Ho compiuto ottant’anni la scorsa settimana. Compimento di una vita abbastanza felice e fortunata. Per quel giorno, il destino mi ha riservato una sorpresa tenuta in serbo per otto decenni: mi ha regalato una bella leucemia mieloblastica acuta secondaria.
In pratica sono fottuto, come direbbe un accademico della Crusca.
Stanotte ho deciso, quindi, di raccontare una storia di cui non ho mai parlato prima con anima viva… cosa che esclude tutto il resto, essendo io un fervente materialista.
Prima di entrare nel dettaglio delle cose, aggiungo che ciò che accadde quell’estate è la sacrosanta verità.
Il motivo per cui non ho mai condiviso quegli accadimenti è semplice: non ho mai avuto voglia di parlarne con nessuno, e poi è una storia difficile da narrare… proprio difficile.
Perché parlarne ora? Perché ora sento avvicinarsi l’alito gelido della Trista Mietitrice e non m’interessa più nulla di ciò che gli altri penseranno, tantomeno di essere considerato un povero vecchio rimbambito.
Io devo assolutamente liberarmi di un pesante quanto sorprendente segreto, a cui la mia mente è riandata ogni singolo giorno della mia vita. Anche quello della laurea in Medicina, quello del mio matrimonio, della prima parcella, della prima macchina (un’indimenticata 1100 Tipo Lusso, bicolore). Anche il giorno della nascita dei miei due figli, ho pensato a Gigolè e a quei due anni trascorsi con la mia famiglia, da sfollato di guerra, a Furci, un paesino del medio vastese, in Abruzzo.
Era il 1942 quando arrivammo a Furci, da Pescara. Un cugino di mio padre ci ospitò alla meglio nella sua masseria fino al dieci giugno del ’44, quando le truppe inglesi e americane entrarono a Pescara con la cioccolata, le sigarette, il corned beef e il chewing gum.
A quel tempo ero un bambino minuto e dai tratti delicati, lieve come un sospiro.
Di quei bambini che i calzoni corti sembrano sempre troppo larghi a causa dei due ceppetti di gambe, magre da far pena. Quando guardo le rare foto di quei giorni, vedo un ragazzino dai capelli scuri, perennemente arruffati, occhi grigi dallo sguardo vivo e svagato e il viso minuto e affilato come quello di un topino.
La mia vita da bambino, in quel di Furci, si svolgeva secondo i ritmi antichi della natura. Nel paese vi erano pochissimi uomini, gli altri erano tutti sparsi per il mondo, a combattere una guerra delle cui origini avevano idee scarne e confuse.
Mi ero aggregato all’unica torma di bambini del paese, di cui all’inizio non comprendevo neanche il dialetto. Tra di loro vigeva la cruda ferocia del branco e io capii subito che, se volevo sopravvivere, avrei dovuto cercarmi un’intelligente posizione di gregario, evitando, al contempo, pericolose commistioni con singoli elementi del gruppo. La cosa non mi fu affatto difficile, avendo io sempre avuto un innato istinto di sopravvivenza e una forte forma di empatia. Cose che, nella vita, mi hanno spesso salvato da situazioni di estrema difficoltà. Come tutte le piccole comunità di questo mondo, anche Furci aveva il suo scemo del paese, l’ubriacone incallito, Regiamorte e la meretrice, Fenesìa Millecazzi.
Lo scemo si chiamava Gigolè, il suo cognome non lo conosceva nessuno. Era un essere dall’età indefinita, poteva avere trent’anni, come cinquanta. Era magro, alto circa un metro e sessantacinque, con lo sguardo spiritato. Si muoveva a scatti, in modo continuo e febbrile, vi era in lui sempre qualcosa in agitazione… un dito, un labbro, un piede. Zoppicava vistosamente, mentre il gomito e il polso del braccio destro erano bloccati ad angolo retto. Le sopracciglia circonflesse gli conferivano una costante espressione di spaventata sorpresa. La testa era quasi sempre rapata a zero e qualche cespuglio di barbetta stentata gli macchiava il viso. Comunicava, poco, in un italiano senza accenti, traducendo letteralmente dal dialetto; dialetto che capiva, ma non parlava, nonostante avesse abitato in paese per oltre vent’anni. Le notizie sull’arrivo di Gigolè erano confuse. La voce più attendibile datava l’arrivo di Sprusciavudille, il padre di Gigolè, subito dopo il termine della Prima guerra mondiale. Era arrivato a Furci un giorno di ottobre, con un bambino al seguito. Non aveva documenti, un nome, nulla… l’unica cosa certa era che chiamava il bambino, appunto, Gigolè. Parlava un buon italiano, senza accenti, e non ricordava nulla del passato. I suoi discorsi erano spesso confusi e tendevano a perdersi a metà strada. Con molta probabilità era uno dei tanti ex soldati che vagavano per l’Italia, prede dell’amnesia da shock da granata. Il bambino gli stava sempre attaccato ai pantaloni, dietro i quali si nascondeva all’avvicinarsi di qualunque essere animato.
Il giorno stesso in cui erano arrivati a Furci, la masseria Colascioli aveva offerto al padre il lavoro di pulitore di budella, per la preparazione di insaccati. Fu da questo suo primo lavoro che era scaturito il nome con cui venne conosciuto in paese: Sprusciavudille, spremitore di budella. Cosa l’uomo potesse spremere dalle budella, non è difficile da immaginare.
Sprusciavudille e Gigolè si erano sistemati così a Furci. Abitavano in un vecchio stazzo abbandonato, in località Murge, vivendo alla giornata, spesso aiutati dalla generosità dei paesani.
Gigolè cresceva in simbiosi con il padre, come un piccolo animale non svezzato; il braccio anchilosato e la sua zoppia lo tenevano lontano dagli altri bambini, accentuando così la sua diversità.
Poi, un giorno, all’improvviso, Sprusciavudille era sparito. Gigolè doveva avere una quindicina d’anni e per vari giorni si era aggirato per il paese e i dintorni, emettendo gemiti e urla strazianti, alla ricerca del padre. Anche i furcesi si erano mobilitati nella ricerca dell’uomo, esplorando i boschi e le rogge della zona, ma di Sprusciavudille nessuno sentì più parlare.
Dopo la disperazione dei primi giorni, Gigolè era sembrato calmarsi. Fu solo grazie all’intervento del parroco di San Sabino, che lo aveva nominato vice scaccino, che il giovane era riuscito a evitare l’internamento coatto nel manicomio dell’Aquila. Don Beato gli aveva trovato anche una sistemazione più comoda, ma Gigolè non aveva mai voluto lasciare il vecchio stazzo; probabilmente lo considerava la sua casa, il luogo che gli ricordava il padre.
Naturalmente, di svolgere il suo lavoro di vice scaccino non se ne era parlato affatto; girava per il paese con aria assente, saltellando sulla sua gamba matta. Si scuoteva soltanto quando la torma di ragazzini del paese, di cui spesso facevo parte anche io, lo prendeva di mira, lanciandogli addosso sassi e immondizia, al grido di: – Gigolè, Gigolè che lu padre più non tiè! –
Questo impietoso richiamo alla scomparsa del padre lo faceva fremere di furore, e allora cercava di acchiappare i suoi tormentatori con ridicoli saltelli, fino a fermarsi, ansante, con la bava alla bocca e il busto curvo in avanti, mentre mormorava oscure parole di maledizione.
Ho già detto che in mezzo a quella torma cenciosa di ragazzini spesso vi ero anch’io e, sebbene il tormento dato al povero Gigolè mi facesse fremere di indignazione, non avevo il coraggio di abbandonare quel branco di iene. E tantomeno di oppormi, cosa che era causa prima di un forte senso di colpa.
Ero solo un bambino pavido e vigliacco che non aveva il coraggio di dissentire o di opporsi ai tormenti inflitti a Gigolè; tormenti cui spesso partecipavo, anche se malvolentieri, fingendo allegria e cameratismo.
Per quel che riguardava Gigolè, invece, lui non era affatto il “mostro” buono.
In effetti rubacchiava, nonostante non ne avesse bisogno, la notte spiava nelle case, spesso masturbandosi. Tormentava con morbosa cattiveria lucertole e piccoli uccelli… insomma, era una specie di sadico, per fortuna non assistito dal physique du rôle.
Gigolè viveva allo stato semibrado, o almeno così pensavo, fino a una sera, era l’agosto del 1943, in cui, dalla finestra della stanza dove dormivo con un vecchio nonno dei miei cugini, lo vidi che guardava il cielo con una tensione e un interesse decisamente fuori dalle sue abitudini. Guardai in alto anch’io: era una notte serena di novilunio e c’era uno splendido cielo stellato, nient’altro, se così si può dire.
Gigolè faceva degli strani gesti con la mano sinistra sollevata; poneva le dita ad angolazioni diverse con una rapidità e una padronanza straordinarie, avvicinandole e allontanandole dagli occhi con movimenti febbrili.
Stavo lì a guardarlo da qualche minuto, affascinato, quando in lontananza salì il canto sgangherato di Regiamorte, l’ubriacone del paese.
Regiamorte faceva di professione il banditore. Era un omino gracile, alto neanche un metro e sessanta. Nell’illusione di migliorare la propria imponenza, indossava perennemente un cappellone bisunto a falda larga. Girava il paese sempre brillo, annunciando, con terrificanti suoni di corno, i migliori prezzi di verdura, frutta, carne e altre mercanzie. Sua moglie Floralia si ammazzava tutto il giorno sulle ginocchia da lavandaia, sbattendo riottose lenzuola estranee sul ripiano di marmo della fontana, guadagnando quanto appena sufficiente a crescere due figlie e ad alimentare il vizio del marito.
La voce si avvicinava nella notte:
“Voglio vivere così, col sole in fronte e felice canto, beatamente…”
Non appena Gigolè sentì la povera voce di Regiamorte avvicinarsi, si fermò con il busto proteso in avanti, nella direzione del canto, e rimase così, immobile, fino a quando la luce delle stelle disegnò sulla stradina bianca la nera figura dell’ubriaco che avanzava a piccoli passi incerti. Quando fu a pochi metri, Gigolè gli si avvicinò con la sua andatura saltellante. Nel momento in cui i due uomini furono l’uno di fronte all’altro, si fermarono, e con mia grande sorpresa si scambiarono delle parole, che però non mi giunsero intellegibili. Poi, s’incamminarono insieme verso il vecchio stazzo, scomparendo lentamente nel buio.
Rimasi talmente colpito da quell’incontro tra due solitudini emarginate che la sera dopo ero di nuovo alla finestra, nella speranza che l’evento potesse ripetersi. E così fu.
La scena si ripropose identica e io, dopo essermi assicurato che il mio vecchio compagno di stanza dormisse, cosa che faceva per la maggior parte del giorno e della notte, saltai dalla finestra, lasciandola accostata, e mi misi al seguito di quei due derelitti. Dopo un centinaio di metri giunsero allo stazzo di Gigolè ed entrarono nel rudere, lasciando aperta la porta sgangherata. Mi avvicinai con cautela alla parete opposta alla porta e guardai attraverso il muro a secco del piccolo edificio. Gli spiragli erano sufficientemente ampi da lasciar filtrare voci e immagini.
Rimasi in ascolto per più di un’ora quella sera, e lo stesso feci altre decine di volte nelle settimane successive. Dire che i due dialogassero sarebbe troppo… cioè, per parlare, parlavano ma, più che di un colloquio, si trattava di due soliloqui. La frase che Regiamorte ripeteva in continuazione, come un mantra, era: “Tutti dicono che Regiamorte beve, ma nessuno si chiede perché Regiamorte beve.”
Gigolè, invece, parlava in modo più vario e compiuto. Quasi sempre l’argomento dei suoi discorsi era la scomparsa di Sprusciavudille, suo padre.
Come ho avuto modo di dire, ciascuno di loro parlava per sé, senza ascoltare l’altro. Spesso capitava che Regiamorte si addormentasse, russando, mentre Gigolè continuava il suo discorso, imperterrito.
Di quelle notti, ricordo una divertente gara di scoregge, iniziata da Regiamorte e da lui vinta alla settima performance consecutiva, un evento che lasciò i due esausti dalle risate.
Ricordo, inoltre, un racconto di Gigolè e un discorso quasi compiuto di Regiamorte.
Era una notte di agosto, calda e afosa, e Gigolè si era lasciato andare a un racconto più completo del solito, naturalmente su suo padre.
“Era un uomo proprio fregno” diceva. “Girava intorno a un albero e sapeva quante foglie c’erano sopra. Io non l’ho mai sapute controllare ma sono sicuro che teneva raggione. Certe volte però gli veniva la pecundria e si richiudeva dentro allo stazzo per giorni e giorni… non pigliava sonno e poco mangiare fino a quando una bella mattina usciva fuori e mi chiamava che si sentiva fino a Vasto – Gigolè, ragazzo, dove stai? – e allora giravamo pei campi e i boschi per giornate sane sane e mi diceva le cose della vita, la morte, la natura, la scienza, la religgione anzi, le religgioni, che lui diceva che ce ne stavano tante e perciò nessuna teneva raggione”.
Sentii che la sua voce si rompeva dalla commozione: “Vicino a lui mi sentivo fregno pure io. Nessuno che mi rideva dietro o mi tirava la monnezza”. Tacque per un po’, pensieroso, poi annuendo, continuò: “Pensa, Reggiamo’, che era capace di ridisegnare un paesaggio che aveva visto nei giorni passati proprio tale e quale, come una frotografia.”
Sentii che si soffiava il naso e, dopo qualche minuto di silenzio, Regiamorte, che era rimasto miracolosamente sveglio, chiese: “Che successe poi?”
“Un giorno se n’è andato senza dire niente e non è più ritornato Lui è vivo, lo so, sono sicuro… ma perché m’ha lasciato solo?”
Regiamorte tossicchiò, imbarazzato: “Avrà avuto i suoi motivi, ma vedrai che un giorno, d’improvviso, tornerà e sentirai la sua voce urlare a squarciagola: Gigolè, ragazzo mio, dove sei?”
“No, non tornerà, lo so.”
“E se pure non tornasse… che importa, Gigolè. La vita è un lampo, nu fucarone e ddoppe… sole cessi pijne e cocce di morte, una fiammata e dopo… solo cessi ripieni e teschi.”
Continuò a dire “cessi pijne e cocce di morte” in una forma di coazione a ripetere, mentre Gigolè sospirava e singhiozzava, in silenzio.
Gigolè morì pochi giorni dopo quella notte.
Era un pomeriggio caldissimo di inizio settembre e giravo svogliatamente per le colline alla periferia del paese, insieme a Ciumbriccolo, un biondino ossuto e tutto nervi, e un altro ragazzino del posto.
Fui proprio io a trovarlo. I due ragazzi si erano fermati a raccogliere delle more polverose, mentre io avevo proseguito per una ventina di metri, quando, ai piedi di una parete di roccia alta poco più di due metri, vidi un corpo che giaceva scomposto tra due grandi sassi. Chiamai ad alta voce i miei compagni: “Uè, vuagliù…” e mi avvicinai con cautela. Il braccio anchilosato che Gigolè portava sempre accostato al petto era disteso intorno a un sasso, il corpo giaceva supino e un paio di ferite sulla testa sanguinavano copiosamente. Probabilmente era da poco precipitato dalla rocca, mentre cercava di arrampicarvisi. Era ancora vivo, dalla sua bocca usciva un fischio sordo, una sorta di lamento.
Quando arrivarono, i miei due compagni iniziarono dapprima a toccarlo con dei bastoncini, quasi con ribrezzo e paura, come avrebbero fatto con un grande animale, un bue o un cavallo, poi passarono a tirarlo per il gilè e i pantaloni. Lentamente vedevo nei loro volti la paura lasciar spazio alla morbosità: la sofferenza di quel corpo arreso li affascinava. Capii che era il momento di fare qualcosa e invece di proporre ciò che sapevo essere l’unica decisione giusta, e cioè correre in paese e chiedere aiuto, mi limitai a un laconico: “Che facciamo?” mettendo così il destino di Gigolè in mano a quei due bambini cenciosi e ignoranti.
Ciumbriccolo, dotato di un certo carisma, disse subito: “Portiamolo giù al paese.”
“Come facciamo, è troppo pesante” replicò l’altro ragazzino.
“Lo prendiamo per i piedi e lo trasciniamo”, disse Ciumbriccolo.
Io sapevo che era una pazzia, il terreno era molto accidentato e il paese distava più di un chilometro, ma non dissi nulla, per non assumermi responsabilità e non contraddire Ciumbriccolo.
Fu così che io afferrai un piede, mentre gli altri due iniziarono a tirare il corpo per l’altra gamba. Subito le asperità del terreno provocarono una serie di sobbalzi alla testa di Gigolè il quale, a un tratto, sembrò svegliarsi, sbarrò gli occhi e mandò un ululato agghiacciante, un urlo che avrebbe funestato innumerevoli notti della mia adolescenza.
Fu il suo ultimo segno di vita. Continuammo a trascinarlo come un fantoccio, con grande fatica, spargendo rivoli di sangue vermiglio sui sassi e sullo smeraldo dell’erba, finché Ciumbriccolo si fermò, si deterse il sudore dal viso con la falda della maglietta e disse: “Secondo me è morto e se non lo è ancora, sta solo soffrendo inutilmente. Se lo lasciamo qui, diranno che siamo stati noi a ucciderlo, a pietrate…” Poi indicò con il braccio un vicino boschetto di faggi ed emanò il giudizio, inappellabile: “La cosa migliore da fare è buttarlo nella malafossa.”
Neanche di fronte a questa orribile sentenza, io ebbi il coraggio, non dico di dissentire, ma neanche di dissociarmi. La malafossa era una cavità naturale di circa un metro di diametro, con una riserva d’acqua la cui superficie era a circa due metri di profondità rispetto al terreno circostante. Era una delle mete preferite di noi ragazzi, dato che spesso vi galleggiavano carcasse di gatti e altri piccoli animali. Non era molto lontana da dove ci trovavamo, e il terreno, in quel luogo poco impervio, mi permise un inutile sussulto d’indipendenza: non partecipai, cioè, al trascinamento del povero Gigolè fino a quella che sarebbe stata la sua tomba. Mi limitai semplicemente a scortare quel macabro corteo.
Arrivati al pozzo, i due ragazzi spinsero oltre l’orlo dapprima le gambe fino alle ginocchia, poi spostarono in avanti il corpo, fino a quando, quasi senza far rumore, il povero Gigolè sparì dalla mia vista.
Quando, timoroso, mi affacciai nella cavità vidi che l’uomo era caduto praticamente in piedi, appoggiato alla parete del pozzo. Emergeva la sola testa, con gli occhi sbarrati che guardavano, senza vederlo, il suo ultimo cerchietto di cielo.
Nei giorni seguenti, una colonna di tedeschi eseguì diversi rastrellamenti nella zona, e pochi notarono l’assenza di Gigolè. Solo i bambini, alunni di una selvaggia lezione di biologia, andavano al pozzo, per seguire da vicino il processo di putrefazione.
Poi arrivò l’otto settembre, l’armistizio, la fuga del re, le razzie di tedeschi e partigiani.
Del povero mentecatto si spense ogni memoria. Ogni memoria, tranne quella di Regiamorte e la mia.
Per diverse sere Regiamorte continuò a presentarsi sul luogo dell’appuntamento, fino a quando smise di venire e da allora non si fece più vedere. Io, invece, raccolsi il poco coraggio di cui la natura mi aveva dotato e, un assolato pomeriggio di fine settembre, andai a visitare lo stazzo che era stata la casa di Gigolè e di suo padre. Mentre mi avvicinavo, tutti i miei i sensi erano esasperati: sentivo il tripudio delle cicale e il ronzio degli insetti, il leggero crepitio dell’erba disseccata sotto i piedi, annusavo la sinfonia dei profumi settembrini: menta, rosmarino, lavanda… Quando giunsi allo stazzo, la porta era socchiusa, come sempre; la spalancai e attesi all’esterno, immobile, per quasi un quarto d’ora, fino a quando mi decisi a entrare.
L’ambiente era unico e buio, nell’angolo di fronte alla porta, appoggiati a terra, c’erano i giacigli: due sacconi riempiti con foglie secche di granoturco, poi due sedie impagliate, un tavolo sbilenco con alcuni piatti luridi, una caraffa di creta, un mozzicone di candela e un paio di bicchieri di metallo, con il manico.
Nell’angolo opposto vi era una vecchia cassetta di legno a doghe sottili, di quelle che si usano per il trasporto di frutta e verdura. Mi avvicinai, incuriosito, e vidi una serie di fogli di carta giallina, del tipo che si usava per impacchettare la pasta sfusa. Accanto alla cassetta ve n’era una risma intera, ancora imballata con una cordicella, il probabile bottino di uno dei piccoli furti di Gigolè, mentre nella cassetta stessa, insieme a svariati mozziconi di matita e pezzetti di carbone, era conservata una pila di quei fogli che riportavano misteriosi graffiti. D’improvviso, il frinire delle cicale cessò e io fui preso dal panico, arraffai d’istinto quelle carte e corsi a casa con il cuore in gola.
Quella sera e nei giorni successivi le guardai ripetutamente, quelle pagine: la maggioranza di esse riportavano disegni incomprensibili che richiamavano alla mente dei parallelepipedi, dei romboidi, linee ricurve… Solo un paio mostravano, invece, delle figure che potevano chiaramente definirsi geometriche.
Le conservai con cura, quelle carte, fino a quando, durante gli anni del liceo, sentii il bisogno di esaminarle nuovamente. Non appena riapparvero ai miei occhi, il mio cuore perse un battito, quei disegni presero forma compiuta e immediatamente capii cosa rappresentassero.
Ciascuno di quei fogli era una carta astronomica del cielo boreale. Tutte le costellazioni erano riportate con precisione, sia riguardo alle posizioni relative che alle loro dimensioni.
Gigolè aveva disegnato la volta del cielo sulla carta da maccheroni, con carboncini e mozziconi di matita!
Per decifrare, invece, i due fogli con le figure geometriche, mi ci vollero ancora degli anni e l’aiuto di Ermete, un mio amico, professore di matematica. Quando gli mostrai quei due fogli, dapprima mi guardò perplesso, poi vidi che, man mano che procedeva nell’analisi, la sua espressione si faceva sempre più intensa. Prese carta e penna e iniziò a scrivere una serie di calcoli, con accanto varie figure geometriche: triangoli, quadrati, rettangoli. Trascorse circa mezz’ora, poi appoggiò la penna sul tavolo, mi guardò per qualche secondo, in silenzio e infine disse: “Tu sei certo che chi ha disegnato queste cose fosse un analfabeta?”
Mi grattai la testa, perplesso: e risposi: “Beh, ti assicuro che quell’uomo non ha mai messo piede in una scuola o letto un libro o frequentato studiosi e accademici.”
“Tu sai cosa abbiamo su queste due pagine?”
“No, ma se tu lo sai, ti prego, dimmelo.”
Mentre parlava, Ermete indicava gli scritti con ripetuti movimenti dell’indice: “In queste due paginette, il tuo… Gigolè, o come si chiama, ha… ha dimostrato il teorema di Pitagora. Senza avere la minima idea di cosa fossero cateti, ipotenuse e quadrati!”
Io tacqui, sbalordito, poi Ermete continuò: “Devi sapere che nel corso dei millenni il teorema di Pitagora è stato dimostrato in tanti modi diversi, euclidei e non. Per stare più vicino a noi, abbiamo le dimostrazioni di Airy, Perigal, Ozanam, … Bada bene, però, questi erano tutti fior di matematici. Il tuo Gigolè, invece, era un genio allo stato puro!”
Mi sembra di vederlo, Gigolè, fermo a osservare una piastrella quadrata, come, probabilmente, a suo tempo aveva fatto Pitagora. D’improvviso, nella sua mente, la piastrella si divide, si moltiplica, si scompone, si sovrappone, si giustappone… gli rivela uno dei pilastri della conoscenza. La voce di Ermete mi riportò alla realtà: “Ma tu, l’hai conosciuto?”
“Certo”. Tanto che, probabilmente, ho anche contribuito alla sua morte, pensai tra me e me, poi continuai: “Ascolta, Ermete, se ho scelto la specializzazione in psichiatria, è stato proprio per cercare di comprendere meglio la personalità di Gigolè. Dopo anni di indagini e studi, sono certo che sia Gigolè che suo padre soffrivano della sindrome di Asperger, un disturbo della più ampia famiglia dell’autismo.”
Ermete emise un fischio di sorpresa: “Ma dài! Sembra che anche Galileo, Newton, Einstein… soffrissero di Asperger, lo sapevi?”
Sospirai: “Sì, amico mio, purtroppo la differenza tra il genio e la follia si chiama successo. Gigolè e suo padre non hanno avuto successo. Hanno vissuto da folli e come tali sono morti.”
Questa è la storia di Gigolè. Ora che l’ho messa su carta, dopo tanti anni, mi sento finalmente libero. Libero di morire in pace.
Fuori, il cielo che Gigolè conosceva così bene inizia a scolorarsi e un altro giorno viene a reclamare un pezzetto di questo vecchio corpo morente. Ma, niente commozione senile, ho avuto molto dalla vita, non mi lamento.
E Regiamorte? Qualche settimana dopo la fine della guerra, uno dei parenti che ci avevano ospitato a Furci venne a trovarci, a Pescara e, en passant, raccontò che il povero Regiamorte era morto, bruciato vivo nel vecchio stazzo di Gigolè. Qualcuno aveva parlato di un incidente, altri di suicidio, ma la cosa, in fondo, non interessava a nessuno, tanto meno sua moglie, e così anche il povero Regiamorte passò velocemente nella terra dell’oblio. Io lo so, ne sono certo, non fu un incidente. Ho ancora qui, nella testa, la voce incerta del povero ubriacone che recitava: la vita è un lampo: una fiammata e poi… solo cessi ripieni e teste di morto… una fiammata, e poi, solo cessi ripieni e teste di morto… una fiammata, una fiammata…
Ho letto da qualche parte che il posto migliore per osservare le stelle è il fondo di un pozzo.
Mi piace pensare che Gigolè sia ancora lì, nella malafossa, con gli occhi aperti sul suo cerchietto di cielo, a osservare il firmamento che scorre immemore sopra di lui.
Luigi Lazzaro, dirigente di una multinazionale. Tanti anni in giro per il mondo, poi una sera decide di cambiar vita. Torna al mare della sua Pescara e scrive racconti e romanzi che nel giro di pochi anni ottengono riconoscimenti in vari premi letterari, tra i quali: Premio letterario Il Molinello 2014, Premio Città di Torino 2014, Premio Città di Livorno 2015, Premio Riviera Adriatica 2015, Premio Voci, Città di Abano, Premio Terre d’Aspromonte 2015, Premio La Pira 2015, Premio Cerchiara, Premio Delitto d’Autore, Il Molinello 2016, Premio del Leone, Premio Voci Città di Roma, Premio Michelangelo, Premio Giglio Blu Firenze, Premio Inventa un Film, Premio città di Ascoli (premio della critica), XXXVI Premio Letterario Città di Cava de’ Tirreni, Premio La Città del Ponte, Premio Giano Vetusto.