Di Lucrezia la mia memoria serba pochi, significativi dettagli: i suoi occhi marroni in cui era facile smarrirsi; i capelli rossi del fuoco vivo dei vulcani e i seni prosperosi, bronzei per effetto del sole che, dalle nostre parti, splende alto e cocente.
Ricordo soprattutto la voce con cui incantava le piante e gli animali nelle distese verdeggianti ai suoi piedi, intonando le parole di una canzone ilare e sboccata:
fagioli dagli occhi verdi di Venere
mi date da mangiare
fagioli dagli occhi grandi di Venere
vi voglio venerare
fanciulli dai cazzi grossi di Venere
mi fate sospirare
Le parole giungevano fino a un gruppetto di singolari fagioli, cullati dalle note soavi e dal suono di flauto della sua voce.
Ciò accadeva, però, in assenza del padrone; non che fosse di natura aspra o malvagia, ma commerciava in fagioli e voleva che Lucrezia lavorasse tutto il dì alla cura di quella merce preziosa. Per lunghi periodi dell’anno viaggiava in lungo e in largo, portando sempre con sé la foto della donna che amava, una terrestre bruna con un grosso neo al centro del petto.
I fagioli dagli occhi grandi di Venere dormivano tanto. In prima fila, c’erano i preferiti di Lucrezia: Ixol, Loxi, Xoli e Oxli che erano anche i più indisciplinati. Si fingevano addormentati per guardare Venere fino all’alba, a costo di seccarsi le palpebre e restare ciechi. Quando gli occhi si rattrappiscono, i fagioli rossi di Venere perdono il loro caratteristico sapore di tartufo e così nessuno li mangia più. Chiedevo a Lucrezia da dove venissero quelle strane creature e lei mi diceva che erano piovuti sul nostro pianeta la notte in cui le stelle non avevano compagne e il cielo, riflesso sull’acqua, giocava col mare e gli astri giocavano con astri d’acqua. Venere era a soli 40 milioni di km quella notte, diceva Lucrezia sbarrando gli occhi marroni. Erano lì da tanto tempo, i fagioli, da molto prima che ci fosse Lucrezia. Dormivano in grossi baccelli piumati rossi, con corpi bitorzoluti segnati da venature sfuggenti e un solo occhio ciclopico e verde. “Questi fagioli sono gli animali più antichi della galassia”, mi diceva Lucrezia prima di cucinare il pranzo. Hanno un sapore di tartufo e le carni sono morbide e bianche.
I fagioli di Venere vanno prima spennati (con le piume Lucrezia vi cuciva meravigliosi gilet), bolliti e cotti al forno con patate e cipolle. Lucrezia spesso si scordava di amputare le piccole, forcute zampette nascoste all’estremità inferiore dei corpicini cosicché, se pranzavo da lei, mi si formavano bolle nella bocca che mi davano gran tormento. Lucrezia mangiava i fagioli per curare la sua sterilità. “Vedrai, un ragazzo di Venere prima o poi apparirà e avremo un figlio insieme”, mi ripeteva.
Una volta le chiesi se voleva avere un figlio con me. Lei scoppiò a ridere così forte che quasi cadeva dalla sedia. “Non possiamo avere un figlio” sosteneva “perché non vieni da Venere e non funzionerebbe”. Per molto tempo, offeso, non volli più andare a trovarla.
***
Quando tornai da lei, era seduta fuori la baracca e cantava la solita canzone, c’era il cri-cri dei grilli e un refolo di vento le muoveva i capelli tinti di rosso. Era bellissima.
“Perché non sei venuto più?” mi chiese. Non avevo il coraggio di guardarla negli occhi. Non dissi niente e, con gli occhi fissi sulla punta delle scarpe, mi lasciai sedurre dai miagolii lontani di un gruppo di gattini. I fagioli venusiani intanto dormivano, emettendo un borbottio monotono. Lucrezia mi prese la mano e mi invitò a seguirla: nella baracca c’era un letto su cui si stese, invitandomi ad abbracciarla. Facemmo l’amore, l’amore caldo, umido, pungente delle giornate estive.
Non li aveva mai visti i ragazzi di Venere, ma mi raccontava che se ne andavano in giro tirandosi dietro, ognuno, la propria carrucola in cui giaceva un fantoccio vestito con ciò che riuscivano a raccattare in giro: un paralume per cappello, un vestito rammendato con le foglie secche dei castagni di Venere e le guance colorate.
“E tu come fai a saperlo?” le chiesi.
“Lo so e basta” mi disse. Poi aggiunse che aveva da fare. “Tra un’ora viene il padrone e devo ancora potare le piante”. Me ne andai col sole che tramontava, triste, lungo le vie tortuose del paese.
***
Facemmo ancora l’amore per due o tre volte. La sognavo spesso; in sogno ci scambiavamo lunghi, sapidi baci in una piccola casa sulla spiaggia. A volte facevamo il bagno di notte e lei appariva, immersa nell’acqua fino al collo, come Venere nata dalle spume marine. Un giorno non volle fare l’amore e non volle neanche i giorni seguenti. Non mi parlava, ma andavo a trovarla lo stesso; mi sembrava stanca, spossata e non cantava più; se ne stava stesa a letto, lanciando contro il soffitto una pallina di plastica. Le chiesi perché fosse così triste.
“Ho pensato” disse trattenendo le lacrime “che su Venere ci sono anche le ragazze”.
“Non temere” le dissi. “Vedrai che verrà qui il tuo ragazzo, qui sul nostro pianeta, fosse anche per una breve vacanza”.
“Forse hai ragione”
“Facciamo l’amore?”
“No, non ne ho più voglia”.
“Posso almeno prendere qualche fagiolo per mio padre?”
“Accanto alla vanga ce ne sono un paio. Puoi prenderli e portateli via”.
***
I mesi che seguirono furono mesi di intenso lavoro, cosicché non ebbi occasione di incontrarla. C’era stata una grande tempesta di sabbia che aveva distrutto i raccolti dei contadini e mandato in miseria decine di famiglie; le strade traboccavano di animali morti e alberi con le radici all’aria. Per giorni, la via principale del paese era stata occupata da una triste carovana di disperati che abbandonavano le proprie dimore senza voltarsi dietro, a passi incerti. Il mercato, però, si tenne lo stesso, nonostante la sabbia che rendesse quasi impossibile distinguere la merce disposta sui banconi di legno.
Portai al mercato i polli che tenevamo in cortile. Come per miracolo erano sopravvissuti alla tempesta di sabbia. Lì vi trovai Lucrezia, preceduta dai fagioli di Venere che seguivano con l’occhio ciclopico il movimento dei pochi avventori: genitori che cercavano di allietare le giornate dei propri bambini con la poca roba che in mostra al mercato; un ometto barbuto che andava suonando il banjo e diceva di venire da Giove; un vecchio ubriacone, discendente di Ferdinando II di Borbone e altre figure meste e silenziose. C’era chi restava affascinato dallo sguardo dei fagioli e ne comprava una coppia e chi, spaventato, affrettava il passo e andava via. Lucrezia sembrava annoiata, con i gomiti poggiati sul bancone e le mani a carezzarsi il volto. Quando la torma di curiosi si dissolse, Lucrezia si accorse di me e mi sorrise. Credevo fosse felice della mia visita, così infilai per bene la camicia nei pantaloni e mi ravviai i capelli usando la mano a mo’ di pettine. Quando le fui di fronte, non si alzò, pur continuando a sorridermi.
“Lucrezia, non sai quanto mi sei mancata” le dissi di un fiato. “Come stai?”. Non rispose subito, ma sospirò. Mi sorrise e si allungò a stringere le mani tra le mie. “Sono incinta” disse. Sentii il suolo squarciarsi sotto i piedi e il corpo precipitare in un oscuro abisso sotterraneo, dalle pareti brune, caldo come l’intestino di un grosso animale; lo vidi precipitare nelle fauci del verme chilometrico che dimora al centro della Terra.
“Sono incinta, hai capito?”. Si alzò in piedi e notai il grembo rotondo, sotto la maglia tesa sul ventre. Non ero in grado di soffiar verbo.
“Perché non me lo hai detto prima?” riuscii a dire in un filo di voce. “Perché lui mi ha fatto giurare che non l’avrei detto a nessuno” mi disse.
“Lui? E chi sarebbe lui?”
“Edward, il ragazzo che viene da Venere”. Non conoscevo nessun Edward. Figuriamoci un Edward che venisse da un altro pianeta.
“Quindi è lui il padre?”
“Sì. Sarà una bellissima bambina”
“Come puoi saperlo?”
“È stato Edward a dirmelo”.
***
Il seguito del racconto è troppo triste affinché io lo racconti per esteso. I fagioli avevano certamente curato la sterilità di Lucrezia, ma non curarono la sua tristezza: Edward (se un Edward vi fu davvero) sparì così com’era venuto, di notte. La bambina non conobbe mai suo padre e Lucrezia attraversò in ampiezza e larghezza la nostra penisola per ritrovarlo. Cercò in tutti gli archivi anagrafici delle province di Venere, domandò ai viaggiatori spaziali, ai mercanti dei porti intergalattici, ai vagabondi, alle chiromanti, agli ingegneri calabresi emigrati sul pianeta. Ma la riposta, ogni volta, era la stessa: “Non conosco nessun Edward”. Una mia amica, nativa di una graziosa provincia venusiana, mi assicura che di Edward su Venere non ce ne sono da quando gli indigeni hanno cacciato i coloni inglesi nella I Guerra di Indipendenza venusiana. Così, guardando fuori con gli occhi fissi nell’infaticabile coacervo infernale che di continuo soffia sulle nostre plumbee dimore, penso a Lucrezia e all’ultima volta che l’ho vista al mercato su suolo terrestre.
Simone Capozzi, vive e sopravvive a Napoli, dove è nato. Ha pubblicato due racconti, “Il ponte dell’arcobaleno” e “Lon Chaney Jr, la bestia”: il primo su micorrize; il secondo per il progetto MR.HYDE-FRAMMENTI.