Il cielo a croci

Aveva un giradischi rosso, in plastica. Di quelli portatili, grande poco più di un libro, senza angoli taglienti perché fatto per bambini, con una grande griglia a quadri che lui apprezzava moltissimo per il suo disegno geometrico e per il fatto di poterci mettere le dita dentro, rovinando il timpano di sottile retino metallico che vi era dietro. Era poco più di un giocattolo che avrebbe funzionato anche a batteria, ma lo sportellino era rotto e la presa, attaccata al lungo filo nero, penzolava quasi come fosse la coda malamente arricciata di un vecchio animale domestico, che subiva afflitto le sue ruvide attenzioni.

Faceva sempre così, dopo le cinque e un quarto e dopo il tè, preso rigorosamente con quattro biscotti bianchi e neri sempre poggiati sull’orlo del piatto, bianco, in modo che le parti scure ne fossero fuori.
Il giradischi non esisteva tutto il giorno se non dopo quell’ora, che sentiva arrivare e basta.

Arrivava perché c’era la merenda, i biscotti sul piatto e quindi la sua immaginaria passeggiata.

L’oggetto aveva ormai la sua età. Troppi graffi e lui, qualcosa del genere.

Durante la passeggiata rituale, lo teneva come una valigetta e girava intorno, mentre lamentava ripetutamente un ritornello senza strofe, facendo un altro invisibile e pensoso cerchio nella sua bocca, dal quale le parole non passavano per non bruciarsi nell’aria e gli colavano dalle labbra in fili di bava densa, se la cosa gli piaceva più del solito.

Nel cassetto della sua stanzetta c’erano varie cose di cui si dimenticava e ricordava in modo improvviso. Molti giocattoli rimediati e un po’ rotti e soprattutto qualche disco.

Erano quarantacinque giri, pezzi romantici di gente ritornata oscura, ma soprattutto molte colonne sonore e sigle dei cartoni animati dalle coloratissime custodie di carta – troppo leggera per non sciuparsi una volta toccata.

Sua madre aveva sperato che le canzoni potessero calmarlo, nel suo scattare continuo per ripetere gli stessi gesti. Come saltare dalla sedia improvvisamente battendo i piedi e contare qualcosa in aria a denti stretti, per poi soffiare, cinque o sei volte, un lamento monocorde e poi rimettersi seduto a dondolare il tempo con la testa, come un metronomo.

La musica di solito calmava molto, diceva la psicologa. Ma con lui non era successo.

La musica lo irritava.

Gli era piaciuto solo il giradischi e quello doveva tenerlo lui, ogni giorno, per lo stesso tempo. E poi niente. Indispensabile per l’immutabile quantità di minuti oltre i quali l’avrebbe gettato a terra o messo via con poco garbo. Sua madre l’aveva pure cronometrato per curiosità nervosa, perché lui non era normale ma in testa aveva un orologio perfetto, una letale sveglia che strillava e non si inceppava mai, come invece facevano i suoi movimenti.

E la sua passeggiata in cui girava, e girava. A volte come sul punto di cadere.

Rompeva tutto. Ogni cosa. Se non si poteva rompere non era interessante e il fatto che non fosse interessato ai dischi li aveva salvati da questa sua necessaria furia.

Sembravano così lontani i tempi delle copertine delle canzoni che sua madre aveva ascoltato, guardando fuori per anni la vita degli altri e più spesso sentendola, mentre fissava il cielo a strisce nere sempre, ma qualche volta profondamente azzurro.

I dischi erano ricordi immaginari e lei ci teneva, anche se non li ascoltava mai per malinconia e soprattutto perché lui, alla musica, urlava. Urlava tantissimo e con una voce che era diventata sempre più spessa e profonda, sempre più minacciosa, come le sue mani sgraziate e feroci.

Non aveva cura di nulla se non in certi momenti. Valeva anche per lei. Una carezza e poi le mani diventavano ganci per gli occhi, tanto sembrava fissato a strapparglieli.

Certo era più facile lottare con un bambino e le sue unghie, piuttosto che conservare i denti rotti in bocce, in attesa della fata nera che l’addormentasse per sempre.

A volte però, provava ancora tenerezza per lui e lo rivedeva piccolo, un timido cucciolo di cane disordinato che, finita la sua passeggiata solitaria, lasciava il giocattolo e si buttava a terra a cercare qualcosa da afferrare e mordere; qualcosa che poi tirava via, per continuare a dannarsi più in silenzio, fino al prossimo scatto.


Era nato in galera, perché lei era lì. Si era sempre chiesta se non fosse divenuto a quel modo per colpa sua e di dove era cresciuto. Ma quegli anni erano stati nulla, alla fine. Almeno rivisti dopo i tanti trascorsi fuori. Quando erano usciti dal carcere si era sentita libera, senza aver capito che quello era il suo primo giorno d’ergastolo. Ma aveva tanto impresse le righe nere da non capacitarsi di aver dimenticato il cielo intero, che le parve persino più grande.

Lui invece, tenuto per mano, neanche aveva alzato gli occhi, ma solo iniziato a contare. Contato fino a cinque e poi ripetuto. Continuamente, fino alla strada, alla scala, alla nuova porta. Che non si era chiusa dietro di loro con quel tipico rumore metallico.

Nella sua nuova casa lui era parso arrivare tranquillo, in sospettoso silenzio per ore. Ma ad un tratto aveva ordinato di tornare alla precedente stanza, per poter dormire. E quando aveva capito che non sarebbe più stato là dentro, dove già si pensava per una certa precisa ora, aveva iniziato ad urlare e pestare. Urlare e pestare per terra e contro i muri, così forte che smesso con i pugni aveva iniziato con la testa. I vicini avevano protestato come non potevano fare altri vicini, altrove. Ma con l’andare del tempo anche loro si erano abituati. Non lui a quella casa.

Alla perdita della sua prima stanza, non si era ancora rassegnato dopo tanti anni e sua madre lo capiva dal tono che certe volte aveva il suo urlo.

Certo, lei non sapeva che lui ricordava il pavimento grigio, la muffa parlante in macchie con le bocche, gli interstizi da toccare solo sugli incroci e solo con la punta della scarpa.

Aveva ridisegnato, non sporcato a caso, quel pavimento vecchio sul pavimento nuovo della sua nuova stanza e cercato ogni giorno il rassicurante rumore delle cancellate e le urla fuori, dopo una certa ora e forse il cielo a croci.

O forse non vi aveva mai badato, al cielo.

E anche se la casa che avevano era buia, la vista era su un muro e vi erano grate alle finestre, a lui mancava molto quella cella. La cella che aveva un bellissimo muro da grattare, la notte.

Anche sua madre rimpiangeva la prigione, ogni giorno.

Da bambino aveva fatto molto più silenzio, tra quelle mura. E, qualche volta, lasciata sola senza di lui, lei aveva potuto ascoltare persino la musica.


Mattia Alari è nato tra due mari ma naufragato lontanissimo. Si occupa di critica e ha sempre scritto, ma solo di recente ha deciso di condividere le sue storie. Attualmente studia Inglese e sceneggiatura. Alcuni suoi racconti sono su Malgrado le Mosche, De-Siderium, Salmace, Formicaleone, Bomarscè e altre riviste.

Redazione

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