Avvertenza di morte

Caterina era seduta con la schiena appoggiata alla testiera del letto.

Sfilò una marlboro dal pacchetto e la tenne, spenta, tra l’indice e il medio. A tratti la portava alla bocca fingendo di aspirare. Con il pollice tormentava l’unghia dell’anulare. Non sapeva fumare. Non aveva mai imparato. Detestava quel puzzo, ma quel gesto, che aveva visto fare centinaia di volte a sua nonna, lo trovava potente e sexy. Era facile da emulare e l’aiutava a pensare.

E questo le serviva: ragionare sul sogno che aveva appena fatto.

– Tuo padre è morto – la voce di sua madre.

Di colpo aveva spalancato gli occhi spaventata e ansimante. Si era tirata su e aveva dato un’occhiata alla radiosveglia: le 3.00 spaccate.

– L’ora in cui i morti vengono a far visita ai vivi – le aveva spiegato sua nonna quando, a sei anni, per la terza volta di fila, si era svegliata e si era rifugiata nel suo letto. – Cercano la tua attenzione.

Caterina l’aveva presa come l’ennesima stramba storia che a sua nonna piaceva raccontare per farla addormentare, una di quelle popolate da bisbigli provenienti da muri, serpenti che si trasformavano in oro, alberi che celavano nelle loro radici profonde, scheletri parlanti. Un mondo sicuramente più affascinante delle fiabe che leggeva sui libri che i suoi genitori le regalavano.

– E cosa vogliono da me, nonna? – aveva chiesto curiosa.

– Vogliono essere ascoltati, forse anche aiutati.

Ma mai nessuno, nel corso degli anni, le si era palesato o le aveva sussurrato in un orecchio una sola parola. Quello che le anime di chi passava all’altro mondo si limitavano a fare con lei era solo un’avvertenza di morte. In genere non sapeva nemmeno chi fossero queste persone e riusciva a dare loro un volto solo quando ne apprendeva la notizia giorni dopo.

– Ma sai che zio Rolando è morto? – la informava sua madre.

– E chi sarebbe?

– Ma dai, quello che aveva gli animali imbalsamati! Ti ci lasciò nonna un pomeriggio quando eri bambina.

Si trattava per lo più di parenti lontani o persone con cui aveva passato poco del suo tempo e, per qualche oscura ragione, ci tenevano a comunicare proprio a lei, che se n’erano andati per sempre.

– Non è mai chi hai sognato – scimmiottò la voce della nonna rimettendo nel cassetto del comodino il pacchetto di sigarette ereditato, qualche mese prima, dal suo ex. – Chi sarà questa volta? Facciamo un toto-morto?

Il suo gatto, ai piedi del letto, la scrutò per capire le sue parole: stava valutando se la sua padrona fosse intenzionata a dargli la sua porzione di croccantini. Quando intuì che no, non era ora di mangiare, allungò una zampa, ci poggiò la testa sopra e si rimise a dormire.

La mattina dopo, come ogni mattina da un paio d’anni a questa parte, Caterina deviò verso il cimitero: da quando sua nonna era morta, peraltro senza uno straccio di preavviso, rendeva omaggio alla sua memoria facendole visita tutti i giorni.

Questo era quello che raccontava a tutti.

In realtà Caterina aveva sempre sofferto di un forte senso di inadeguatezza nei confronti di sua nonna: lei sì che era talentuosa: sapeva interpretare i sogni, era abile nel rito di Santa Monica ed era capace di prevedere il futuro con un mazzo di carte napoletane. Erano in tanti a rivolgersi a lei: Caterina aveva sempre detestato tutta quella gente che attendeva paziente il proprio turno nel salotto di casa e parlava a sua nonna con tanta riverenza. Cominciò a sentirsi diversa, non speciale, e sua nonna, d’altra parte, non le nascondeva il suo malcontento: lei, unica nipote, figlia di suo figlio, sangue del suo sangue, non aveva che un patetico abbozzo di dono.

Così quando sua nonna morì, prese a frequentare tutte le mattine – la sera no, ne aveva troppa paura – il cimitero, dove sperava di incontrare e parlare con qualche anima intrappolata su questa terra per dimostrare, non sapeva bene ancora se a se stessa o a sua nonna defunta, che anche lei ci sapeva fare con l’ultraterreno.

All’inizio si aggirava furtivamente tra le lapidi cercando di intuire se le poche persone che affollavano quel luogo silenzioso erano vive oppure no: già alla sua seconda presenza capì che non sarebbe stato facile nemmeno lì scovare un morto con cui parlare. Preferì allora soffermarsi sulle tombe degli infanti: dalle sue conoscenze filmiche, i bambini, soprattutto se orfani, erano gli esseri che avevano più cose in sospeso con questo mondo e in più sembravano avere l’onere di terrificare a morte le case isolate di campagna.

– Forse per questo non se ne vede nemmeno uno a giro – sentì la voce di sua nonna che la tormentava. O almeno così credeva.

Non si arrese: si convinse che prima o poi – ma non successe mai – qualche anima pia si sarebbe rivelata e avrebbe scambiato volentieri due chiacchiere con lei. Continuò a recarsi lì ogni giorno e finì per conoscere gli assidui habitué del cimitero: il fioraio, sua moglie, il custode e una donna anziana che se ne stava seduta davanti alla foto di un giovane sorridente a sgranare rosari: supplicava la Madonna di renderle l’unico figlio morto per un’overdose di eroina.

– E tu? Che ci fai qui tutte le mattine? – le aveva chiesto, qualche tempo dopo, la mamma addolarata.

– Vengo a trovare mia nonna –  mentì la prima volta e da allora perpetuò la sua menzogna: sua nonna era sepolta a chilometri di distanza dalla città in cui aveva scelto di vivere Caterina proprio per essere lontana da lei e da quel passato che lei stessa faticava a lasciarsi dietro.

Quella mattina Caterina notò che una volante della polizia ostacolava l’ingresso al cancello e che, vicino alla bottega del fioraio, tutti i suoi conoscenti e due uomini in divisa, si stringevano attorno a qualcuno.

I suoi passi divennero tutto a un tratto di piombo: cominciò a temere che lì c’erano le risposte a quello che era successo la notte appena passata. Rallentò fino a fermarsi: si era affezionata a quel gruppo e non aveva mai pensato che un giorno avrebbe potuto dire addio a qualcuno di loro.

Ferma da dove era, cercò di passare in rassegna tutti i volti alla ricerca di uno un po’ più emaciato, dal colorito bianchiccio e non più sofferente: quelli che riteneva fossero tutti segni inconfondibili del post mortem, ma, occhiaie a parte, sembravano tutti vivi e vegeti.

– Caterina! – chiamò la moglie del fioraio che si staccò dal gruppo. Cingeva con un braccio le spalle di una ragazza che non aveva mai visto prima.

–  Che succede? – riuscì a balbettare quando la coppia le si parò davanti.

–  Tu hai qualcosa di lui – mormorò la ragazza.

– Come?

– Lei è Sara – intervenne la moglie del fioraio. – Stanotte è successa una cosa orribile. Il suo fidanzato ha avuto un infarto ed è morto.

La ragazza riprese a versare qualche lacrima sommessa.

– Com’è successo?

– È una storia commevente – disse la moglie del fioraio.

– Ho conosciuto il mio ragazzo – cominciò Sara – qualche mese fa durante un necro tour. Siamo entrati subito in sintonia e ci siamo…

– Scusa cos’è un necro tour? – la interruppe Caterina.

– Si tratta di visite guidate all’interno dei cimiteri. Nessuno ci pensa mai, ma sono dei posti meravigliosi, pieni di memoria. E poi ci sono dei monumenti funebri veramente belli. Secondo noi… – Sara si bloccò e di nuovò pianse. La moglie del fioraio le fece una carezza sui capelli.

– E insomma io e il mio ragazzo avevamo deciso di venire in vacanza qui per qualche giorno e visitare questo cimitero. Avevamo deciso anche un’altra cosa – si fermò di nuovo e abbassò la testa vergognandosi per quanto stava per dire: – avevamo deciso che la nostra prima volta sarebbe stata qui, al cimitero.

– Al cimitero? – le fece eco Caterina sempre più stranita per quella conversazione.

– Sì – tentennò. – È che tutti continuano a dirci che le cose non durano per sempre, che solo la morte è certa ed è eterna. Beh, noi abbiamo pensato che volevamo un po’ di quell’eternità per la nostra prima volta e che c’era solo un posto così.

– Non è romantico? – domandò sognante la moglie del fioraio a Caterina che, da parte sua, aveva un’altra idea di romanticismo. Si limitò ad accennarle un sorriso.

– Giuro che lui stava bene – continuò la ragazza. – Ha avuto anche l’orgasmo e poi ha cominciato a rantolare. Allora sono corsa a chiamare aiuto.

– Scusa ma voi come siete entrati qui?

– Hanno scavalcato il cancello – rispose la moglie del fioraio. – Per questo c’è la polizia. Stanno cercando di capire se si deve sporgere denuncia per infrazione. Ma questi ragazzi non hanno fatto nulla di male.

Caterina non stava più ascoltando: era seriamente preoccupata. Cosa significava tutto questo? Che il suo non-dono era passato ad un livello successivo? Che tutte le sue notti sarebbero state scandite da ansiosi risvegli funesti? Che chiunque, conosciuto e non, ora aveva il permesso di disturbare il suo sonno per dirle cosa? Che era già morto o stava passando a miglior vita? Questa tortura doveva finire soprattutto perchè, in fin dei conti, cosa poteva fare per loro? Niente. Lei era completamente impotente.

– Tu hai qualcosa di suo – di nuovo la ragazza fece quell’affermazione che a Caterina sembrò più un’accusa.

– Scusa ma cosa intendi? Non conosco te e non conoscevo lui – si difese.

– Lo so ma è da quando ti ho vista che ho come la sensazione che tu abbia qualche potere. Io e Luca credevamo molto in queste cose.

Ora Caterina cominciava ad avere paura.

– Non è che per caso Luca è venuto da te stanotte? Il suo spirito intendo.

– Ma… ma cosa dici? – fece un mezzo risolino isterico e vagò con lo sguardo in cerca di un qualche conforto ma tutto quello che avrebbe voluto fare era piangere.

– Sara mi dispiace molto per la tua perdita – dissimulò la voce rotta. – Ora devo proprio andare. Sii forte.

Con un’alzata di mano salutò la moglie del fioraio e a passi svelti s’incamminò verso l’auto. Cercò nella borsa le chiavi e il telefono. Cinque chiamate perse di sua mamma. Non aveva voglia di fare conversazione con lei, non in quello stato. Ma lei, pensò, non chiamava mai così presto. Cosa aveva di così urgente da dirle? Cos’era successo ancora? Le mani cominciarono a tremarle. Sentì la paura divorarla.

Al secondo squillo sua madre rispose. Non un ciao, non un buongiorno, solo la sua voce che diceva:

– Tuo padre è morto.


Francesca Gentile, nata a Taranto nell’86. Ha studiato scienze biologiche a Firenze (città in cui attualmente vive).
Al momento si occupa di controllo qualità in un’azienda farmaceutica. Legge molto, ma mai abbastanza. Scrivere la aiuta a mettere in ordine le cose, più che altro i pensieri, ma anche le cose. Suoi racconti e recensioni sono apparsi su Biroconlaccento, Waste rivista e Quaderni Contemporanei. Ritardataria cronica e si lamenta sempre di tutto. Dipende dal cioccolato.

Redazione

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