mano, di lasciare la tua mano?

Le ho guardate dormire finché la serenità delle loro palpebre serrate non è diventata l’eterna ripetizione dell’attimo in cui avranno chiuso le tue.

Allora ho compreso che non ce la faccio neppure io; che ti assomiglio terribilmente, perché tu sei scappata dalla clinica perché ti lasciassero scappare da te stessa, e io ho lasciato le bambine ai nonni perché mi è venuta una gran voglia di fuggire da quegli occhi color uova di pettirosso.

Come posso vederli crescere, maturare in due volti che saranno di giorno in giorno più simili al tuo?

Come posso lasciarmi trafiggere ogni volta dal senso di colpa che animerà per sempre lo sguardo che non sono stato in grado di strappare alla rovina?

Lì invece, ovunque tu sia, sarai fatta di qualcosa come l’etere; non dovrò temerli.

Qui non posso fare a meno di sentirmi fuori posto. Perché tu sei andata via, hai compiuto il viaggio dei fragili.

Mi hanno annunciato la tua morte da una manciata di ore, eppure ciò ha instillato in me un tale desiderio di morire, un prurito come quello che mi dà l’assenza di nicotina.

Ho bisogno di fumare. Un’ultima volta, ho bisogno di affrettare una morte biologica che non avrà modo di raggiungermi in tempo.

Ecco, Sabina, la tua morte mi ha fatto sentire debole. Inadeguato alla vita.

Non sono bello e le tue battute non mi hanno mai fatto ridere! Guardavamo film diversi, ascoltavamo l’uno le canzoni che annoiavano l’altra; io ho riempito tutta la nostra libreria di classici e capolavori contemporanei mentre tu leggevi poco e male…

Io però ti amavo così tanto, e tu – ne sono certo – amavi me allo stesso modo.

Perché erano il male e la fragilità a renderci inseparabili, perché eravamo come pagine sottili unite dalla pioggia.

Il mio cappio è pronto in cucina, ho chiuso già le persiane.

Ho fretta di raggiungerti, Sabina.

Il mio corpo è debole, la mia mente non ricorda più la forza.

Andrò dal mio boia di corda, immediatamente.

Eppure, Sabina, sono tanto fragile, così tanto che persino questo mio gesto non è che una spinta superflua verso la morte.

In fondo basterebbe un soffio d’aria, leggero, per strapparmi a questo mondo…


Fosca Navarra (28/04/2000) nasce a Napoli, dove vive e studia lettere classiche all’Università Federico II.
Nel 2019 quattro sue poesie ottengono menzioni speciali nei premi letterari Ossi di Seppia e I colori dell’anima; nel 2020 un suo racconto viene inserito nell’antologia del premio Maria Cumani Quasimodo. Nel novembre 2020 il racconto “La gabbia dei tuoi sospiri” è stato pubblicato sulla rivista COYEmag. Nel 2021 è stata selezionata tra i semifinalisti del Premio di Poesia Wilde.
Ha un blog, foscanavarra.it, dove inserisce racconti, poesie e recensioni di romanzi esordienti.

Redazione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto