– La cosa che non mi aspettavo è quanta folla c’è tutta intorno.
Era quello che non smetteva di parlare. Non era esattamente un lui, era più una vibrazione, che percepiva come maschile. Era possibile una cosa del genere? Forse sì, perché aveva sempre avuto l’impressione che le anime detenessero un nocciolo indistruttibile di virilità o femminilità: alle volte era prominente a tal punto da rappresentare una bellezza della natura, un mistero sensuale; altre, invece, era invertito nei corpi, o, ancora, un misto affascinante dei due.
Suo padre, per esempio, deteneva un nocciolo di maschilità che non aveva mai consentito di essere spezzato o neanche scalfito: una cosa che s’era costruito a briciole di ferro, e che a spezzarlo ci si sarebbe portati appresso tutto suo padre. Pensava a lui e al fatto che prima significava in assoluto il tempo vero. Non ora, che non era. Ora non c’era più, e se ci faceva davvero attenzione, si sentiva attirato in ogni tempo e in ogni dove. Avvertiva una sensazione interiore che non era né una sensazione né interiore, ma era simile a un ricordo che deteneva, questo lo accettava; era come quando voleva starnutire ma poi tratteneva lo starnuto. Si teneva insieme con uno sforzo precario di energia.
– Mi aspettavo naturalmente della folla, ma non così tanta, tutta insieme. Prima mi creava problemi la folla, non ricordo bene. O forse la guidavo in qualche modo…
Se ci pensava ancora meglio, però, non gli riusciva di scomporsi a quella maniera, lasciarsi andare. C’era qualcosa che lo teneva insieme, che era più del ricordo. Che c’era e che era ancora molto presente, una sorta di orma sul fango denso: era la sua anima, ombrata dell’uomo che fu. Ma fu uomo? Non riusciva a dirlo. Quel nocciolo, che avvertiva così maschile in colui che parlava, adesso non gli sembrava così simile al suo. Adesso, se si guardava intorno in quel punto dello spazio che non riusciva ad abbandonare, non si sentiva uomo, maschio, lui.
Ma non si sentiva neanche femmina, donna, non si sentiva chi ricordava d’essere stato. Come se qualcuno stesse sfilacciando dall’interno il suo animo, anche se non gli appariva come una violenza, piuttosto un’energia attrattiva molto più forte della disgregazione. Ed era come se si sentisse molto più sé stesso di quanto non fosse mai stato. E nella scomposizione non gli riusciva di abbandonare quel posto. Era molto vicino a quell’uomo che parlava tanto a voce alta, e, se si guardava meglio intorno, si scopriva in prima fila, una di molte, davvero moltissime altre dietro di lui. C’erano persone vicino e, se si concentrava, riusciva a vederne l’orma; fu certo di non sbagliarsi quando vide che molti piangevano intorno a lui. Alcuni, un pianto disperato, persino. Ma quell’uomo non li sentiva. Era sicuramente uno di quelli che, anche nel tempo prima, sovrastava il silenzio che udiva dentro con quelle grandi urla. E ce n’erano tanti come lui, dispersi nell’infinita schiera.
Adesso era tutto silenzio, uno di quelli a cui non si scappa. Sì, c’erano le voci e il rumore delle lacrime, ma non c’era più il suono dell’essere vivi. Erano morti, tutti, e le lacrime erano come un residuo estremo di un passaggio dal sonno alla veglia, come usavano, alle volte, svegliarsi piangendo o ridendo. Non aveva mai fatto caso a quanto la vita fosse stata una questione strepitante. Però faceva caso a quanto dialogo avesse avuto dentro di sé, quanto monologo e quante discussioni: non aveva taciuto un attimo, e adesso era come se ogni voce che l’avesse contraddetto, frenato o spronato si fosse unita in una. E si fosse ritrovato. Era possibile sentirsi completi nella morte come mai ci si può sentire in vita?
D’un tratto provò un moto intellettuale così violento da sentirlo fisico. Quasi che il suo cervello, che non era più, si stesse agitando attratto da qualche soluzione che ora poteva avere. Forse si stava sbracciando per cercare Dio, o un dio qualunque, o un’entità non umana, a forma di fiera magari, davanti alle prime file, come se stesse lì a passarli in rassegna. Non c’era nessuno di diverso tra le schiere d’uomini, e, di fronte, non c’era che spazio vuoto. Non c’era colore né consistenza, forse avrebbe potuto dire che era un colore chiaro ma aveva idea che, della fisica che pensava di ricordare del mondo vivo, lì non ce n’era che una minima parte. Soluzioni spaziali a cui neanche i film di fantascienza più recenti erano giunti. Recenti al momento della sua morte, ma cominciava a pensare che fosse passato già del tempo.
E non s’erano mai mossi, da quelle schiere? Niente sembrava mutare. Forse quell’uomo continuava a parlare da secoli? Guardò le persone vicino a sé, e già non riusciva a dire chi fossero, cosa fossero, se donne anziane o ragazzi giovani. Cominciava a perdere quel concetto, vedeva solo l’energia in cui, in barba a ogni nozione metafisica, s’erano trasformati tutti. Forse voleva chiedere loro qualcosa, ma non gli riusciva. Non c’era più dialogo né comunità. Era come se l’individuo fosse la gravità vigente in quel luogo. Un gran silenzio e una gran solitudine. Ma non si sentiva tranciato o mancante. Non si sentiva ingrato di quel momento, solo curioso. Poteva ben restare e essere, senza gran baccano, come quell’uomo lì. Il silenzio non l’aveva mai spaventato. Si sentiva come al centro del mare immoto e freddo, e si sentiva bene. Forse che davvero la morte fosse una pace, come usavano pensare gli uomini? In fondo, il suo dialogo interiore non era mai stato per sovrastare il vuoto, ma da quello derivava. Era sempre stato a contatto con quel tipo d’esistenza che era il silenzio.
A volte la pace si squarciava e risentiva quelle grida. Ne sentiva altre, levarsi molto più in là nella schiera. Persone che urlavano arrabbiate. Persone che urlavano spaventate. Molte persone ammutolite, dallo spavento. Non provava nessun moto di compassione o pietà per loro. Si sforzava di capire cosa provocasse quel ritorno a se stesso, come una pallina di massa che lo attirava alla presenza, alla veglia. Piccole domande di senso: gli piaceva stare lì? Non gli dispiaceva essere morto allora? Non era oltraggiato da come era accaduto, non sentiva ancora l’offesa sul suo corpo? Lo ricordava, il suo corpo?
– Perché voglio ricordare? – Dovette chiederlo più volte, una sorta di battuta stabilita per ogni persona, come quell’uomo che diceva Non mi aspettavo tanta folla. Intorno a sé nessuno rispondeva mai, come nessuno rispondeva a nessuno. Era lui che doveva forse rispondere. Forse rifiutò di farlo a lungo. Non cambiava mai niente intorno a lui, e quindi non si aspettava un cambiamento. Eppure, fu ciò che accadde. Come piccoli pulviscoli di pietra che si staccano da un monte, i ricordi gli scesero dalla vita che fu: e si sfaldarono e lo decomposero.
Ero una donna, sì, una femmina. Passarono eoni di concezioni per questa identità, per il mio corpo: mi considerai tante cose, tanta civiltà e tante imposizioni che assimilai a me come cemento. Fui figlia di famiglia borghese, in un angolo di occidente, in una città bella; fui grassa e poi magra, ma con la vita all’altezza sbagliata e i fianchi più larghi delle cosce. E fui una professione, ma non so davvero quale. Fui una buona amica, me lo dice il sentore dell’affetto che mi rimane sul corpo, persino non avendolo più: dita strette, abbracci. Fui rabbiosa, non sarcastica né cinica, quanto rifugiata. Vissi per lo più al centro di quel mare freddo che mi portavo dentro, vissi al di fuori della quotidianità, vissi di storie, forse, di immaginazione sempre. Fui uomo e maschio, dentro di me, e senza Dio. Fui tutto, e lo sentii sempre. E nei giorni di lavoro, di sport, di aperitivi, e ancora di scoperta, di viaggio, di volontariato, di conoscenza, tutto questo era in equilibrio. Adesso invece si sta squilibrando tutto di nuovo, come succede prima di essere cresciuti, a favore di ciò che sentii sempre vero e che vissi come vero: non c’è altro che la mia immaginazione. E tutto fu immaginazione, anche le risposte più crudeli di mio padre. Anche la mia malattia, e la morte così truce. Tutto era immaginazione viva. Che fece il suo corso, anche nei momenti più reali possibili. Cosa fui, dunque? Una mente femminile.
Non s’era mai sentito validato in vita. Non s’era mai sentito ricompensato di una sorta di scontento che non aveva avuto origine. A volte aveva proceduto per inerzia, per curiosità, a volte per soddisfazione. Ma non aveva trovato il senso di se stesso. S’era sentito di sforzarsi per vivere nel tempo che doveva vivere, con la musica che doveva ascoltare, con la concezione che doveva avere delle relazioni e della famiglia. Sforzarsi di dirsi che tutto va bene, che la vita è fatta di alti e bassi, e che piangersi addosso non aiuta, e forse era stato un individuo particolarmente forte, uno su cui poter contare nelle sventure. Se c’era qualcosa che non andava, era solo per sforzarsi di più e reimmettere i grandi tifoni di insensato al loro posto. Guardandosi intorno, pensò che doveva essere stato così per tutte quelle persone. Che tutti avevano contribuito a formare il continuum del mondo vivo, la realtà come era apparsa a tutti, il maschile e il femminile ai lati opposti dell’esistenza, la società fondata sul lavoro e i successi, le regole del bello.
Forse era stata solo una sensazione piccola. In fondo, s’era sentito imperatrice di antichi regni fatti a immagine del suo destino, s’era sentito una maga del mito che viveva nelle isole assediate, s’era sentito Alessandro Magno e altri eroi non sopravvissuti al ricordo, s’era sentito le parole incise sui sepolcri e le ossa che si trovavano nelle fosse preistoriche. S’era sentito le veneri obese venerate dalle civiltà matriarcali. Ma era vero? Forse doveva sentirsi stelle, quelle che i telescopi umani non avevano mai trovato. Forse doveva sentirsi la sedicesima dimensione fisica con cui si svolgeva la realtà, occupandone ora la diciottesima. Un tipo d’esistenza che la sua immaginazione non aveva neanche prodotto. Pensato questo, si disgregò. Abbandonò le schiere in mezzo a ooh stupefatti, che ammutolirono persino quell’uomo, e sentì spararsi lontano a velocità inimmaginabili.
Per un po’ non fu che scintille di fuoco. Non c’era dolore, naturalmente. Non c’era sensibilità. Per moltissimo tempo, non ci fu che risonanza. Poi in un momento gli sovvennero antiche sensazioni: il sudore sotto al seno quando d’estate risaliva dal mare, la sensazione dei capezzoli che uscivano dall’areola, la sensazione della digestione dei ceci; di più, la sconvolgente vergogna di mostrarsi nuda la prima volta a qualcuno, l’idea che la lubrificazione del suo sesso potesse nauseare qualcuno, la sensazione di disagio di certe sere al tavolo con persone nuove che dicevano cose strane, il rivangare delle emozioni altrui che gli erano rimaste dentro come piccoli traumi. Andò avanti così per secoli e secoli forse, e accadde contemporaneamente in ogni frammento di sé. Per secoli e secoli, vagò per un universo a questo modo, piccole scintille di senso e sensazione. Quando prese a riaggregarsi, ma non con tutti i suoi frammenti, ma piuttosto con diversi altri, fu lì che ricominciò il tempo. Ne ebbe una sensazione nervosa fortissima, che prese a scandire la sua esistenza.
Il tempo era la cosa più insensata che ci fosse, la prima cosa a dar senso a una vita, e non cambiò mai: capì che era già stato così, una volta, due, tre, e che era questa sensazione che tutti gli esseri umani portavano con loro sempre e per sempre. Capì anche ciò ch’era successo in morte: s’era così affaticata d’essere se stessa e donna, che si era ricordata solo nelle sue parti maschili. Non per spregio né per rivalsa né per offesa: per riposarsi un po’. Quando riprese ad essere esistenza, seppe già che non c’era scelta: che stava rinascendo donna. Non in una bambina, naturalmente, ma stava rinascendo vita femminile: non ebbe parole per moltissimi secoli, per poterlo descrivere, pensare o immaginare, ciò che era ora. Ma sapeva che era una immaginazione femminile all’opera. Al tempo piaceva ciò che era stata una volta, e non lo scartava nell’evoluzione. Se non altro, a lei piaceva cosa era stata una volta.
Ma stavolta forse avrebbe provato a esserlo di più, pienamente e liberamente. Forse sarebbe stata maschio e femmina, sarebbe stata debole oltre che forte, sarebbe stata sarcastica, sarebbe stata bella, sarebbe stata un eroe di un mito magnifico. O forse sarebbe stata sola immaginazione, e avrebbe inventato una galassia che non era nei piani del tempo. Forse avrebbe rincontrato anche alcuni di quei morti, che tanto tempo ci mettevano a disgregarsi: era la cosa più difficile per gli uomini lasciare andare chi erano stati tanto convinti d’essere. Per lei fu, invece, l’atto più femminile mai compiuto in tutta la sua vita, ritrovare la sua assoluta libertà di non essere.
Chantal Salvinelli, vive a Fiumicino. Nata a Roma nel 1994, per questa città ha nutrito fin da piccola un grande amore, visitandone gli innumerevoli musei e luoghi d’arte. Ama la cultura umanista e le lettere, pur avendo studiato, ed essendo attualmente laureanda, in materie scientifiche, in particolare nel campo dell’Odontoiatria e Protesi Dentaria. Ama anche a dismisura il cinema e le serie tv. Vive cercando di mantenere l’equilibrio tra la poesia e la scienza.